Commento
al Vangelo della XXVIII Domenica del T.O. B 2012 (Mc
10,17-30)
Il
giovane che voleva salvarsi
Dal
medesimo contesto del Vangelo può rilevarsi che Egli era tutto
compreso da questi pensieri, poiché rivolse uno sguardo di
particolare amore e attenzione a un giovane che gli si presentò, per
domandargli che cosa avesse dovuto fare per acquistare la vita
eterna. Non dimentichiamo che Gesù Cristo era Dio, e come tale aveva
tutto presente: le sue parole non erano mai ristrette in una visuale
limitata, e riguardavano i secoli. Psicologicamente, diremmo quasi:
se Gesù non avesse avuto il Cuore tutto pieno d’amore per la
gioventù di tutti i secoli, non avrebbe manifestato una particolare
benevolenza a un giovane che veniva a Lui più con una velleità di
perfezione che con una vera volontà di essere santo.
Quel giovane, infatti, venne da
Lui correndo
e manifestando così
l’entusiasmo dal quale era stato preso, e genufletté
innanzi a Gesù,
perché era come affascinato da quel volto divino. Corse, e
nell’avvicinarsi e vederlo così sorridente, si entusiasmò della
sua divina bellezza e bontà, e lo chiamò buono:
Maestro buono che farò per acquistare la vita eterna?
Forse da lontano aveva visto con
quanto amore aveva accolto i fanciulli, ed era rimasto conquiso da
quella bontà così insolita agli arcigni farisei. Gesù volle fargli
riflettere che quella bontà non era un tratto di gentilezza umana,
ma scaturiva dalla divina bontà che diffonde la misericordia e la
grazia, e soggiunse: Perché
mi chiami buono? Nessuno è buono fuori di Dio solo. Egli,
poi, continuava ad aver presenti i
secoli futuri, i
tristi secoli della profanazione dell’infanzia e della gioventù, e
volle proclamare contro i
falsi padri e i
falsi amici dei giovani che
Dio solo è buono, Dio
solo può attrarre con la sua bontà, e che la pretesa paternità dei
tiranni verso i giovani è solo un inganno per accalappiarli.
I giovani – come questo del
Vangelo –, corrono,
perché sono
dominati dall’impeto dell’entusiasmo; genuflettono,
perché hanno
una dedizione piena nel loro entusiasmo, e riguardano come buoni
quelli che li
attraggono, perché sono dominati dalla bontà e anche dalla
bellezza.
Gesù volle dire che solo la
bontà e la bellezza di Dio dovevano dominarli, e che essi non
potevano avere aspirazioni fantastiche, ma dovevano avere come unica
guida la Legge di Dio. Per questo soggiunse: Tu
sai i comandamenti: Non commettere adulterio, non ammazzare, non
rubare, non dir falsa testimonianza, non frodare nessuno, onora tuo
padre e tua madre. Dunque
è assurdo che vi siano altri decaloghi; è empio e nello stesso
tempo ridicolo che un uomo di partito ardisca imporre i suoi
precetti. La gioventù non può essere educata che nella legge di Dio
e, se una qualunque altra legge prescinde da questa, serve solo a
confonderla e a corromperla.
Forse il giovane del Vangelo,
entusiasmato della bontà di Gesù, tratto da un desiderio confuso di
misticismo e di perfezione fantastica, comune ai giovani nei loro
impeti generosi, immaginò di sentire da Gesù precetti nuovi e
regole complesse di vita spirituale; perciò provò un certo
disinganno alla risposta che ebbe, e soggiunse, non senza una punta
di compiacenza, che quelle cose le aveva osservate fin dalla sua
prima giovinezza.
Il Redentore, a questa
confessione di fedeltà alla Legge, guardò con tenerezza il giovane
e lo amò. Forse
gli manifestò questo amore abbracciandolo o ponendogli la mano sul
capo; certo gli diede segni di particolare bontà.
Ma non conosceva Gesù che quel
giovane era già un osservante della Legge? E allora, perché gliela
ricordò? Non sapeva che non avrebbe aderito al suo invito di
maggiore perfezione? E allora perché lo invitò?
Lo guardò e lo
amò; eppure
proprio allora quel giovane stava per abbandonarlo pieno di
scoraggiamento.
Sembrano tutte oscurità
insolubili, eppure non lo sono se si riflette ai pensieri profondi
del Redentore: Egli parlava prima di tutto ai
giovani più che
a quel giovane, e
volle affermare solennemente il dovere che essi hanno di porre, come
base della loro vita, la Legge di Dio.
Volle provocare dal giovane una
confessione di piena osservanza, per mostrare a tutti i giovani che
non è affatto impossibile, alla loro età, custodire tutti i
comandamenti di Dio. Sapeva che il suo invito ad una maggiore
perfezione non sarebbe stato accolto, ma lo fece lo stesso, perché
la sua misericordia non cessa di chiamarci e non si abbrevia su di
noi solo perché gli siamo ingrati.
Egli si rivolse, inoltre, allora
ai giovani
ricchi, ai quali
la vita sembra sorridere con maggiori attrattive, e mostrò anche ad
essi la via dell’eroismo. La loro condizione di privilegio
temporale non può giustificare in loro una minorazione spirituale,
ed essi possono benissimo giungere alla vetta dell’eroismo,
lasciare tutto, darlo ai poveri e, spogli dei beni temporali, cercare
quelli eterni. Così hanno fatto, nella Chiesa, moltissimi santi, e
l’invito di Gesù non è rimasto inutile; il giovane al quale parlò
se ne andò rattristato e sconsolato, ma tanti giovani, ai quali
indirettamente si rivolse, hanno accolto a migliaia il suo invito e
la Chiesa è popolata sempre di poveri volontari che scelgono Dio
solo come loro porzione e per loro eredità.
Le
ricchezze che rendono poveri, la povertà che arricchisce
Il giovane che parlava con Gesù
aveva molti
possedimenti; non
era semplicemente un ricco ma un proprietario, e perciò era
impigliato in mille affari e preoccupazioni temporali. Per ascendere
veramente a una grande perfezione avrebbe dovuto liberarsene, perché
è quasi impossibile badare alle cose celesti tra gli assilli di
quelle temporali.
L’esortazione di Gesù Cristo
non era per lui un invito all’eroismo, ma diremmo un invito alla
logica, e anche alla vera tranquillità; era logico lasciare tutto
per conquistare Dio, ed era fonte di pace liberarsi dal peso delle
cose terrene. Si potrebbe anche, psicologicamente, supporre che quel
giovane fosse andato da Gesù proprio in un momento di angustie
temporali; forse gli era sopraggiunto qualche disastro, qualche
disinganno, qualche perdita, perché è raro che un’anima si muova
verso ideali più grandi senza un disinganno della vita.
Ad ogni modo, quando egli ascoltò
che per essere perfetto doveva lasciare tutto, si sentì come
ricadere nel campo della realtà e, per reazione psicologica, si
sentì più attratto ai suoi beni. Diciamo per reazione
psicologica, perché
noi siamo spiriti di contraddizione: vorremmo che gli altri
assecondassero le nostre vedute pessimistiche e, quando non le
assecondano, vi reagiamo; domandiamo consiglio non per ascoltare la
verità, ma per sentirci confermati nelle nostre persuasioni;
l’opposizione le fa rinascere più forti; ci appelliamo al parere
di un sapiente, perché inconsciamente crediamo che non possa essere
diverso dal nostro; se egli ci contraddice, il nostro giudizio
immediatamente s’ingigantisce e vuole riaffermarsi; vogliamo essere
incoraggiati non dissuasi, spinti non arrestati, elogiati non
contrariati. Questo tumulto di sentimenti dovette agitarsi nel cuore
del giovane alle parole di Gesù, e per questo si
rattristò. Egli,
poi, se ne andò
sconsolato, perché
vedeva impossibile andare dietro a Gesù, dati gli affari che aveva
da sbrigare nei suoi possedimenti; aveva concepito una profonda
simpatia per Lui, e il pensare di non poterlo seguire lo sconsolò, e
se ne andò triste.
Quanto
è difficile che i ricchi entrino nel regno di Dio!
Gesù Cristo vide, in quel gesto,
tutta una storia, e col suo sguardo divino vide passare, in quel
giovane, le generazioni dei ricchi del mondo che avrebbero ripetuto
il suo gesto. In quel momento quel poveretto era una rappresentanza e
una figura di quelli che s’impigliano nelle cose della terra, e
perciò Gesù esclamò: Quanto
è difficile che quelli che possiedono ricchezze entrino nel regno di
Dio!
I discepoli rimasero
stupiti per le
sue parole, non tanto per il loro significato spirituale che non
approfondivano, ma perché le crederono un assurdo. Persuasi, infatti
che il regno di
Dio, ossia il
regno del Messia, dovesse essere un regno visibile e temporale,
sembrava ad essi logico e naturale che i primi a farne parte
dovessero essere i ricchi e i grandi del mondo. Anzi, sembrava loro
che il reclutare un ricco nelle loro fila dovesse essere un gran
vantaggio, sperando nell’aiuto che le sue ricchezze avrebbero
potuto dare allo sviluppo della loro opera.
È questo, infatti, il punto
debole di quelli che compiono qualche opera santa; è la breccia per
la quale penetra nel cuore la fiducia umana e per la quale sfugge la
piena fiducia che bisogna avere in Dio.
Per questo Gesù soggiunse, pieno
d’affetto, compatendo alla loro debolezza, e pieno di dolore,
considerando la loro mancanza di fede: Figliolini,
quanto è difficile che entrino nel regno dei cieli quelli che
confidano nel denaro.
In quella parola di tenerezza:
Figliolini,
traspariva anche
il dolore di Gesù per il giovane che si era allontanato; Egli
guardava con maggior affetto paterno i suoi cari perché allora
glien’era sfuggito uno, e il suo Cuore pareva che se li volesse
stringere al petto per non farli sfuggire. Che pena dev’essere per
il Redentore delle anime perdere un’anima! Che pena gli facciamo
noi, se non rispondiamo ai suoi inviti d’amore!
Nella risposta data agli
apostoli, Gesù Cristo determinò che non intendeva parlare dei
ricchi come tali, ma di quelli che
confidavano nel denaro. Con
questo, volle disingannare i suoi cari nel loro pensiero occulto che
un ricco sarebbe potuto essere un aiuto al loro apostolato. Per
mostrare loro le difficoltà, anzi che le ricchezze potevano opporre
gravi difficoltà al regno di Dio, usò un proverbio che allora era
comune per indicare una cosa impossibile: È
più facile a un cammello entrare per la cruna di un ago che un ricco
entri nel regno di Dio. Dicendo
queste parole Egli penetrò i loro cuori e li illuminò; fece
intendere loro che il regno di Dio non era un semplice frastuono di
apparenze, ma consisteva nel suo dominio paterno nelle anime, e
perciò essi, passando da un concetto temporale a uno spirituale, si
stupirono maggiormente, pensando che era impossibile praticamente la
salvezza dei ricchi.
Come avviene nelle anime non
ancora formate, essi passarono da un estremo all’altro, e
considerarono come impossibile la salvezza dei ricchi, allo stesso
modo come avevano creduto un vantaggio averli nelle loro fila. Gesù
Cristo corresse il loro pessimismo, esortandoli a confidare nella
grazia di Dio a cui nulla è impossibile; la salvezza è facile
quando si confida negli aiuti celesti, è ardua quando l’anima si
lascia attrarre e dominare dalle ricchezze. Le opere di bene, fondate
sulle speranze umane falliscono; quelle fondate sull’aiuto divino
prosperano. Ecco il grande segreto del regno di Dio.
Chi
lascia tutto e segue Gesù…
San Pietro, vedendo Gesù
rattristato e amandolo di particolare amore, volle consolarlo,
dicendogli: Ecco,
noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. Voleva
dirgli con un senso di soddisfazione: “Puoi essere contento di noi,
poiché abbiamo fatto quello che tu desideri”.
Non rifletté al poco che avevano
lasciato né pensò che essi
non erano dei
ricchi; al suo amore sembrò sufficiente l’essersi staccato da
tutto e l’averlo seguito.
Fu questo il sentimento dominante
nelle parole di Pietro. Ma la psicologia umana, e la sua, in
particolare, ha tante sfumature che non è facile approfondire: nel
fondo dell’espressione di dedizione c’era un senso di
compiacimento e una certa ostentazione di generosità, contrapposta
all’atteggiamento del giovane che se n’era andato triste. C’era
anche un pallido segreto d’interessamento spirituale, unito a uno
più marcato di vantaggio temporale.
Gesù parlava di salvezza
eterna, e Pietro
se ne preoccupava un po’, in quel momento; parlava del
regno di Dio, e
l’apostolo non sapeva rinunciare alle proprie speranze temporali;
perciò san Matteo dice che egli soggiunge: Quid
ergo erit nobis? Che cosa sarà di noi? O
anche: Che cosa
ne avremo noi? Non
parlava per solo interesse ma, conoscendo il Maestro nella sua
ineffabile bontà, pensava che non potevano rimanere senza una
ricompensa; questo sentimento era in lui quasi inconscio, ma era
quello che più dominava la sua vita e quella degli apostoli, e
perciò Gesù gli rispose, incoraggiandoli con una promessa che era
apparentemente in prevalenza temporale, e che, in realtà, era quasi
come un esame pratico di coscienza per loro, una misura che doveva
far considerare loro, con umiltà, che non avevano fatto gran che
nella loro rinuncia.
Gesù, infatti, non parlò di
loro, ma in generale di chi abbandona la casa, i fratelli, le
sorelle, il padre, la madre, i figli e i possedimenti per Lui
e per il Vangelo, cioè
per amarlo sopra tutte le cose e per esercitare il sacro ministero;
parlò delle anime generose di tutti i tempi che si sarebbero
consacrate a Lui, rinunciando a tutto, o che avrebbero tutto lasciato
per l’apostolato; vide, negli apostoli, la loro rappresentanza, e
parlò in un senso più
ampio; nel
medesimo tempo, enumerò delle rinunce che essi non avevano fatte
perché poveri, e volle far considerare loro che dovevano avere un
atteggiamento d’umiltà.
Egli promise, a quelli che
avrebbero rinunciato a tutto per suo amore, il centuplo in questa
vita in case,
fratelli, sorelle, madri, figli, e campi, in
mezzo alle
persecuzioni, cioè
nelle stesse persecuzioni del mondo e nelle stesse angustie di una
vita immolata. Promise che avrebbero avuto case da abitare, fratelli,
sorelle, madri e figli spirituali che li avrebbero consolati nelle
angustie; che avrebbero avuto campi,
cioè il
necessario alla vita, nonostante le ristrettezze della vita del mondo
e, nel secolo futuro, avrebbero avuto la vita eterna. Questo lo
sperimentarono gli apostoli e lo sperimentano i religiosi.
Gesù non promise, com’è
evidente, una vita comoda né scevra di pene, perché questo non
sarebbe stato un vantaggio per lo spirito; promise il centuplo in
mezzo alle
persecuzioni, cioè
la sicurezza degli aiuti temporali fra le necessità della vita e le
angustie dei tempi, promise conforti spirituali e aiuti temporali in
tanta generosa abbondanza, da essere come il centuplo di quello che
si sarebbe ceduto per amore. Egli ha mantenuto e mantiene la sua
promessa. Se ci sono gli scontenti della vita religiosa o sacerdotale
che si credono delusi vedano bene prima se veramente hanno lasciato
tutto col cuore, e se l’hanno lasciato per
Gesù Cristo e per il Vangelo. Lasciare
il poco unicamente per avere il più non sarebbe fare un sacrificio
vero ma una speculazione e, dolorosamente, molte anime speculano sui
loro apparenti sacrifici.
Per questo Gesù soggiunge
misteriosamente che molti
primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi, per
dire che nella vita eterna avremmo avuto la sorpresa di vedere tra
gli ultimi molti di quelli che hanno creduto di aver dato tutto a
Dio, e di vedere tra i primi quelli che hanno rinunciato
apparentemente a poco ma vi hanno rinunciato con tutto il cuore. Egli
voleva delicatamente elogiare gli apostoli che avevano lasciato ben
poco, ma quel poco era tutto quello che avevano, e voleva così
sostenere la loro speranza in un premio eterno.
Ecco una scena piena di
contrasti: un ricco che rifiuta l’invito di Gesù, e diventa
estremamente povero di beni spirituali; dei poveri che rinunciano al
poco che hanno e diventano immensamente ricchi di beni spirituali e
degli aiuti, anche temporali, della provvidenza. Ecco da una parte il
regno del mondo, ricco di risorse, che non riesce a eliminare la
povertà, e il regno di Dio votato alla povertà, e ricco di grazie e
di aiuti. Certo, non è da tutti lasciare ogni cosa per amore di Dio,
ma quelli che lo fanno non debbono pentirsene, qualora servano al
Signore fedelmente. Niente manca a chi è fedele ai suoi impegni
spirituali, e la sua vita, spoglia di ogni ingombro di lusso, è
illuminata sempre dalla grande speranza del Paradiso.
Don Dolindo Ruotolo