Commento
al Vangelo della XVIII Domenica TO 2016 C (Lc
12,13-21)
Don
Dolindo Ruotolo
Non
preoccuparsi dei beni terreni
Mentre
Gesù parlava per gettare nei suoi discepoli e nella sua Chiesa le
basi granitiche d’un forte carattere cristiano di fronte alle lotte
e alle persecuzioni, un giovane dalla turba lo interruppe, pregandolo
d’intervenire con la sua autorità presso un suo fratello, per la
divisione dell’eredità. Per simili questioni di testamenti e di
eredità spesso i rabbini erano chiamati come giudici, e quel
giovane, appellandosi a Gesù, volle appellarsi al più autorevole
dei maestri.
Il
Redentore guardava in quel momento i secoli futuri, considerava il
cammino della sua Chiesa nel mondo, e gettava le basi del carattere
cristiano di fronte alla vita terrena; si direbbe che era tutto preso
da questa grande idea, e per questo si rifiutò di giudicare,
dicendo: O
uomo,
chi mi ha costituito giudice o arbitro tra voi?
Egli era
Giudice di tutti, e poteva essere arbitro, ma, in quel momento, si
occupava della sua grande missione di Redentore, pensava alla sua
Chiesa e protestava che Egli non era venuto per trattare di misere
questioni di avarizia o d’interesse e non era costituito capo
dell’umanità per questo.
Evidentemente
quel giovane contendeva col fratello non per una questione di
giustizia, ma di avarizia e domandava l’intervento di Gesù non per
farlo arbitro assoluto, ma per avere da Lui una sentenza favorevole
alla propria avidità; ora, Gesù non era costituito giudice e
arbitro per assecondare l’avarizia e l’ingiustizia. Egli, poi,
guardò più lontano e, rispondendo a quel giovane, volle gettare
un’altra base del carattere cristiano, dicendo a tutti: Guardatevi
con grande cura da ogni avarizia, poiché la vita dell’uomo non sta
nella sovrabbondanza dei beni che possiede.
I beni
materiali non sono la
vita dell’uomo
né possono costituire la sua meta, tanto meno può costituirla
l’avidità di questi beni; il concentrarsi in questa sola
preoccupazione è causa della viltà del carattere, poiché l’uomo
non ha il coraggio di affrontare il mondo e la tirannide quando vuol
salvare i propri interessi temporali, il proprio posto, l’impiego e
la situazione nel mondo.
Egli,
allora, diventa servile, accondiscende alla prepotenza degli empi,
dissimula la propria fede e i propri doveri, è praticamente apostata
della verità e del bene. Il non riporre la fiducia nei beni terreni
e il non preoccuparsene è essenziale al carattere cristiano, perché
l’arma preferita dai tiranni è proprio quella di spogliare e di
affamare; per questo Gesù provò con una parabola quanto fosse vano
riporre la speranza in quei beni che si debbono lasciare e quanto
fosse stolto compromettere la propria situazione eterna per quello
che è fugace e non può conservarsi.
Se ciò
che si può avere in terra durasse sempre, sarebbe meno stolto
attaccarvisi; ma, sapendo che inesorabilmente passa, e che è per noi
una posizione provvisoria, è vera stoltezza stabilirvi il cuore.
La
parabola di Gesù
Ecco la
parabola che disse Gesù, la quale può applicarsi a ciascuna
creatura. Ad un uomo ricco fruttò molto la campagna. L’abbondanza
del raccolto gli dava una sicurezza incrollabile per l’avvenire e
pensò di tutelare quella ricchezza per renderla stabile. Decise,
perciò, di demolire i vecchi depositi, angusti e ristretti, e di
fabbricarne altri più grandi. Era questa la sua sicurezza, e si
riprometteva già una vita ricca e abbondante per parecchi anni,
quando la voce di Dio gli si fece sentire, e gli disse che in quella
stessa notte sarebbe morto.
A che
cosa, allora, poteva servirgli quello che aveva raccolto se doveva
lasciarlo? E di chi sarebbe stato il frutto delle sue fatiche? Non
avendo egli pensato ai beni dell’anima che cosa poteva portarsi
nell’altra vita, innanzi a Dio?
Ogni uomo
si preoccupa di procurarsi un benessere materiale, una casa elegante,
delle entrate sicure, delle comodità signorili, e fa spesso immensi
sacrifici per riuscirvi, anzi a volte compromette persino l’anima
sua. Ma i beni materiali non allungano la vita e tanto meno la
rendono eterna; passano gli anni, i mesi, i giorni, e tutto deve
lasciarsi. È un pensiero terribile che dovrebbe renderci sapienti.
Ci sono
quelli che accumulano denaro, case, oggetti di arte, gioielli, monete
d’oro, libri rari, e si attaccano a queste cose; ma a che servono?
Dopo la morte vengono dilapidate dagli altri, e non danno altra
eredità che una tomba! Chi si attacca a queste cose si preoccupa
solo di conservarle, non ha il cuore libero in Dio, non ha un
carattere capace di resistere al male e, posto nell’occasione, cade
nell’abisso del peccato o dell’apostasia. A volte si teme più la
privazione dei beni materiali che la morte stessa e, di fronte al
pericolo di perdere la propria posizione, si rimane titubanti e si
ricorre a tutti i sotterfugi dell’opportunismo.
È questa
la vera causa dell’acquiescenza dei buoni alle prepotenze dei
tiranni, ed è la causa per la quale questi finiscono per prendere il
sopravvento. Si giunge ad ogni viltà e si accettano le più empie
sopraffazioni, perché si teme per il posto, per la scuola, per
l’avvenire materiale dei figli e si soggiace alle più turpi ed
esiziali leggi anticristiane. Eppure basterebbe confidare in Dio e
affrontare con intransigenza assoluta l’empietà, per costringerla
alla resa.
Tutto
è precario nella vita, fuorché la fiducia in Dio
Gesù
Cristo, con parole tenerissime e paragoni mirabili esorta i suoi
discepoli e i cristiani di tutti i tempi ad una fiducia così piena e
illimitata in Dio da rendere il proprio carattere forte e
incrollabile in qualunque prova: La
vita vale più del cibo, e il corpo più del vestito;
ora,
Dio
che ha dato la vita e che ha dato il corpo, non darà il cibo e il
vestito a
quelli che confidano in lui? Egli
mostra la sua provvidenza persino negli animali e li provvede di
cibo, benché essi non seminino, non mietano e non abbiano né
dispense né granai. È un argomento perentorio sulla provvidenza di
Dio, poiché è certo che nessun animale manca del suo cibo, pur non
avendo speciali attitudini per accumularne riserve; esso va, lo
cerca, e Dio glielo fa trovare; se si riscontra qualche eccezione a
questa regola è proprio fra gli animali che convivono con gli
uomini, e che dovrebbero essere più certi del loro sostentamento.
Per
questo Gesù cita il paragone del corvo che vive liberamente nei
campi. La sicurezza della provvidenza non viene dall’uomo ma da
Dio, ed è proporzionata alla fiducia che si ha in Lui, non
all’entità degli stipendi o delle entrate.
In questo
il Signore ci vuole interamente abbandonati a Lui e mostra con i
fatti come falliscono tutte le nostre iniziative per assicurarci una
posizione materiale nel mondo. La nostra vera assicurazione sta in
Dio, perché da Lui dipende la nostra vita.
Nessuno
può accrescere la propria statura a furia di pensarci, se mai
potrebbe diminuirla, consumandosi la salute nella preoccupazione. Ora
se non si può fare quello che è meno, come si può pretendere di
fare il più, provvedendo alla posizione stabile della vita? Quale
posizione, poi, può essere mai stabile?
Se
hai un posto, puoi perderlo o puoi ammalarti; se hai dei campi,
possono isterilirsi; se delle case, possono crollare o essere oberate
di tasse; se dei titoli di rendita, possono essere svalutati; se una
persona cara che ti provvede, può venirti meno.
Tutto è
precario fuorché la fiducia in Dio, il seguire la sua volontà, il
servirlo e attendersi dalla sua bontà il sostentamento e il
necessario alla vita.
Ecco i
gigli del campo: non lavorano e non filano, eppure sono vestiti da
Dio come neppure Salomone fu vestito nella sua magnificenza; ora, se
Dio ha cura delle piante non l’avrà dell’uomo che lo serve e
confida in Lui? Perché
tormentarsi lo spirito nelle
cose materiali, come fanno quelli che non credono in Dio? Pensare al
proprio sostentamento sotto lo sguardo di Dio non è un male, ma
tormentarsi
lo spirito o,
peggio, andare contro la divina volontà, presumendo di pensare
meglio al proprio sostentamento e al proprio avvenire non è una vera
pazzia?
Gesù,
anzi, va oltre e insegna non solo a non tormentarsi lo spirito per
accumulare o per procurarsi una posizione, ma ad allargarlo nella
carità e nella generosità fatta per puro amore di Dio, e a cercare
i beni eterni, per essere certi di avere anche quelli temporali. È
una sublime legge della vita, questa, che rende l’anima veramente
superiore a tutte le cose terrene, ed eroica nel conservare quei beni
e quei tesori eterni che non periscono mai. Pensare che Dio si è
compiaciuto di darci
il regno,
cioè
costituirci come padroni nel mondo, confidando in Lui, e pensare che
ci
ha dato il regno, orientandoci
alla vita eterna, è tale libertà e sicurezza di spirito da renderci
dominatori del mondo, trionfatori della vita, e strumenti della
divina provvidenza per gli altri.
Essere
distaccati da tutto, vivere sempre provvisoriamente sulla terra,
aspettare tutto da Dio e lavorare non tanto per guadagnare, quanto
per compiere la sua volontà nella missione che ci dà: ecco il
mirabile segreto di una superiorità placida di carattere e di una
pace profonda che nessuno può turbare e nessuno può sopraffare.
Com’è
commovente pensare: Dio si prende particolare cura di me, fino al
capello del mio capo! Veder cadere un capello e pensare: Non
è caduto senza la divina volontà ci
fa sentire in pieno nelle braccia della divina provvidenza, e non ci
fa apparire la vita come una confusione di eventi casuali o
capricciosi.
Vivere
non solo abbandonati alla divina provvidenza, ma esserne strumenti
con la generosità, l’elemosina, il soccorso dato agli altri,
guardando ai beni eterni che nessuno può sottrarci significa porre
il proprio cuore nei cieli, cercarvi un eterno tesoro, e curare poco
le violenze o le sopraffazioni degli uomini.
Padre Dolindo Ruotolo