sabato 28 luglio 2012

La moltiplicazione dei pani


Commento al Vangelo della XVII Domenica TO 2012 B (Gv 6,1-15)
Don Dolindo Ruotolo
La moltiplicazione dei pani
Gesù Cristo, insieme con i suoi discepoli, andò alla riva opposta del mare di Galilea, cioè del lago di Genesaret, chiamato pure di Tiberiade da una città famosa per il commercio fatta edificare da Erode Antipa sulla riva occidentale del lago, e chiamata da lui Tiberiade in onore dell’imperatore romano Tiberio. L’evangelista omette di raccontare una quantità di fatti ricordati dai Sinottici, per unire il grandioso discorso di Gesù, vero Dio, che dona la vita, ai miracoli e al discorso che dovevano mostrare come voleva dare la vita.
Dal discorso sulla sua divinità a questo passò circa un anno ma, nel disegno dell’amore di Gesù, un anno non era sufficiente a disgiungere le due grandi manifestazioni di luce, ed Egli, del resto, non mancava di ricordare e ripetere, in ogni occasione, quello che aveva detto, per radicare nel cuore dei suoi uditori le verità fondamentali che dovevano dare o accrescere la loro fede. San Giovanni avvicina i due discorsi precisamente per il nesso divinamente logico che hanno.
Il Redentore, dunque, si ritirò all’altra riva del lago – come dice san Marco (6,31) –, per far riposare un po’ i suoi discepoli ma, vistosi seguito da una gran turba per i miracoli che aveva fatti, si appartò sul monte che sorgeva in quei pressi. L’affollamento era grande, perché si avvicinava la Pasqua, e i pellegrini erano in movimento per andare a Gerusalemme; qualcuno notò che Gesù si era appartato, diede la notizia agli altri, e ben presto la moltitudine lo raggiunse sulla spianata del monte. Con ogni probabilità, Gesù Cristo ripeté al popolo le grandi parole che si riferivano alla sua divinità, e il popolo pendeva dalle sue labbra, senza curarsi della necessità che aveva di procurarsi del cibo e rifocillarsi.
Declinava il giorno, e gli apostoli – come nota san Matteo (14,15) –, furono essi per primi solleciti di dire al Signore che era necessario licenziare le turbe prima che annottasse, affinché avessero potuto comprare qualcosa da mangiare. Al loro richiamo, Gesù levò gli occhi e, vedendo quella grande moltitudine, disse a Filippo: Dove compreremo i pani per dar da mangiare a questa gente? Egli sapeva bene quel che voleva fare, ma parlò così a Filippo per provarne la fede, e per far meglio rimarcare al popolo circostante il miracolo che voleva compiere. Filippo rispose che, anche a spendere tutto il peculio che avevano valutato, duecento denari, cioè circa 156 lire non bastava a dare a ciascuno un piccolo pezzo di pane. Egli voleva così persuadere Gesù che era urgente rimandare la turba.
Andrea, però, cui balenò la possibilità di un miracolo da parte di Gesù, soggiunse: C’è qui un ragazzo che ha due pani d’orzo e due pesci, ma cos’è mai questo per tanta gente? Evidentemente gli apostoli stessi non avevano alcuna provvista, avendola forse consumata sulla barca traghettando il lago. Gesù rispose al barlume di fede che aveva Andrea, e ordinò che avessero fatto sedere a gruppi la gente sull’erba che era molto folta in quel luogo. Gesù Cristo volle così evitare la confusione nella distribuzione del cibo e, avendo intenzione di darne in abbondanza, volle che la gente fosse stata comodamente riposata, e avesse mangiato senza preoccuparsi della stanchezza che doveva essere grande. Sedendosi a gruppi di cinquanta e di cento – come dice san Marco (6,40) –, fu possibile farne il computo: erano complessivamente cinquemila uomini, senza contare le donne e i ragazzi, come nota san Matteo (14,21).
I pani di farina d’orzo erano il cibo dei poveri, e i due pesci erano fritti, come indica l’espressione del testo greco. Gesù li prese nelle mani e tutti gli occhi si fermarono su di Lui. Pregò, ringraziò Dio, e cominciò a fare la distribuzione per mezzo degli apostoli.
Che cosa disse nel rendere grazie?
Si rivolse al Padre, e le sue mani onnipotenti furono più feconde della terra che riceve la semente e la moltiplica; il pane nelle sue mani cresceva, ed Egli lo spezzava e lo dava; lo stesso fece per i due pesci, contemporaneamente al pane, di modo che ciascuno ebbe il pane e il companatico in abbondanza e poté saziarsi.
        Finito di desinare, Gesù fece raccogliere gli avanzi perché non fossero andati sciupati, potendosi dare ai poveri, e per far meglio constatare il miracolo. Gli apostoli raccolsero così dodici canestri di pane avanzato. Di pesci non raccolsero nulla perché il companatico si mangia più volentieri del pane.

domenica 22 luglio 2012

Gesù vide la folla ed ebbe compassione

Commento al Vangelo della XVI Domenica TO 2012 B (Mc 6,30-34)
Don Dolindo Ruotolo
Gli apostoli tornano dalla loro missione
Gli apostoli, ritornati dalla loro missione, riferirono a Gesù quello che avevano fatto e insegnato. Lo zelo per la salvezza delle anime li aveva vivificati, e il bene operato in nome del Maestro aveva destato la loro fede. Non si lavora per le anime con vero spirito d’amore e di zelo, senza sentirsene migliorati spiritualmente. Annunciare la Parola di Dio con vera fede significa meditarla più profondamente, e vederla germinare nel cuore altrui significa sperimentarne l’efficacia e sentirsi più vicini al Signore. Si sente, dal contesto medesimo, che gli apostoli, ritornando dalla missione, avevano più fiducia in Gesù Cristo, e che Gesù li guardava con infinita tenerezza; è proprio quello che avviene ogni volta che l’anima zela la gloria di Dio e la salvezza del prossimo.
Il Redentore, sollecito come una mamma per i suoi cari, cercò subito di alleviare la loro stanchezza, e li invitò a riposarsi in un luogo solitario, attraversando il lago.
Egli volle, con questo, benedire e consacrare il riposo che deve prendersi chi lavora per Dio, e volle anche dimostrare che, dopo essere stati nell’attività, bisogna cercare il riposo della solitudine e della preghiera per rifarsi nello spirito. Certo, il Redentore non volle che riposassero solo per mangiare, ma anche e molto più per nutrire l’anima.
È chiaro, dal contesto, che gli apostoli non vennero soli, e che una gran folla li seguì per andare a vedere Gesù Cristo, da loro annunciato; questa gente notò la direzione che prendeva la barca, e accorse a piedi al luogo dove supponeva che gli apostoli dovessero approdare, e li prevenne, giungendovi prima. Dovettero avanzare a passo accelerato e, nell’ansia di trovarsi in tempo al luogo del convegno, avanzarono alla rinfusa, con un certo disordine.
        Non era un pellegrinaggio: era una corsa fatta tra il vociare di tanta moltitudine e il naturale brio che nasce in simili contingenze. Gesù Cristo, nello sbarcare, vide quella gran folla e ne ebbe compassione proprio perché ammassata alla rinfusa, come un gregge senza pastore; considerò, gemendo, l’abbandono nel quale erano tenute tante anime da quelli che avrebbero dovuto curarle, e cominciò ad ammaestrarle. L’istruzione, divinamente bella, le attraeva, facendo dimenticare loro anche di mangiare; così passarono le ore, e cominciò a farsi tardi.

sabato 14 luglio 2012

La missione dei dodici

Commento al Vangelo della XV Domenica TO 2012 B (Mc 6,7-13)
Don Dolindo Ruotolo

La missione dei dodici apostoli

Il disprezzo che i Nazaretani avevano mostrato per Gesù fu forse una delle ragioni per le quali Egli mandò i suoi apostoli in missione nelle regioni circostanti. Nella sua infinita misericordia tolse così, a quelli che l’avevano conosciuto fanciullo, il pretesto di non credere alla buona novella, e inaugurò solennemente Egli stesso quella missione di preparazione e di evangelizzazione che non doveva interrompersi mai nella Chiesa, e che durerà fino alla consumazione dei secoli. Li mandò in varie parti, a due a due, perché l’uno fosse stato aiuto dell’altro, e volle che fossero stati abbandonati interamente al Signore, senza avere preoccupazioni di prestigio umano.
Conquistatori di nuovo genere, essi avanzavano senza aver nulla per il viaggio, eccetto un bastone per sostenersi, e i più rozzi sandali ai piedi per custodirsi contro le pietre delle strade.
In san Matteo è detto che non dovevano avere né bastone né scarpe (10,10) cioè che non dovevano portare sandali o bastoni di ricambio, e san Marco dice subito delle tuniche, dovendo portare il puro necessario al loro cammino, senza preoccupazioni temporali.
Gesù Cristo diede loro la potestà sugli spiriti immondi e di guarire i malanni del corpo, ungendo con l’olio gl’infermi; essi dovevano così annunciare e figurare i due grandi Sacramenti della misericordia, quello della Penitenza che scaccia satana dall’anima, e quello dell’Estrema Unzione che purifica l’anima e sana anche le infermità della natura umana; di quest’ultimo Sacramento lo dice espressamente il Concilio di Trento. Andavano avanti come messaggeri del Re, con un mandato spirituale altissimo che non doveva in nessun modo confondersi con un qualunque giro di propaganda; perciò Gesù volle che si fossero fermati in una sola casa, senza andare qua e là, o accettare inviti di convenienza, quasi fossero andati a diporto.
Dovevano annunciare la buona novella senza clamori, senza contese, senza suscitare inutili reazioni; se la loro parola non fosse stata accettata, dovevano solo mostrare la loro riprovazione per questo atto di resistenza alla Parola di Dio, e declinare ogni responsabilità, scuotendo la polvere dei loro piedi, cioè mostrando, con questo atto simbolico allora in uso, che essi non volevano portare con loro neppure la polvere di quel paese che rifiutava la misericordia e la grazia, e declinavano qualunque responsabilità innanzi a Dio.
La Chiesa ha raccolto l’eredità di Gesù Cristo, e manda i missionari per tutta la terra con lo stesso programma di povertà e di umiltà. Essi si distinguono nettamente da alcuni pretesi missionari del protestantesimo e di tutte le sette, i quali vanno come stipendiati, con tutta l’abbondanza delle ricchezze e delle comodità, e spargono solo la zizzania dei loro errori. È un dato di fatto che può constatare chiunque. Chi va in missione in nome di Dio, non ha bisogno di prestigio umano e di mezzi materiali esuberanti: ha bisogno solo di grande fiducia in Dio e di grande amore per la sua divina gloria.
Chi va… in missione con i grossi bagagli, con la servitù, con la moglie e col portafoglio carico di sterline e di dollari non è mandato da Gesù, perché Gesù non manda così i suoi apostoli. La ricchezza di alcune delle dette missioni protestanti – che a tanti, persino cattolici, sembra un segno di prosperità e non in contrasto con la povertà delle missioni cattoliche –, è invece un segno della loro falsità mercenaria. Dio non abbandona alla miseria le missioni cattoliche, come potrebbe apparire, ma vuole che siano affidate alla sua provvidenza e all’amoroso concorso dei suoi figli.
La ristrettezza dei mezzi finanziari è il segno di Dio: Senza bisaccia, senza pane, senza denaro nella cintura, calzati di sandali, senza portare due tuniche. Il Signore provvede i suoi missionari, ma in modo che essi non corrano pericolo di mutare la missione in una azienda o in un affare commerciale; le ristrettezze costringono a volgere gli occhi a Dio, e portano la ricchezza dello spirito; spingono gli altri al soccorso, e suscitano le ricche energie della carità.
         È un po’ penoso pensare, per esempio, che l’America stanzi un miliardo per aiuto ai protestanti, e che tra i cattolici di tutto il mondo non si raccolga neppure la metà o il quarto di questa somma; ma i milioni protestanti sono il capitale di un’azienda, mentre i milioni dei cattolici sono stille di carità e di sacrificio che accendono fiamme di fede e d’amore.


sabato 7 luglio 2012

Il disprezzo degli abitanti di Nazaret per Gesù

Commento al Vangelo della XIV Domenica TO 2012 B (Mc 6,1-6)
Santa Aquila e Priscilla

Il disprezzo degli abitanti di
Nazaret per Gesù
Partito da Cafarnao, Gesù andò a Nazaret, riguardata da tutti come la sua patria. Era stato tanti anni nascosto in quella città; vi aveva esercitato il mestiere di falegname insieme con san Giuseppe, suo padre putativo e, ritornandovi ora, accompagnato dai discepoli come maestro di sapienza suscitò l’animosità dei cittadini.
Avrebbero dovuto gloriarsi di Lui ma, per le continue opposizioni degli scribi e farisei, non crederono che la sua notorietà fosse giunta a tal punto da lusingarli nell’orgoglio di essere concittadini di un illustre personaggio. Essi, anzi, concepirono disprezzo per la sapienza altissima che manifestava, sembrando loro una presunzione, e stimandola una contraddizione con i suoi umili natali. Molti conoscevano sua Madre, Maria, la sua parentela, i suoi fratelli-cugini e le sue sorelle-cugine, tutta gente che appariva di nessun conto, e sembrava loro diminuirsi, rendendogli omaggio. Non parlarono di san Giuseppe il quale era già morto, ma di Gesù falegname, perché, evidentemente era subentrato a san Giuseppe nel mestiere, e si scandalizzarono, sembrando loro che la sua predicazione fosse un discredito per il sacro ministero.
Nazaret aveva la poco lusinghiera taccia di essere una città di scemi; si direbbe che l’apprezzamento che fecero di Gesù confermasse questa taccia, perché si scandalizzavano di quello che avrebbe dovuto edificarli, e si contraddicevano perché, pur tenendo Gesù in nessun conto, avrebbero voluto vedergli operare grandi miracoli. Egli invece, per la loro poca fede, poté solo guarire qualche infermo, imponendogli la mano.
È detto, nel Sacro Testo, che Gesù si meravigliava della loro incredulità. Da che cosa veniva questa meraviglia? Dal fatto che – come è detto in san Luca (4,22) –, tutti gli rendevano testimonianza, e ammiravano le parole di grazia che uscivano dalla sua bocca; i Nazareni non potevano negare la grandezza della sua sapienza, e intanto non volevano riconoscerla come il più grande segno della sua missione; lo lodavano come maestro e lo disprezzavano come Messia, non volendo ammettere che il re che aspettavano fosse di così umile condizione.
La loro incredulità meravigliava Gesù, anche perché lo addolorava profondamente, amando Egli Nazaret, e volendo colmarla di benedizioni. Ma nessun profeta è in onore nella sua patria, nella sua casa e tra i suoi parenti, per le prevenzioni dell’orgoglio, per le animosità latenti di gelosia che si hanno contro di lui, e per il fatto stesso di averlo conosciuto bambino e fanciullo; perciò Gesù dovette contentarsi di andare ad annunciare la divina Parola nei villaggi circostanti.
L’ingratitudine di Nazaret gli causò un gravissimo dolore, perché quella città non capì l’altissimo onore che le era stato concesso da Dio, e non seppe ricavarne profitto. Vedere l’umile falegname mutato in un grande Maestro di dottrina che non potevano non ammirare li avrebbe dovuti persuadere di più che Egli era un essere straordinario; invece concepirono per Lui tale avversione da minacciarlo nella vita, come ci dice san Luca (4,28-29).
Così fanno tante anime sterili che dicono di ammirare le bellezze del Vangelo, e poi rinnegano Gesù nella loro vita, scacciandolo dal loro cuore. Ammirano il Vangelo, ma quando lo paragonano alle loro orgogliose spampanate, sembra indegno di loro, e non intendono che esso è sapienza che non tramonta mai, ed è la pietruzza che abbatte le statue idolatriche dell’umana, pretesa sapienza.
Gli uomini stolti credono che abbiano valore le loro idee e spregiano quelle della fede; eppure le loro idee sono come vapori di nebbia che sono vapori dissipati dal vento e travolti dal turbine.
         Ci lamentiamo che Gesù non operi in noi grandi cose, e non ci lamentiamo mai della poca fede che abbiamo, per nostra colpa. La parola di Dio è come semente che richiede il terreno per prosperare. Apriamo il cuore a Gesù con grande umiltà, ed Egli opererà in noi meraviglie di grazia, perché il suo infinito amore non ha altro desiderio che di riempirci di beni.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

lunedì 2 luglio 2012

«Talità kum»

DOMENICA «DELLA FIGLIA DI GIAIRO E DELL'EMORROISSA»
XIII del Tempo per l’Anno B
Marco 5,21-43; Sapienza 1,13-15; 2,23-24 Salmo 29; 2 Corinti 8,7.9.13-15
Canto al Vangelo Cf 2Tm 1,10
Alleluia, alleluia.
Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte
e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.
Alleluia.
L’acclamazione che accoglie l’evangelo è la frase dell’Apostolo Paolo, che annuncia che Cristo
distrusse la morte e con la sua Resurrezione divenne nostro Salvatore, e illumina sempre la nostra vita con la
Luce divina che irraggia dal suo Evangelo della grazia. Noi lo cantiamo perché crediamo che il Salvatore
nostro con la sua morte ha davvero distrutto la morte, e con l'evangelo porta la Luce, Vita divina, sulla vita
umana.
La stessa «lettura semi continua» di Marco ci obbliga anche, in apertura, a tenere presente e ad
invitare a ripetere nell’omelia, senza stancarsi, che all’inizio della sua Vita pubblica tra gli uomini il Signore
dal Padre è battezzato con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come
Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo, e
come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue.
Lungo questo Tempo, privilegiato tra tutti gli altri dell’Anno liturgico, noi celebriamo Cristo Signore
Risorto, mentre Lo contempliamo in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, quando insegna, o
opera, o prega. Questa Domenica Egli appare ed opera come il Re Sovrano, che ridona la vita e la strappa al
regno del Male, a satana, estendendo così il Regno del Padre in mezzo agli uomini da Lui sanati.
Con il racconto di due segni prodigiosi oggi siamo invitati a riflettere sui limiti della vita umana e
sull'esperienza dell'incontro con Cristo e con la sua Parola come sorgente di vita.
La Scrittura ha sempre proclamato con forza che Dio crea la vita e la mantiene; la morte ed il dolore
non vengono da Lui. Dio ha creato meravigliosamente: l'uomo è da Lui destinato all'immortalità; la morte è
provocata dagli empi «con gesti e con parole» (cf. v. 16 della I Lett.). I peccatori per loro decisione si
sottraggono volontariamente al dono di Dio. I cristiani partendo proprio da questa convinzione sono esortati
(cf. II lett.) invece ad essere i primi nelle opere di carità, imitando Cristo che, infinitamente ricco, si fece
povero per arricchire noi della sua stessa povertà (2 Cor 8,9).
Ai Corinzi Paolo non chiede di impoverirsi ma di formare l’eguaglianza: come da Gerusalemme è
giunta la Grazia dell'Evangelo che ha arricchito spiritualmente i Corinzi così, adesso, essi, nel bisogno
materiale di quelli, debbono corrispondere sia pure in misura modica. Avvenga quello che accadde nel
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deserto dove chi raccolse molto ne ebbe solo quanto bastò, e chi raccolse poco ne ebbe quanto bastò (2 Cor
8,13-15; vedi Es 16,18).
La pericope di Marco mostra due esempi concreti per testimoniare come Dio stia dalla parte dell'uomo e
vuole che viva; «la lettura evangelica di oggi compendia tutto ciò che concerne la speranza ed esclude ogni
motivo di disperazione» (cfr san Pietro Crisologo).
La resurrezione della figlia di Giairo e la donna emorroissa mostrano un Gesù che si preoccupa anche della
realtà concreta del dolore fisico, oltre che assolvere dai peccati (cf. v. 34).
Alla giornata delle parabole fa seguito una giornata di miracoli; infatti chi legge di seguito le connessioni
redazionali dei 4 miracoli riportati da Marco dopo le parabole, 4,35-5,43, ha l'impressione che l'insieme
degli avvenimenti si svolgano nell'arco di 24 ore: la sera di quello stesso giorno Gesù attraversa il lago
con i discepoli, 4,35-36; nella notte avviene il miracolo sul lago, 4,37-41; all'arrivo sull'altra sponda l'incontro
con l'indemoniato e la sua liberazione, 5,1-20; poi di nuovo Gesù attraversa il lago, dove ritrova la folla e
accoglie l'invito di Giairo che lo prega di salvare la sua figlioletta, 5,21-24; strada facendo guarisce ima
donna che soffre di emorragia, 5,25-34. Il continuo andare e venire di Gesù da una riva all'altra del mare di
Galilea, narrati da Marco quasi come farebbe un comandante sul giornale di bordo della sua nave, assumono
un significato simbolico per ciò che egli va compiendo. Questo accumularsi di fatti strepitosi in un tempo
accorciato evidenzia la tensione spirituale di questa raccolta di miracoli. È la potenza di Gesù che, con un
crescendo continuo, si rivela in modo vistoso ai discepoli, prima sulla potenza caotica e scatenata delle acque,
poi sull'avversario, satana, che come forza collettiva e furiosa, strazia la vita di un uomo, infine sulla
malattia e la morte.
La potenza misteriosa di Gesù libera gli uomini dalla paura; da quella paura che ha la radice ultima nella
morte. Solo la vittoria sulla morte sarà la garanzia della liberazione definitiva.
Per questo Marco conclude l'ultimo miracolo, la risurrezione della figlia di Giairo, con l'ordine dato ai tre
discepoli testimoni, «che nessuno lo sapesse» (5,43).
Il miracolo deve essere gelosamente avvolto nel segreto, perché il suo significato definitivo può essere
scoperto soltanto alla luce della piena vittoria sulla morte: la resurrezione di Gesù.
I due miracoli che la lettura liturgica ci propone, si accostano e si intrecciano tra loro, anzi uno
s'incastra nell'altro, quello della donna che soffriva di perdita di sangue in quello della figlia di Giairo. Il
fenomeno è comune ai tre sinottici e si pensa che sia effetto non di un artificio letterario, del resto
difficilmente comprensibile, ma della successione reale e storica dei fatti. C'è indubbiamente la fedeltà
dell'evangelista allo svolgimento dei fatti come sono accaduti; forse Marco avrà sentito più volte Pietro
raccontare questa storia, lui infatti c'era e ne era rimasto impressionato; proprio un racconto così intrecciato
risulta spontaneo e vivo, e quindi più credibile.
In qualche modo Marco sorprende nel raccontarci questi due miracoli, lui che è sempre così stringato.
Ci fornisce invece, questa volta, una descrizione viva e dettagliata degli avvenimenti da farci cogliere non
solo quanto di straordinario e di prodigioso accade nei due episodi, ma, nella ricchezza dei particolari tanto
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spontanei e naturali che fanno da sfondo e da trama nello svolgimento dei fatti, ci aiuta a comprendere il
senso delle azioni e delle parole. Ma, al di là di questo aspetto redazionale dei fatti, c'è qualcosa di molto
importante ed essenziale che non ci deve sfuggire per cogliere l'unità e il senso profondo dei due miracoli.
A differenza dell'indemoniato all'altra riva in cui pure viene espressa la fede «in Gesù, Figlio del Dio
altissimo» (5,7) dallo stesso indemoniato per non essere tormentato, nei due episodi di Cafarnao invece la
fede che domanda la liberazione dalla malattia è esplicita e Gesù la rafforza.
La fede è varia e multiforme, non certo nel suo oggetto o contenuto, ma nelle sue espressioni o modalità le
quali rappresentano la via personale che ciascuno percorre per arrivare a confessare «Gesù, Figlio del Dio
altissimo». Ecco la fede segreta di una donna che giunge da Gesù avvilita ed umiliata e che ripete a se stessa
per darsi coraggio: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita».
La fede di questa donna che si accontenta di toccare solo il mantello di Gesù per ottenere la
guarigione, somiglia alla fede di un'altra donna, la sirofenicia, che chiede di avere almeno le briciole
destinate ai cagnolini pur di partecipare alla mensa dei figli nell'ottenere la guarigione dì sua figlia (cfr. Mc
7,24-30).
Non si dica che quella fede non era valida ed era da purificare perché si fermava al mantello e non giungeva
alla persona di Gesù, poiché Gesù stesso avendola davanti, le disse: «Figlia la tua fede ti ha salvata. Va in
pace e sii guarita dal tuo male».
La fede di Giairo fu una fede supplicante ed insìstente di un padre che ha la figlia agli estremi, sta per
morire; una fede prolungata e provata, quando gli giunge la notizia che la figlioletta è morta e gli
suggeriscono di non disturbare più il maestro, come se la fede si dovesse fermare davanti alla morte. Gesù
invece dice al capo della sinagoga: «Non temere, continua solo ad aver fede!».
Gesù non dice di non temere e di avere coraggio, ma continua ad aver fede; il contrario della paura
non è il coraggio ma la fede. Col coraggio si rimane in se stessi e pensiamo di averlo in noi; con la fede
invece tocchiamo o ci lasciamo toccare dalla presenza dì Gesù.
Esaminiamo il brano
v. 21 - «all'altra riva»: il susseguirsi degli avvenimenti dà l'impressione di uno spostamento rapido e
benché il il luogo non sia precisato, si può pensare convenientemente al litorale di Cafarnao (cfr. Mt 9,1.18),
«gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare»: Il versetto copia praticamente 4,1 e lega
questo episodio ai precedenti fatti svoltisi in territorio giudaico. In Marco l'ambientazione «lungo il mare»
(parà tḕn thálassan) è il luogo dove si svolgono altri avvenimenti importanti (1,16-20, la chiamata dei
discepoli; 2,13-15, la chiamata di Levi; 4,1-34, il discorso in parabole; vedi anche 3,7).
v. 22 - «uno dei capi della sinagoga»: Il termine archisynágōgos può essere tradotto anche con «presidente
della sinagoga». Da At 13,15 si deduce che ce ne potevano essere più di uno di questi «presidenti». L'ufficio
consisteva principalmente nella supervisione delle condizioni materiali e nella gestione finanziaria della
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sinagoga. Ogni sinagoga aveva un capo o archisinagogo, che era coadiuvato e assistito da un consiglio
composto dalle tre alle sette persone. Poiché qui Marco parla in plurale, non è chiaro se voglia riferirsi
archisinagogo vero e proprio o ad uno dei suoi collaboratori (cfr. At 13,15).
«di nome Giàiro»: Giairo e Bartimeo (10,46) sono gli unici nomi propri che compaiono nei racconti di
miracoli. Secondo alcuni il nome «Giairo» deriva da parole ebraiche che significano o «egli illuminerà» o
«egli susciterà, risveglierà». Il problema è che Marco normalmente traduce le parole semitiche (compreso il
nome «Bartimeo») tuttavia le funzioni associate al nome di Giairo sono davvero appropriate per Gesù.
«gli si gettò ai piedi»: gettarsi ai piedi di qualcuno, se fisicamente è come prostrarsi davanti a lui,
simbolicamente significa riconoscere la sua autorità, dichiararsi disposto ad eseguire la sua volontà, mettersi
ai suoi ordini (cfr. Mc 7,25; Dt 33,3; Rt 3,4.8).
Qui, però, è soprattutto un atteggiamento di preghiera e di implorazione non come l'indemoniato che vede
Gesù e gli si getta ai piedi (5,6).
v. 23 – «e lo supplicò con insistenza»: La supplica o richiesta insistente (parakaléō) è tipica delle richieste
di guarigione. «Con insistenza» traduce il noto polýs (lett. «in molte maniere») usato da Marco come
avverbio. L'azione e la richiesta del capo della sinagoga fanno risaltare ancora una volta la dignità di Gesù;
indicano inoltre che in Marco non tutti i capi giudaici sono contrari a Gesù.
«la mia figlioletta è agli estremi»: in Marco questo padre ha timore, quasi un rifiuto di parlare della morte
della figlia (lett. «è alla fine» eschátōs) mentre nei sinottici Luca dice «è morta» e Matteo «è appena
morta». Il diminutivo thygátrion di «figlia» (lett. «piccola figlia») dà l'idea di uno speciale affetto oltre che
dell'età o della statura.
«imporle le mani»: l'imposizione delle mani era un rito molto comune tra gli Ebrei, che lo praticavano per
le circostanze più svariate, come per impartire una benedizione (su persone: Gen 48,914.20; Mc 10,16; vedi
anche pane, vittima, ecc.), per conferire una potestà (Giosuè succede a Mose: Nm 27,18-23; Dt 34,9), ecc.
Nel N.T. ricorre frequentemente in relazione alla cura degli infermi (Mc 6,5; 7,32; 8,23.25; 16,18; Lc 4,40;
At 9,12.17; 28,8 ecc.).
«perché sia salvata e viva»: «Viva» nel senso di «possa vivere». «Sia salvata» traduce sōthēē̂i, che può essere reso anche con «sia curata o guarita», come si ha in molte traduzioni co i, che può
essere reso anche con «sia curata o guarita», come si ha in molte traduzioni contemporanee. La trad. CEI ha
preferito mantenere «salvata» perché il padre dice che sta morendo, e perciò la sua richiesta è che Gesù la
salvi dal potere della morte.
Riassumendo: Giairo (nome semitico Ia’îr, che al completo è Ia’îr-Iah, in ebraico è un nome teoforico, e
significa «il Signore sfolgora», egli (Dio) illumina o secondo altri egli (Dio) risveglia come sìmbolo e
augurio di quanto Gesù sta per fare) l'arcisinagogo (colui che assegnava i vari ruoli ai membri
dell'assemblea e che era responsabile della manutenzione dell'edificio) si getta umilmente ai piedi di Gesù
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per invocarne il soccorso. Giairo chiede che Gesù imponga le mani e guarisca la figlia moribonda. Notiamo
come Giairo compie questa richiesta in mezzo ad una folla considerata impura dagli "osservanti" ed invoca
un uomo che era considerato fuori dalla sinagoga (cfr 3,22).
Il gesto che quest’uomo compie è molto impegnativo: a questa fede Gesù chiederà di avere affidamento
totale (cf v. 36: continua a credere). Non seguiranno altre parole, solo una fedele e silenziosa sequela.
v. 25 – «una donna che da dodici anni»: Questo dato fornisce un altro legame con la storia della figlia di
Giairo, che ha appunto dodici anni.
«aveva un’emorragia»: si deve trattare, evidentemente, di un flusso anormale (emorragia), che non coincide
con quello della mestruazione. Questa malattia in Israele era considerata causa d'immondezza legale e
pertanto, come la mestruazione, escludeva dalle relazioni con altri esseri umani (cfr. Lv 15,25-27), in più
questa donna da dodici anni era esclusa anche dall'assemblea cultuale del popolo di Dio (cf. Lv 15,19ss).
Ciò spiega come la donna si mescoli alla folla per non farsi notare e per non essere costretta a rivelare il suo
male.
v. 26 - «aveva molto sofferto per opera di molti medici»: la notazione suona molto dura nei riguardi
dell'arte medica e ciascuno di noi può sicuramente certificare episodi di incompetenze più o meno gravi.
E' da tener presente tuttavia che i medici del tempo usavano metodi piuttosto empirici e medicamenti spesso
privi di efficacia (Si veda tuttavìa Sir 38,1-15. I medici, lo sappiano o no, proseguono la preziosa opera del
Signore nel liberare il Regno di Dio dai mali del corpo e dell'anima).
«spendendo tutti i suoi averi»: Dato che nell'antichità solo quelli che disponevano di mezzi finanziari
potevano frequentare i medici e visto che la donna disponeva di risorse proprie, un tempo deve essere stata
una persona di un certo livello sociale e abbastanza ricca. La descrizione che fa Marco delle sue condizioni
fa risaltare il suo miserevole stato. Si trova fisicamente malata, ritualmente impura ed economicamente
esausta. Né la religione né il suo stato sociale possono offrirle un valido aiuto.
«anzi piuttosto peggiorando»: La figlia di Giairo sta morendo, ma anche questa donna sta rapidamente
andando incontro alla morte.
vv. 27-28 - «toccare il suo mantello»: le parole della donna si uniformano alla credenza popolare secondo
la quale i guaritori erano dotati di uno speciale potere magico o flusso magnetico, per cui qualunque loro
contatto, diretto o indiretto, con l'ammalato era sufficiente a procurare la guarigione (cfr. Mt 14,36; Mc
3,10; 6,56; 8,22; Lc 6,19; At 5,15; 19,11-12).
«sarò salva»: Nella traduzione sōthḗsomai è reso con «salva» per mantenere l'idea di «ricuperare» dalla
malattia e forse anche dalla morte e per dare maggior risalto al legame con il contesto del racconto (vv. 23 e
35).
v. 29 - «le si fermò il flusso di sangue»: l'evangelistafa risaltare la subitaneità della guarigione, di cui la
donna si rese subito conto (cfr. anche v. 33). Il testo letteralmente dice «il flusso di sangue si seccò», che fa
ricordare Lv 12,7 dove è detto che la donna sarà dichiarata «purificata dal flusso del suo sangue» dopo
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essersi sottoposta ai riti di purificazione. Qui non c'è nessun rito. È semplicemente il potere di Gesù che
opera la guarigione.
v. 30 – «Gesù, essendosi reso conto»: Un tipico aneddoto miracoloso potrebbe concludersi con il v. 29, ma
qui i vv. 30-34 rappresentano una conclusione ampliata che contiene l'idea del vero significato della storia
(v. 34). L'immediata percezione da parte di Gesù della forza che era uscita da sé corrisponde alla percezione
della donna di essere stata guarita.
«la potenza che era uscita da lui»: nel linguaggio popolare si deve vedere l'indicazione dì un potere
miracoloso che solo Gesù possedeva.
Il termine scelto da Marco (dýnamis) è da lui impiegato quasi sempre in questa accezione, sia nei riguardi di
Dio (cfr; 12,24; 14,62) come nei riguardi dì Gesù (9, 1; 13,26; Lc 6,19) o di qualche personaggio dotato del
potere di operare miracoli (6,14; nel significato di «miracolo» ricorre in 6,2.5; 9,39). Gesù sa di aver operato
un miracolo e adattandosi al linguaggio della dorma, domanda chi l'ha toccato per poterle far intendere che
non al contatto fisico si deve la sua guarigione, ma alla sua fede: la sola forza capace di ottenere l'intervento
divino (cfr. Mc 2,5; 4,40; 9,23-24; 10,52; 11,22-24).
Dato che il «potere» (dýnamis) è un termine associato sia alla forza che allo spirito, questo versetto
ribadisce il motivo abbozzato in 1,7 (la venuta di uno più forte) e in 1,10 (Gesù il profeta che «possiede lo
Spirito»; si veda anche 6,14).
vv. 31-32 I discepoli ritengono sia stata la folla; ciò che avviene tra Cristo e la donna malata si svolge in una
nicchia ricavata in mezzo alla folla, ed è un segreto a due. Con le parole di uno che era presente Marco ci
descrive Gesù che si guarda intorno per vedere «quella (pronome greco al femminile) che le aveva fatto
questo». E la vede. Contatto, sguardo e dialogo si accendono con "l'esclusione" della folla e dei discepoli
che non capiscono ed ironizzano (“vedi la folla…”). Nonostante che abbiano appena assistito al miracolo
sul mare in tempesta e alla guarigione dell'indemoniato di Gerasa, sembra che i discepoli non si siano
ancora resi conto del carattere straordinario del potere di Gesù (4,41, «Chi è dunque costui...?»). Questo è
un altro esempio della progressiva incomprensione di Gesù da parte dei discepoli.
v. 33 - «impaurita e tremante»: la paura della donna non viene tanto dall'avere lei, in stato di impurità,
toccato Gesù, contro il divieto della legge (Lv 15,27), e dall'averlo fatto di nascosto, questa espressione non
descrive una disposizione psicologica ma una reazione di fragilità umana alla presenza di un potere divino
(vedi 4,41; 5,15; Es 15,16; Sal 2,11; Ger 33,9; Dn 5,19; 6,26; Fil 2,12-13; Ef 6,5).
Tuttavia la gratitudine, che nasce dalla consapevolezza di «ciò che le era accaduto», prende il sopravvento
sulla paura, sicché ella riesce a dire «tutta la verità» circa il suo stato anteriore e circa il gesto furtivo
compiuto in buona fede.
«gli si gettò davanti»: Con una leggera diversità nelle parole, questo gesto è lo stesso compiuto da Giairo in
5,22: un altro legame tra i due racconti.
La stupenda risposta del Signore la rassicurerà definitivamente: «Figlia, la tua fede ti ha salvata vai in pace
e sii guarita dal tuo male».
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«Ed egli le disse…»: La risposta di Gesù è quadruplice: la chiama «figlia» (thygátēr); una dichiarazione
riguardo alla fede; un congedo in pace; e la rassicurazione che è guarita dal suo male.
v. 34 - «Va' in pace»: abituale formula di congedo che è anche una specie di ratìfica di quanto è avvenuto o
è stato detto (cfr. 1 Sam 1,17; 20,42; 2 Sani 15,9; 2 Re 5,19; Lc 7,50; At 16,36; Gc 2,16).
Secondo la leggenda questa donna si chiamava Berenice o Veronica; avrebbe asciugato il volto di Gesù
lungo la via dolorosa verso il Calvario e in seguito avrebbe eretto una statua nella sua città (Bardas o
Cesarea di Filippo) per ricordare il miracolo da lei ottenuto (cfr. Eusebio, Hist. Eccl., 6,18: P.G. 20,680).
v. 35 - Dopo l'interruzione dell' emorroissa riprende il racconto relativo al capo della sinagoga; questi è
ancora con Gesù, in mezzo alla folla che lo attorniava quando lo informano che la figlia è morta.
«Perché disturbi ancora il maestro»: evidentemente si credeva che Gesù avesse potere soltanto sulle
malattie e non sulla morte (cfr. Gv 11,21.32).
v. 36 - «Udito quanto dicevano»: In alcune traduzioni contemporanee il participio parakoúsas è reso con
«ignorando» (il che è anche possibile) anziché con «udito». Le parole di conforto rivolte da Gesù al padre
però suggeriscono che qui «udito» è più appropriato.
Potrebbe significare che Gesù non volle prestare attenzione a ciò che si diceva e quindi, come se non avesse
inteso nulla, esortò il capo della sinagoga a desistere dal suo timore e a continuare ad avere fede in lui (cfr.
trad. in lingua corrente), «non temere, continua a credere»: due imperativi presenti che nel greco
sottolineano nel comando una continuità con quanto si stava facendo precedentemente. Di per sé, Giairo non
dovrebbe temere più, perché ormai è certo della morte della «figliolina» a lui così cara (cfr 2 Sam 12,15-23
la morte del figlio di Betsabea). Ma Gesù lo invita a sostituire alla calma che deriva dall'ineluttabile, quella
che sgorga dalla fede i Lui, che non deve interrompersi, si tratta di perseverare nella fiducia che aveva avuto
Giairo, ormai privo di ogni mezzo di salvezza. Il filo di vita che animava ancora la fanciulla, gli faceva
sperare l'impossibile da parte di Gesù: ora egli deve continuare in questa speranza, fondandosi
esclusivamente su Gesù stesso.
v. 37 - «Non permise a nessuno di seguirlo»: E' la prima volta che Gesù opera un miracolo lontano dalla
folla. La scelta di soli tre discepoli che poi saranno i soli testimoni anche della trasfigurazione (9,2) e della
preghiera nell'orto del Getsemani (14,33), potrebbe essere stata dettata dalla confusione che già regnava
nella casa (v. 38) ma anche dal desiderio di avere dei testimoni qualificati die in seguito avrebbero attestato
la realtà del fatto che si stava per operare (cfr. Dt 19,15).
«fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni fratello di Giacomo»: Questi tre fanno parte dei primi discepoli
ad essere chiamati (1,16-20), sono nominati per primi nell'elenco dei Dodici (3,16-17) e sono accanto a
Gesù nella trasfigurazione (9,2) e nel Getsemani (14,33). Poiché questo miracolo è l'unica risuscitazione in
Marco e dato che questi tre discepoli saranno testimoni sia della sua trasfigurazione che dell'intensità del
suo abbandono nel Getsemani, essi fungono da esempi dell'«essere con» Gesù nei momenti di rivelazione
più importanti.
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v. 38 - «vide il trambusto»: l'espressione tradotta alla lettera dice: «vide il chiasso»; infatti oltre ai parenti,
amici e vicini, per i quali il pianto poteva essere una spontanea dimostrazione di affetto, in genere per la
morte di qualcuno non mancavano mai altre persone che lo facevano soltanto per professione,
accompagnandosi con il suono del flauto (cfr. Mt 9,23).
v. 39 - «non è morta, ma dorme»: Gesù non intende negare che la fanciulla sia veramente morta, come
non intende affermare che si tratti di una morte apparente. Del resto non è ancora entrato nella stanza dove
giace la fanciulla. Per Gesù, che ha già deciso di operare il miracolo lo stato presente della fanciulla è
soltanto temporaneo e perciò paragonabile ad un sonno (Gv 11,11).
Per analogia la Chiesa ha sviluppato il linguaggio di Cristo, estendendolo a tutti coloro che «si
addormentano nel Signore» in attesa della resurrezione finale.
v. 40 - «incominciarono a deriderlo»: tale comportamento, che ovviamente non può essere dei parenti, è
provocato sia dalla mancata comprensione dell'esatto significato delle parole di Gesù, che da una certa
ostilità verso dì lui, oltre che alla mancanza di fede nella sua potenza, che del resto già altri grandi profeti
d'Israele avevano posseduto (cfr; 1 Re 17,17-24; 2 Re 4,32-37).
«prese con sé il padre e la madre»: entra, lui, il "padre della bambina" con "la madre" nella camera, e
assiste al risveglio della "fanciulla". Qui bisogna sottolineare due punti:
1. Innanzitutto entra in scena una nuova protagonista, la madre: colei che era celata al lettore dalla
presenza onnipresente del padre. La "figlia di Giairo" appartiene a una famiglia, e non più soltanto
al capo della sinagoga, essa ha un "padre" e una "madre" che Gesù prende con sé per la sua
guarigione.
2. Il secondo punto da sottolineare è che l'identità della giovane malata è in perpetua evoluzione:
"figlioletta" (v.23),"figlia" (v. 35) poi "bambina" (v. 39) e ora, sulla bocca di Gesù che si rivolge a
lei, "fanciulla" (v. 41, cf. 6,22.28). Ed si alza, cammina, mangia. E un soggetto attivo e desiderante.
E una donna in divenire dato che ha dodici anni. Giairo ne è testimone, ma non parla più.
v. 41 - «presa la mano della bambina»: Il tocco è frequente negli episodi miracolosi ed è il gesto abituale
delle guarigioni (cfr. 1,31.41; 9,27), che tuttavia non implica alcun effetto a sé stante. Tuttavia, poiché
l'impurità dal contatto con i cadaveri era la più grave di tutte le impurità, questo tocco è un altro esempio di
Gesù che contravviene ai codici culturali per il maggior bene dell'umanità (vedi 2,27-28; 3,4; ecc.). Ma in
questo caso è la parola di Gesù, non il tocco, che opera il miracolo.
«Talità kum»: In aramaico questa espressione letteralmente significa «agnellino, alzati»; la parola
«agnello» (talithá) può essere un termine affettuoso, specialmente se rivolto a un bambino (vedi 2 Sam
12,1-6). Le parole straniere nelle storie di guarigione sovente hanno la funzione di formule magiche. Marco
tuttavia usa e traduce termini aramaici anche in altri contesti che non hanno nulla a che vedere con le storie
miracolose, spesso per dare maggior risalto al proprio punto di vista (3,17; 7,11.34; 11,9; 14,36; 15,22.34).
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Marco più di ogni altro evangelista, ama ricordare alcune parole nella lingua di Gesù (cfr. 3,17; 7,11.34;
14,36; 15,22.34). Dalla traduzione che lo stesso evangelista fornisce, si vede chiaramente che non si tratta di
parole strane e spesso senza significato, di cui ben volentieri si servivano certi taumaturghi dell'antichità per
impressionare maggiormente la gente. Per Gesù la parola era semplicemente la manifestazione della sua
volontà.
«alzati»: il verbo gr. egeírō (è il verbo della resurrezione) è tradotto con un imperativo presente (continua a
vivere). L'azione esprime la potenza divina (il dono della vita è di Dio), ma non è ancora quella definitiva, la
vita gloriosa del Risorto.
v. 42 - «Subito la fanciulla»: il ritorno alla vita è immediato e completo, come mostra il movimento della
ragazza e lo stesso stupore dei presenti, soprattutto dei genitori, i quali fuori di sé per la gioia, dimenticano
perfino di darle da mangiare.
«Fanciulla»: Adesso la figlia di Giairo è chiamata «fanciulla» (korasion), mentre prima era stata chiamata
«bambina» (paidion). Korasion, il diminutivo greco di kore («ragazza» o «giovane donna»), può essere usato
per una ragazza vicina all'età del matrimonio.
«si alzò»: Qui viene usato un altro verbo, anístēmi (lett. «sorgere» o «alzarsi»), usato anch'esso nel contesto
della risurrezione dai morti nelle predizioni della passione di Gesù (8,31; 9,31; 10,34). Formalmente questo
versetto costituisce la «dimostrazione» del miracolo. L'insistenza osservata qui sui termini che riguardano la
morte e la risurrezione indica che i lettori di Marco devono scorgere in questo racconto un preannuncio della
risurrezione di Gesù e del proprio risveglio dal sonno della morte.
«dodici anni»: Marco annota l'età della ragazza e sono gli stessi di quelli della malattia dell'emorroissa. Il
valore è soggettivo se attribuito ai personaggi: pochi anni di vita per la ragazzina ma tanti per la malattia
della donna; ma come resistere ad esempio alla suggestione di legare queste guarigioni ad Israele (le dodici
tribù) e al nuovo popolo che nascerà dalla predicazione dei dodici apostoli. La salvezza operata da Gesù è
per tutta l'umanità.
Ciò che è importante per qualsiasi interpretazione è tuttavia il fatto che quella dei dodici anni è l'età legale
per il fidanzamento/matrimonio nella legislazione sia romana che giudaica e che la ragazza è prossima
all'età da poter avere figli.
«furono presi da grande stupore»: questo termine in greco (ékstasis) è simile a quello che esprime l'emozione
delle donne al sepolcro di Gesù dopo l'annuncio della sua resurrezione (Mc 16,8). L’evangelista Luca
(8,56) specifica il soggetto: «i suoi genitori».
v. 43 Il comando di Gesù secondo una spiegazione ormai classica è in linea con tutti i testi relativi al «segreto
messianico» (1,25.34.44; 3,12; ecc.). Questo silenzio è perfettamente logico nella prospettiva di Marco:
Gesù ha vinto la morte, ma questa sarebbe una ben povera vittoria se si trattasse solo di ridare alcuni anni di
vita a una bambina nella sua famiglia.
Questo è soltanto un segno, anticipo e garanzia della vittoria piena che avverrà con la resurrezione dì Gesù;
resurrezione che non è la rianimazione di un cadavere, ma vita definitiva nella comunione con Dio.
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Per questo i testimoni del miracolo devono tacere, come i tre che discendono dal monte della
trasfigurazione, aspettando la piena rivelazione del Dio che risuscita ì morti.
«e disse di darle da mangiare»: Al pari della precisazione «aveva dodici anni», questo dettaglio
apparentemente non necessario ha incuriosito gli interpreti, i quali hanno proposto diverse spiegazioni che
vanno dal ricordo della «sollecitudine pratica» di Gesù alla dimostrazione che la ragazza è veramente viva e
non è uno spirito o un fantasma. Anche nel «finale prolungato di Marco» (16,14), come pure in Luca 24,13-
49 e in Giovanni 20-21, il Gesù Risorto appare nel contesto di un pasto condiviso con i suoi seguaci.
Riassunto e piccola riflessione
Questi due episodi sono strettamente correlati. Per un verso appaiono differenze evidenti:
- Giairo è un capo di sinagoga, un personaggio importante del quale viene riportato il nome; la donna non
ha nome;
- lui è responsabile della sinagoga; lei ne è esclusa proprio a causa della sua malattia;
- Giairo ha una famiglia, una casa e molte persone intorno (cf. vv. 35 e 40); la donna non ha più nulla e la
sua malattia tendenzialmente le preclude il matrimonio, la maternità e la esclude dalla società (impurità rituale);
- Giairo si rivolge a Gesù pubblicamente; la donna agisce in segreto.
Per un altro verso, il testo presenta, con la sua costruzione stessa, un certo numero di parallelismi:
- Giairo e la donna si ritrovano entrambi nella disperazione e chiedono la salvezza (cf. vv. 23 e 28) a
Gesù;
- nei due racconti si parla di due donne: una malata da dodici anni, l'altra di dodici anni, l'età della pubertà
nella quale all'epoca una donna diventava maritabile;
- in entrambi i casi si tratta di donne che sono "morte" perché anche la donna affetta da emorragia è socialmente
e religiosamente morta;
- in entrambi i casi la guarigione consiste in una reintegrazione nella società (ritorno alla purezza da una
parte e ritorno alla vita dall'altra). Queste due donne si ritrovano non soltanto vive, ma capaci di dare la vita.
Ciò che avviene è un rovesciamento dei ruoli, di cui va sottolineato il significato:
- Giairo in un primo tempo parla (supplica per sua figlia, cf. v. 23), viene invitato alla fede (cf. v. 36) in
un contesto che svolge un ruolo negativo (cf. vv. 35 e 40); successivamente diventa un personaggio silenzioso
(cf. v. 40) e la figlia viene toccata da Gesù (cf. v. 41);
- la donna non parla (cf. v. 28), si serve di una folla che svolge per lei un ruolo positivo (cf. v. 27). E lei
che tocca Gesù (cf. v. Gesù provoca la sua parola e la invita a divenire un soggetto che parla e la cui fede
viene riconosciuta (cf. vv. 30-34).
In questo modo la situazione sociale e l'itinerario dei due sono agli antipodi, ma il risultato è identico per
entrambi: la salvezza. Vi è semplicemente, nella narrazione stessa, la logica dell'abbassamento di Giairo (è
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supplice, viene invitato alla fede, fa silenzio, scompare dietro la figlia) e dell'elevazione della donna (non è
nulla, non ha diritto alla parola, poi accede al linguaggio e diventa una credente esemplare della quale Gesù
constata la fede).
Giairo fa esperienza della mancanza, del vuoto, della finitezza. E l'itinerario che porta alla salvezza della
sua "figlioletta" è per lui in un primo tempo una perdita radicale ("è morta"). Passa dallo statuto di capo a
quello di padre. Solo una parola esterna alla sua esistenza permette questo miracolo. La fede della donna che
non è "nulla" diventa esemplare per Giairo, che è un personaggio importante.
Per la donna, come per la figlia di Giairo, la salvezza è la (re?)integrazione nella comunità dei viventi
grazie a una parola estranea a quelle di questo mondo (la parola del padre per la figlia, quella della legge del
Levitico e quella dei medici per la donna): quest'ultima viene guarita della sua sofferenza di donna e diventa
figlia (in relazione con il Padre); l'altra diventa soggetto attivo della propria vita (passa dallo statuto di
"figlioletta" a quello di "figlia", da quello di "bambina", a quello di "fanciulla", cioè adulta: si alza e
mangia).
Giairo e la donna fanno esperienza della medesima sofferenza, che si esprime in due modi differenti: per
il primo, è una sofferenza del "troppo pieno" (di chi si autopropone, di chi tiene gli altri sotto il suo
controllo), per l'altra una sofferenza della "mancanza" (di identità, di fecondità). L'uno deve "perdere" la
figlia perché essa viva, l'altra troverà un'identità di "figlia".
Che cosa ci vuole dire Marco di Gesù in questo duplice racconto? Che egli è colui la cui parola ha il
potere di guarire: nessun altro, a parte lui, lo può fare (né i medici che hanno fatto soffrire la donna, né
l'amore - soffocante? - del padre per la sua figlioletta). Solo colui nel quale io riconosco l'intervento di
grazia di Dio per l'uomo può salvare e donare la vita.
Per questo Giairo deve uscire dal suo ruolo di capo che protegge la sua figlioletta o la donna
dall'anonimato della folla dietro la quale si nasconde. Bisogna incontrare Gesù (e non soltanto toccarlo o
implorarlo): bisogna fare esperienza di un dialogo (la donna) e di una rottura (Giairo).
Questa donna e quest'uomo si trovano di fatto in un vicolo cieco, di fronte a un limite insuperabile e sentito
come sofferenza, un limite imposto dall'universo in cui vivono. Il loro cammino è quello della ricerca di un
aiuto esterno. In sostanza si profila una concezione della salvezza, che la teologia protestante definirà più
tardi extra nos, secondo la quale la salvezza può venire solo dall'esterno della nostra sfera abituale di
esistenza. Tale esteriorità non significa però oltrepassare i limiti della condizione umana, ma scoprire una
possibilità "altra": per Giairo questo significa perdere la figlioletta perché la fanciulla viva (non ha
oltrepassato il limite, ha accettato i suoi limiti); per la donna, significa divenire figlia per essere guarita
(scoprirsi in relazione, in legame di filiazione). Il miracolo qui consiste proprio nell'ascolto di una parola
che crea una rottura (che separa il padre dalla figlioletta), che libera (la grazia di Dio spezza i meccanicismi
del destino), e che ha un'efficacia anche fisica. E la grazia di Dio a liberare dal determinismo, ma tale grazia
può manifestarsi in una guarigione, o nella rianimazione di un corpo.
(da “Evangelo secondo Marco” di Élian Curvillier, ed. Qiquajon)
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I Colletta
O Dio, che ci hai reso figli della luce
con il tuo Spirito di adozione,
fa' che non ricadiamo nelle tenebre dell'errore,
ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
II Colletta
O Padre, che nel mistero del tuo Figlio povero e crocifisso
hai voluto arricchirci di ogni bene,
fa' che non temiamo la povertà e la croce,
per portare ai nostri fratelli
il lieto annunzio della vita nuova.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...

lunedì 1 luglio 2012
Abbazia Santa Maria di Pulsano


La morte è la porta per la quale dobbiamo passare per andare a godere il nostro Signore. Egli è li, oltre quella soglia che ci attende a braccia aperte.
(maria maistrini)