sabato 12 marzo 2016

L'adultera

Commento al Vangelo: V Domenica di Quaresima 2016 (Gv 8,1-11)

L’adultera
Dopo la sua orazione notturna, Gesù, di buon mattino, ritornò nuovamente al tempio, ossia – come esprime il testo greco –, in uno dei fabbricati o dei portici che facevano una sola cosa col tempio propriamente detto.
Il Cuore gli ardeva dal desiderio di comunicarsi alle anime, perché voleva salvarle, e andò Egli stesso a trovarle, per annunciare loro le parole dell’eterna verità e della vita eterna. Il popolo, che ancora numeroso affollava la santa città e dimorava nelle vicinanze del tempio, notò la sua presenza, e gli si accalcò d’intorno per ascoltarlo, nella speranza di assistere anche a qualche prodigio.
Mentre Gesù parlava, ecco che gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa proprio allora in adulterio, e, postala in mezzo all’adunanza, gli dissero che, secondo la Legge di Mosè, doveva essere lapidata, domandandogli che cosa ne pensasse.
Essi non erano affatto mossi dallo zelo per la giustizia e per la Legge, ma speravano porre Gesù in imbarazzo, ed avere occasione di condannarlo. La Legge (cf Dt 22,23-24) comandava che venisse lapidata la fidanzata che avesse mancato di fede al suo promesso sposo; per la donna già maritata comminava semplicemente la pena di morte, senza specificare il genere (cf Lv 20,10).
La donna, dunque, sorpresa nel peccato doveva essere fidanzata. Forse in oc-casione delle feste, abitando gli Ebrei sotto capanne improvvisate, s’era trovata e-sposta alla tentazione ed aveva peccato.
Se Gesù avesse giudicato che doveva essere lapidata, i suoi nemici speravano di denunciarlo come crudele innanzi al popolo, e come violatore della legge innanzi ai Romani, i quali non permettevano che l’adulterio fosse punito di morte, e avevano avocato a loro l’esecuzione delle sentenze capitali. Se non l’avesse condannata, l’avrebbero accusato come violatore della Legge di Mosè, e indirettamente come fa-voreggiatore dei Romani, alle cui leggi e disposizioni avrebbe mostrato di adattarsi.
Gesù Cristo non rispose, ma, chinatosi a terra, cominciò a scrivere, col dito, sulla polvere del pavimento. Questo era un gesto che i rabbini solevano fare quando, interrogati, volevano evitare di rispondere a questioni moleste; Gesù, però, non scriveva indifferentemente sulla terra, ma forse o ricordava i principali precetti della Legge trasgrediti dagli scribi e farisei, o addirittura ricordava i gravissimi peccati da loro commessi. Egli poi, per grande misericordia, volle sottrarre quella povera donna alla curiosità e al disprezzo di quanti erano presenti, attraendo gli sguardi sul pavimento sul quale scriveva, e suscitando in tutti il desiderio di vedere quel che scrivesse.
Gli scribi e farisei, vedendo quello che scriveva, si turbarono e, per impedirgli di continuare, lo premurarono di dare una risposta sollecitamente. Gesù, perciò, alzandosi, disse, in tono di grande solennità e penetrandoli con un raggio di luce che scopriva loro gli orrori della loro coscienza: Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei. E di nuovo, chinatosi, continuò a scrivere sulla terra, forse determinando più specificamente i loro delitti. Si può, infatti, anche supporre che la prima volta abbia tracciato i precetti della Legge da essi trasgrediti, e la seconda volta abbia determinato, con frasi più chiare, le loro trasgressioni.
Certo, gli accusatori, udite le sue parole, se ne andarono uno dopo l’altro, a cominciare dai più vecchi, sulla cui coscienza pesavano le più gravi responsabilità. Con quel suo gesto e con quelle sue parole, Gesù non volle dare un criterio generale di giudizio per le cause legali, ma volle ammonire i privati a non presumere di ele-varsi a giudici dei peccatori, essendo anch’essi peccatori. I giudici applicano la Legge, anche se essi sono peccatori, ma chi si trova innanzi al prossimo che manca, deve considerare prima di tutto i propri peccati e, invece di giudicarlo severamente, deve umiliarsi e compatirlo, implorando per lui la divina misericordia.
Gli scribi e i farisei si erano arrogati un diritto che non avevano catturando quell’infelice, proprio essi la cui vita era piena d’infedeltà e di adultèri, e volevano far apparire Gesù come un usurpatore di diritti che spettavano ai giudici della nazio-ne. Egli era Giudice di tutti, ma non volle assumere questa qualità pubblicamente, soppiantando i giudici del popolo, tanto più che, nella sua mortale carriera, era venu-to non a giudicare ma ad immolarsi, per meritare a tutti il perdono. Egli, infatti, quando tutti se ne furono andati, si alzò e domandò alla povera donna: Dove sono coloro che ti accusavano? Nessuno ti ha condannato? Essa rispose: Nessuno, Si-gnore.
E Gesù, effondendo nell’anima di lei la sua misericordia, le disse: Neppure io ti condannerò, vattene e non peccare più.
Evidentemente la donna era pentita del suo peccato; diversamente, Gesù non le avrebbe concesso il perdono. Egli, poi, nella sua infinita bontà, le comunicò inte-riormente una grazia rinnovatrice che la mutò tutta e la rese nuova creatura. Scri-vendo per terra, Egli compunse il povero cuore di quell’infelice, ricordandole i pre-cetti di Dio e, mentre i suoi accusatori si dileguarono, ella sola rimase innanzi al Giudice d’amore infinito che la perdonò.
Non giudicate malignamente il prossimo!
Quando noi giudichiamo malignamente il prossimo per i suoi difetti e i suoi peccati, rinnoviamo il gesto degli scribi e dei farisei: trasciniamo quell’anima al giudizio con la nostra mancanza di carità e pretendiamo lapidarla con le nostre in-vettive e le nostre insinuazioni. Ricordiamoci che siamo peccatori noi per primi, e che non abbiamo davvero il diritto di scagliare per primi le pietre. Quanti peccati abbiamo fatto, e quante responsabilità pesano sulla nostra coscienza! Umiliamoci e, invece di accusare il prossimo, accusiamoci noi innanzi al sacerdote, affinché siamo perdonati dalla misericordia di Dio.
Quando giudichiamo il prossimo, Gesù si curva sulla nostra miseria, e scrive sulla terra della nostra fragile creta, ricordandoci le nostre iniquità; abbiamo tutto l’interesse che Egli le cancelli, e perciò abituiamoci a compatire le debolezze altrui e a meritarci misericordia, usando misericordia. 
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 5 marzo 2016

IL FIGLIOL PRODIGO

Il figliol prodigo
Domenica  6 marzo 2016
IV Domenica di Quaresima Anno C
Lc 15,1-3.11-32
† Dal Vangelo secondo San Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Il figliol prodigo
Ai farisei sembrava impossibile che Dio poteva accogliere i peccatori e vollero vedere nella familiarità che Gesù aveva con loro un argomento contro la sua Divinità; perciò il Redentore mostrò in una scena tenerissima il modo col quale Dio accoglie i peccatori, ed indirettamente si proclamò Dio, perché Egli li accoglieva proprio in quel modo, per eccesso di misericordioso amore e non per connivenza alle opere loro. La parabola del figliol prodigo con la quale Gesù Cristo manifesta in pieno la misericordia di Dio e la sua, è bellissima e commovente, e più che un racconto e una minuta descrizione della degradazione e della resurrezione dei peccatori. Colui che Legge i cuori volle manifestare le particolari posizioni dei peccatori. Dobbiamo, perciò, meditare accuratamente tutte le circostanze della parabola, che hanno un profondo valore psicologico:
Un uomo aveva due figliuoli, ed il più giovane disse al padre: «Padre, dammi la parte dei beni che mi tocca». L’eredità paterna era di diritto dei figli; il primogenito aveva il doppio degli altri figli nella divisione dei beni, che poteva farsi in vita o dopo la morte del padre. Il più giovane, dunque, dei figli di questo padre reclamò la parte dei suoi beni. Per quale motivo la reclamò, pur avendo un padre immensamente buono? È evidente dal contesto: voleva godere a modo suo la vita; gli sembrava troppo vuota la casa, troppo opprimente la vigilanza paterna, non andava d’accordo col fratello, unica compagnia che aveva in casa e volle cercarsi lontano le amicizie e i divertimenti.
Il padre avrebbe potuto negargli l’eredità in quel momento e rimandare la divisione a dopo la morte sua, ma credette di farlo allora perché il figlio la reclamava con la prepotenza che hanno i cattivi, ed alla quale non è possibile praticamente opporsi. Teoricamente il padre può imporsi ai figli, ma certi tipi sono indomabili l’averli in casa costituisce un inferno tale, che appare una liberazione il loro allontanamento. Il padre, dunque, pur avendo un grande dolore che il figlio si allontanava, gli dette la parte che gli spettava e non potette fare diversamente.
Dopo pochi giorni il figlio discolo, messo insieme il danaro e quanto aveva, se ne andò in un lontano paese. Voleva essere pienamente indipendente, non voleva controlli e scelse un paese lontano. Forse il padre, angosciatissimo, non potette neppure salutarlo, perché il figlio gli sfuggì, come avviene in simili casi, quasi fosse un nemico; può rilevarsi dalla penosa aspettativa di un ritorno nella quale rimane.
Il giovane credette di aver conquistato la felicità e quando fu lontano di casa gli sembrò di respirare a più larghi polmoni. Oramai credeva di essere padrone di se e si dette ad una vita dissoluta, consumando tutto quello che aveva. Intanto sopravvenne una grande carestia nel paese nel quale era, ed egli si trovò nella più squallida miseria. Cercò, dunque, un’occupazione e si ridusse servo, egli che era di nobile nascita, e servo di un pagano, che lo mandò a custodire i porci. Un ebreo non avrebbe tenuto una mandria di maiali e quel padrone, mettendo il giovane a guardia di quegli animali immondi, la ridusse in uno stato di grande avvilimento. Inoltre lo tenne in tali ristrettezze, che l’infelice desiderava mangiare le ghiande, o, secondo il testo greco, le carrube che si davano ai porci, e nessuno gliene dava. Era ridotto come uno schiavo e lo stesso avvilimento nel quale era gli toglieva coraggio di domandare almeno il cibo che si dava ai porci.
Quali giorni amarissimi menò l’infelice giovane! Stando a guardia di animali, aveva tutto l’agio di considerare il suo stato, perché quell’occupazione non lo distraeva e lo teneva tutto cogilabondo; inoltre, la vita immonda di quelle bestie era per lui come un’immagine della vita che egli aveva menato. Ricordò i giorni passati nella pulizia e nella pace della casa paterna, ricordò il modo come vi erano trattati i servi, rispettati, benvoluti e provvisti abbondantemente, ricorda sopra tutto la bontà paterna e non disperò di essere riaccolto da lui almeno come un servo.
Uno degli effetti del peccato, e massime di quello impuro, è l’indecisione e lo scoraggiamento, e per questo il giovane rimase per un certo tempo a pascolare i porci senza ribellarsi a quello stato di vita; egli, che si era ribellato al padre, sottostava poi supinamente ad un tiranno e non fiatava. Però l’idea di poter servire nella casa paterna cominciò a sembrargli attuabile, ed un giorno, deciso, disse a se stesso: Mi alzerò ed andrò dal padre mio, e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, e non sono più degno d’essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi. Era cosi avvililo che non aveva la forza di alzarsi senza imporselo: Mi alzerò ed andrò; era così confuso che si preparava ciò che doveva dire al padre; era ancora lontano dall’amare il padre, giacché si decideva principalmente in vista dei danni che la vita dissoluta gli aveva arrecati e dello stato nel quale era ridotto. Fu l’amore del padre che lo riabilitò e che mutò quel pentimento di attrizione in contrizione del cuore.
Il padre non lo aveva dimenticato ed ogni giorno guardava gemendo quella strada per la quale il figlio si era allontanato; come era triste per lui! Il sole gli sembrava più scialbo, la solitudine più desolante ed il passaggio dei viaggiatori era per lui una stretta al cuore.
Guardava lontano e piangeva silenziosamente, piangeva di amore e piangeva anche di collera, riprovando in cuor suo i traviamenti del figlio. L’ingratitudine che gli aveva mostrata non poteva non disgustarlo profondamente.
Ma ecco, un giorno vede avanzarsi un giovane dall’andamento accasciato, tutto lacero, appoggiato ad un bastone per la debolezza e per la stanchezza. Lo riconobbe subito: era suo figlio! E si sentì così commosso che, dimenticando tutto, gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò in un efflusso di amorosissime lacrime. Il figlio, piangente egli pure, disse ciò che aveva preparato e ripetuto tra se lungo la strada: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno d’essere chiamato tuo figliuolo. Non completò la frase come l’aveva preparata e non accennò a voler essere un servo di casa, forse perché il padre non gliene dette il tempo, ma forse anche perché quell’espressione non reggeva di fronte a tanto amore ed a tanta misericordia.
Il padre, vedendolo tutto lacero, chiamò in fretta i servi, ed ordinò loro di mettere fuori la veste più preziosa per vestirlo, dopo averlo lavato; ordinò che gli mettessero al dito l’anello col suggello, segno di onore speciale, ed i calzari al piede come si conveniva ad un uomo libero. Gli schiavi andavano scalzi ed il povero giovane, tornando da uno stato di schiavitù, non aveva calzari.
Ordinò poi il padre che si uccidesse il vitello ingrassato con cibi speciali, che si teneva in serbo per le grandi circostanze, e si preparasse un grande banchetto, perché quel figlio suo era morto ed era risuscilato, era perduto ed era stato ritrovato. Queste ultime parole del padre rivelavano tutto il suo amore e la sua gioia; mentre il giovane aveva protestato di non essere degno di chiamarsi suo figlio, il padre lo chiamava affettuosamente: Questo mio figlio.
Si preparò il banchetto, e fra canti e suoni di gioia si cominciò a mangiare. Mancava il primo figlio del padre, perche si era recato nei campi a sorvegliare i lavori. Nel ritornare sentì di lontano le musiche e le danze di quella festa e, chiamato uno dei servi, domandò che cosa fosse. Saputo di che si trattava montò in collera e non volle entrare.
Nelle feste del cuore c’è sempre qualche persona che mette una nota discordante, ma questa volta l’ira del figlio maggiore poteva degenerare in una rissa, ed il padre volle evitarla e corse personalmente a supplicarlo di entrare. Avrebbe potuto imporglielo, ma a che sarebbe valsa un’imposizione? Lo supplicò, invece, con lo stesso cuore misericordioso, compatendo il suo sdegno, ad entrare. Ma il figlio reagì dicendo che l’aveva sempre servito fedelmente, senza avere avuto mai in dono un capretto per banchettare coi suoi amici e soggiunse in tono sprezzante: Quando, invece, e venuto questo tuo figliuolo che ha divorato tutto il suo avere con le meretrici, hai ammazzato per lui ii vitello grasso. Non chiamò fratello il giovane che era tomato, ma essendo sdegnato, lo chiamò: tuo figliuolo, quasi che a lui non appartenesse ed espresse nella maniera più veristica, per disprezzo, lo stato di colpa del fratello: ha divorato tutto, il suo avere con le meretrici. Gli sembrò, poi, un’enormitò l’avere ucciso giusto per lui il vitello grasso.
Con immenso amore il padre cercò di placarlo, facendogli riflettere che egli non doveva adontarsi di quell’atto di misericordia, perché non diminuiva i suoi diritti: tutto ciò che è mio, gli disse, è tuo; ma soggiunse, ricordandogli l’amore fraterno, che era giusto banchettare e fare festa perché quel suo fratello era come risuscitato e ritrovato. Il figlio aveva chiamato suo fratello semplicemente figliuolo del padre, ed il padre, invece di chiamarlo suo figlio, l’aveva chiamato tuo fratello, per fargli riflettere che colui per il quale si faceva festa non gli era estraneo, ma gli era fratello e doveva essergli tanto più caro in quanto che era come un morto risuscitato ed un traviato ritornato alla via del bene.
Gesù Cristo non poteva tracciare in una maniera più commovente e tenera lo stato di un peccatore e l’infinita misericordia di Dio nel raccoglierlo in grazia sua quando egli veramente si pente. Non poteva esprimere in una maniera più profonda la misericordia di Dio verso l’umanità, le nazioni ed i popoli quando tornano a Lui. Sono due applicazioni distinte della parabola, che bisogna meditare: il padre che ha due figliuoli e Dio che ha tra i figli i buoni ed i cattivi, ed ha fra le nazioni quelle che gli sono fedeli e quelle che apostatano da Lui.
Dio e un padre che ha dato alle sue creature la libertà, affinché operino il bene meritando, e quando esse la reclamano, Egli non la nega loro, anche se per loro colpa ne abusano. Quando l’anima pecca, si allontana da Dio suo Padre, lascia la sua amorosa compagnia e si abbandona agli stravizi, distruggendo in se stessa la grazia e tutte le buone qualità che Dio le ha donate; il peccato le porta la miseria più squallida, ed essa da serva di Dio diventa serva, anzi schiava delle passioni più immonde. La caratteristica di questo stato è l’avvilimento e la fame, poiché l’anima non giunge neppure a satollarsi delle sue passioni e vive in uno stato di somma infelicità spirituale e corporale.
Lo stesso avviene alle nazioni quando apostatando si allontanano da Dio: vivono lussuriosamente, si riducono schiave di satana, e schiave dei suoi tristi rappresentanti, e cadono nell’avvilimento e nella miseria. Dolorosamente il campo dei porci e ii naturale epilogo dell’allontanamento da Dio, e la miseria ne è la conseguenza.
Sotto l’impeto dei castighi il peccatore rientra in se stesso ed ha un primo movimento di ritorno a Dio; considera la brevità e la nullità delle sue false gioie, considera la pace e la felicità di chi opera il bene, si vergogna di se e decide di ritornare al Padre Celeste, andando da chi in terra lo rappresenta. Padre, ho peccato, ecco l’umile confessione che il peccatore fa a Dio ai piedi del Confessore, ecco l’umile confessione che fanno le nazioni apostate al Padre, quando veggono la loro rovina.
Dio e infinita misericordia ed accoglie subito al suo cuore chi si pente sinceramente; ordina ai suoi servi, cioè ai Sacerdoti, di mettergli, con l’assoluzione, la veste della grazia; non gliela pone Lui direttamente, ma chiama i suoi servi, e da essi gli fa porre al dito l’anello di nuove grazie ed ai piedi i sandali della libertà, ordinando poi il banchetto dell’amore, perché si satolli di beni.
Alle singole anime penitenti Dio concede le delizie del banchetto Eucaristico, alle nazioni che, come tali, non hanno un avvenire eterno, Dio concede l’abbondanza dei beni materiali e la prosperità.
L’epilogo della parabola riguarda particolarmente il popolo Ebreo e lo scandalo che i farisei prendevano vedendo Gesù che trattava amabilmente i peccatori. Essi si rifiutavano di far parte del regno di Dio e del banchetto della vita, perché vedevano che Gesù vi accoglieva i peccatori; eppure avrebbero dovuto esultarne e goderne, perché quella famigliarità li convertiva e li salvava.
Il Padre Celeste non aveva solo un figliuolo maggiore, il popolo Ebreo, ne aveva anche uno minore, il popolo gentile; se Gesù cercava i pubblicani ed i peccatori, cercava di ricondurre al Padre Celeste il figlio minore con quelle primizie di misericordia. Questo avrebbe dovuto produrre in loro una gran gioia, giacché tutti gli uomini sono figli di Dio, Ebrei e pagani, e gli Ebrei avrebbero dovuto esultare nel vedere il figlio minore essere accolto tra le braccia della misericordia e partecipare al banchetto della vita.
La parabola del figliuol prodigo, come accennammo, si riferisce anche al ritorno delle nazioni apostate a Dio negli ultimi tempi.
È un racconto troppo vivo, che noi in parte stiamo già vivendo, per poterlo trascurare: Dio ha due figli: il popolo Ebreo ed il popolo gentile. Quest’ultimo, minore di età, dopo essere stato nella casa paterna, reclama la sua parte di eredità tutta materiale, pretende di potere usare a suo modo dei doni di Dio, e si allontana da Lui vivendo lussuriosamente.
La famosa dichiarazione dei diritti dell’uomo nella rivoluzione francese fu come l’atto ufficiale col quale il popolo, reso ribelle a Dio, reclamò i diritti, falsati e travisati, della propria eredità1. Dio non forza nessuno al bene e per suoi altissimi fini lasciò fare.
In possesso pieno e disordinato della propria eredità, le nazioni si allontanarono da Dio e cominciarono quella vita sistematicamente dissoluta, che è l’impronta speciale della nostra moderna così detta civiltà.
È la storia contemporanea, che fa orrore. È vero, in ogni tempo le nazioni, anche cristiane, si sono oberate di delilti spaventosi, ma se si pensa al bene che in esse regnava, a tanti Re santi, a tante manifestazioni di fede, di pietà e di carità, deve riconoscersi che, dopo l’apostasia, le nazioni sono cadute in profondi abissi di corruzione che i nostri padri non hanno neppure sospettato. La caratteristica poi di questa corruzione e l’impurità, spinta a poco a poco fino agli eccessi più degradanti.
La lontananza da Dio produce la miseria e la miseria conduce alle schiavitù più degradanti. Gli uomini, che dovevano vivere della divina Provvidenza ed essere santamente liberi, veggono diminuite le loro risorse fino alla miseria ed alla carestia e subiscono l’esoso dominio di un padrone crudele. Lo stato economico delle nazioni moderne fa spavento e con la scusa delle esigenze militari esse vanno verso una completa schiavitù interna. Servono lo Stato, padrone esigente, crudele e spietato, e non hanno di che sfamarsi.
Pascolano i porci, ma i porci non danno loro neppure quello che costituisce la loro mensa. In fondo i popoli apostati vivono per pascolare le mandrie corrotte dei capi, come si vede dovunque, e non ricavano nulla dalla loro schiavitù. Ecco in quale stato ha ridotto i popoli l’apostasia! È una cosa che si constata e si vive, non ha bisogno di dimostrazione.
Ma verrà l’ora della rinascita e verrà per la stessa violenza della crisi che tortura i popoli. Quasi svegliandosi da un sonno, diranno: Sorgerò ed andrò dal Padre mio. All’apostasia subentrerà un periodo di resurrezione della coscienza cristiana, e quindi un periodo di ritorno.
Il Padre celeste, pieno di misericordia, verrà incontro ai popoli, li abbraccerà e li bacerà con grazie speciali e li introdurrà novellamente nella Chiesa. I suoi servi rivestiranno a nuovo le anime, rimettendole in grazia di Dio, porranno al loro dito l’anello di novelle promesse e di una novella figliolanza con Dio ed imbandiranno il banchetto col vitello grasso, cioè con un’esuberanza di doni eucaristici. Ci saranno anche allora le voci discordanti, senza dubbio, perché nel mondo viatore non è possibile una completa armonia; ma saranno voci che la bontà del Padre comune, del Papa, saprà conciliare, per mantenere l’unità tra i popoli cristiani.
Il padre poi che invita, anzi supplica il fratello maggiore ad entrare nel banchetto, può significare il Papa dell’Amore che inviterà con grande amorevolezza gli Ebrei a far parte della gioia del mondo cattolico, e l’amorosa insistenza li indurrà alla conversione, formando così l’unico ovile sotto un solo pastore.
Scrivendo queste pagine e pensando alla misericordia di Dio c’è da piangere tanto, implorandola per noi e per tutti.
Che pena vedere le anime nella più squallida miseria e nella tormentosa infelicità per essere lontane da Dio!
Che tenerezza vedere Dio che, nonostante le loro ingratitudini, le accoglie!
O Signore, veramente abbiamo peccato contro il Cielo e contro di Te e non siamo degni di chiamarci tuoi figli!
Accoglici come tuoi servi, ridonaci la libertà santa del cuore, rivestici a nuovo con la tua grazia e rendici partecipi della tua mensa di amore in terra ed in Cielo.
(Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo)