sabato 27 agosto 2016

I primi posti

Commento al Vangelo della XXII Domenica TO 2016 C (Lc 14,1.7-14)

I primi posti…

Il Redentore, rivolto ai dottori della Legge che erano presenti e ai farisei, domandò loro: È lecito guarire in giorno di sabato? Con questa domanda li pose in imbarazzo, perché essi sapevano che guarire non era opera servile e sapevano che riprovare in giorno di sabato un atto di carità era lo stesso che condannarsi. Perciò tacquero. È evidente dalle parole di Gesù che, pur tacendo, essi erano contrari a far guarire uno in giorno di sabato, non tanto per amore della Legge, quanto per ostilità verso il Signore e, vedendo che Egli, difatti, guarì l’idropico, fecero segni di riprovazione, e mormorarono nel loro cuore. Perciò Gesù rispondendo ai loro pensieri disse: Chi di voi, se gli cade l’asino o il bue nel pozzo il giorno di sabato non lo estrae subito?
I farisei non poterono rispondergli nulla, ma si mostrarono contrariati di quella umiliazione subita e, mettendosi a tavola, quasi per rifarsene, ebbero cura di prendere i primi posti. È probabile che qualcuno di essi fosse stato invitato, proprio allora, dal capo di famiglia a cedere il posto che spettava ad altri più degni, e che ne avesse fatto lagnanza, perché Gesù rivolse la parola a tutti e cominciò ad esortarli a prendere l’ultimo posto se non per virtù, almeno per non fare una brutta figura innanzi agli altri.
Certo, Gesù voleva spingerli a cercare l’ultimo posto per umiltà vera e sentita, ma i suoi commensali non erano capaci di tanto, e si contentò di convincerli almeno con un motivo umano. Con questo, volle in certo modo promulgare e sanzionare quelle regole di buona creanza che sono una certa preparazione e disposizione alla virtù vera, perché rappresentano sempre un dominio sulle proprie debolezze e un primo abbozzo della carità verso gli altri.
È importante, infatti, anche ai fini della virtù, disciplinare le proprie azioni con la sana educazione e il galateo. La virtù vera produce sempre un modo di agire delicato e gentile, ma quando la virtù manca o non si è ancora formata, il modo delicato e gentile produce nell’anima una disposizione naturale che può facilitare, poi, l’azione della grazia. Gesù Cristo non esorta ad operare per un fine naturale, è evidente, ma a constatare che la mancanza di virtù induce una mancanza di forme esterne che raccolgono il disprezzo degli altri. Ai farisei, del resto, che operavano solo per essere onorati innanzi a tutti, era questo il motivo per indurli a smettere quei loro atteggiamenti tracotanti e superbi che tanto male facevano all’anima loro.

Il galateo, base della virtù
Forse se alle anime principianti nella virtù s’insegnasse il galateo ne guadagnerebbe la stessa virtù; il galateo è come un abito decente posto addosso ad un pover’uomo del volgo, è una spinta a cambiare certe abitudini disordinate, contratte a volte dalla nascita, con abitudini più decorose e l’incivilimento della vita che è poi utilizzato dal Signore per l’elevazione dello spirito, è il primo dirozzamento della natura che si dona a Dio, è un tratto di nobiltà insegnato a chi non ha l’abito della gentilezza.
Insegnando a scegliere l’ultimo posto negl’inviti, Gesù notò che alla tavola del fariseo c’erano tutte persone di riguardo, le quali perciò facevano a gara a prendere i primi posti.
Era una vana ostentazione della propria eccellenza, e un profondersi in cerimonie fatte per pura convenienza. Gesù scrutava i cuori e vedeva il retroscena di quegl’inviti fatti per opportunismo, per disobbligo, per obbligare gli altri, e sentì in quel pranzo tutta l’assenza agghiacciante di ogni fine gentile e soprannaturale; perciò, rivolto al fariseo che lo aveva invitato, lo esortò, per un’altra volta che volesse fare un pranzo, ad invitarvi i poveri, gli storpi, gli zoppi e i ciechi, per averne merito poi innanzi a Dio nella vita eterna.
Esortandolo così, Gesù gli rendeva un servigio spirituale, e lo indirizzava per la via del vero bene, dandogli Egli stesso un contraccambio prezioso dell’invito che in quel giorno aveva avuto.

I pranzi e le feste
L’esortazione di Gesù al fariseo è preziosissima per noi, e ci guida in quello che è uso comunissimo tra tutte le genti: i pranzi fatti nelle feste e nelle solennità. Gesù non condanna un pranzo, fatto anche per accrescere la letizia di una festa, ma ci esorta a non renderlo una misera speculazione di orgoglio o d’interesse personale. Egli vuole che alle nostre feste partecipino i poveri e gl’infelici, e non dice proprio letteralmente di invitarli a pranzo, il che pure sarebbe lodevole, ma di renderli partecipi della nostra gioia.
Un pranzo non può ridursi, evidentemente, ad una scorpacciata, il che sarebbe cosa indegna; è come un accrescimento della famiglia fatto con persone care ed è un’effusione di generosità, poiché la gioia è naturalmente espansiva.

Ora, noi siamo tutti figli del Padre celeste, ed è giusto che facciamo usufruire della nostra generosità quelli che ne hanno più bisogno. Oh, se si capisse quale vantaggio porta la carità e quanta benedizione portano con loro i poveri nelle nostre feste, non faremmo mai mancare in esse la beneficenza e la carità. È così che i pranzi non si riducono ad un più o meno larvato epicureismo, ed è così che la povera gioia della terra si muta in gioia del Cielo.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 20 agosto 2016

SFOZARSI DI GIUNGERE AL CIELO



Commento al Vangelo della XXI Domenica TO 2016 C (Lc 13,22-30)
Don Dolindo Ruotolo
Sforzarsi di giungere al Cielo
Mentre Gesù s’incamminava verso Gerusalemme, un uomo gli domandò se erano pochi quelli che si salvavano. Perché gli fece questa domanda? Forse perché, avvicinandosi a Gerusalemme, considerò i peccati dell’ingrata città, o considerò i ruderi delle rovine causate dalle antiche guerre; forse anche perché avvicinandosi al centro, si constatava di più nel popolo il rilassamento e la corruzione.
Gesù Cristo non rispose direttamente alla questione proposta, perché essa non interessava gli uomini ma Dio. Che importa, infatti, a noi, sapere se sono pochi o molti quelli che si salvano? Ciò che è necessario, per noi, è salvarci e, poiché non c’è un destino di perdizione per alcuni o di salvezza per altri, salvarci dipende dal nostro sforzo nel fare il bene e dal nostro filiale appello alla divina misericordia.
Più che sapere il numero degli eletti, bisogna sforzarsi di appartenervi, senza presumere di poter avere una posizione di privilegio nel Paradiso solo perché la si è avuta sulla terra, facendo parte del popolo eletto. È questo il senso fondamentale della risposta di Gesù. Egli esortò ad entrare in Cielo per la porta stretta, cioè per la via delle rinunce alle passioni disordinate e della fedeltà alla divina Legge.
Il mondo crede stretta e opprimente questa via, e Gesù la chiama stretta in questo senso, ma, in realtà, la vera porta stretta e opprimente è quella del male, perché stringe l’anima nei lacci della più terribile schiavitù. La porta del Cielo appare stretta, ma in realtà è immensamente larga e bella; basta introdurvisi per intenderlo.
Porta stretta può chiamarsi anche l’ultimo epilogo della vita, quando si va a Dio con quello che si è operato, ed essendo finito il tempo della prova, non si può mutare più la propria condizione.
La giustizia divina allora è come una stretta, una valutazione precisa, evidente e perciò inappellabile della vita. Molti, in quel momento, vorrebbero entrare, cioè vorrebbero mutare la loro condizione, ma non lo potranno perché sarà chiusa la porta, sarà finita la vita del tempo, e non si potrà presumere di ricominciarla. Il pensare, come fanno tanti stolti, che dopo la morte si possa riprendere, in altro modo e in una nuova esistenza terrena, il cammino sulla vita, è una fantasia pericolosa; quando si è giunti si è giunti, e quando si è chiusa la porta della vita non c’è altra alternativa: o si rimane dentro col Padre di famiglia a godere, o si rimane fuori, nell’eterna perdizione, a soffrire.
Rivolgendosi direttamente al popolo ebreo, Gesù fa notare che la sua posizione di privilegio tra i popoli della terra non costituiva un titolo per il conseguimento dell’eterna gloria. Se non avranno operato il bene, si troveranno così lontani da Dio nell’eternità, com’è lontano dal padrone di casa uno che gli è completamente sconosciuto; saranno riguardati puramente e semplicemente come operatori d’iniquità, e saranno condannati alla perdizione eterna, lontani dai loro santi, e lontani anche da tutte le creature salve che verranno da ogni parte del mondo.
Avverrà allora che gli ultimi chiamati da Dio nel suo regno saranno i primi, e che i primi, cioè tanti che fanno parte del popolo eletto, chiamato per primo da Dio, saranno gli ultimi.
La via della salvezza è stretta, perché molti la insidiano e cercano di porvi ostacoli. C’è nel mondo una strana inimicizia contro tutto quello che è bene, un’inimicizia che viene da suggestioni diaboliche, e che a volte abbindola anche i buoni, rendendoli strumento di male involontariamente.
È necessario tirare dritto e guardare l’ultima Meta che dobbiamo raggiungere.


sabato 13 agosto 2016

Amore vero e sacrificio eroico

Commento al Vangelo della XX Domenica TO 2016 C (Lc 12,49-53)


Amore vero e sacrificio eroico
Molti hanno poetato sul nome di Roma, dicendo che è un nome d’amore: Roma = Amor. Essi non pensano però che, considerata, nella sua vita pagana, Roma è un amore rovesciato che equivale all’odio implacabile. Roma imperiale specialmente, ha disseminato il mondo di rovine e di stragi, asservendo tutto al suo imperialismo tiranno e alla fatua gloria di pochi capi. Tutte le storie, del resto, delle conquiste umane hanno questa triste eredità di odio e di sangue.
Gesù Cristo si proclama, invece, Conquistatore d’amore per il suo sacrificio cruento e pone come base del carattere cristiano l’amore, il sacrificio eroico e la carità. Egli è venuto a portare sulla terra il fuoco, non quello della distruzione ma quello della carità e desidera solo che esso si accenda; è venuto a portarlo, sottomettendosi Egli al completo sacrificio e ai dolori che dovevano inondarlo come un battesimo, e l’amor suo glieli fa desiderare con ansia vivissima che lo tiene in angustia finché non li abbia subìti tutti. Questo amore e questo sacrificio Egli li lascia come bella eredità anche ai suoi seguaci, poiché la conversione del mondo comporterà, per essi, il subire persecuzioni e dolori persino dalle persone più care di famiglia. Non c’è dunque da illudersi: la predicazione del Vangelo, contrastando le passioni umane, produrrà reazioni violente che saranno causa di gravi dolori agli apostoli della divina Parola e a quelli che li seguiranno.
Questo fu già annunciato dai profeti, ed il vederne il compimento dev’essere per tutti un argomento di verità. Gli scribi e farisei si condannavano da se stessi, rifiutando la verità, poiché sapevano distinguere gli aspetti del cielo dalle nubi o dal soffiare dei venti e non volevano distinguere i segni inconfondibili della venuta del Messia, nelle stesse persecuzioni che muovevano a Lui e ai suoi discepoli. Compivano essi stessi i vaticini dei profeti, e non si accorgevano che il loro compimento era il segno della maturità delle divine promesse.
L’allusione all’ostinazione degli scribi e farisei nel rinnegare la verità è come un inciso al discorso di Gesù, ed Egli, subito dopo, continua il suo annuncio profetico delle grandi persecuzioni che avrebbero sofferte i suoi seguaci, esortandoli alla mansuetudine, alla prudenza e alla carità. Era questa l’unica e grande forza alla quale dovevano far appello per difendersi, perché il cristiano è figlio di pace e messaggero di carità; deve cercare in tutto l’accordo, la tranquillità e la carità, evitando, con la prudenza, quello che può inasprire gli avversari e renderli più violenti.
È questo il programma della Chiesa, al quale essa rimane fedele nei secoli: di fronte alla brutalità dei suoi nemici che vorrebbero soffocarla cerca sempre l’accordo e la pace, e la sua diplomazia è sempre ispirata all’onore di Dio e al bene delle anime.

Dev’essere questo lo spirito di ogni suo ministro e di ogni suo fedele, poiché l’accordo con gli avversari, o almeno la prudenza nel trattarli, quando si mostrano incapaci di un accordo, salva il bene dall’estrema distruzione. Dalla parabola che Gesù dice è evidente che Egli non vuole che i suoi seguaci siano amanti di liti, poiché nelle liti ci sono le dissensioni, le avversioni, gli odi, e questo sta agli antipodi del bene che bisogna fare alle anime. Anche quando si ha ragione, in una lite che non compromette l’anima o la coscienza, bisogna cedere, per non correre rischio d’incontrare impedimenti nel fare il bene, e per evitare d’averne la peggio anche innanzi ai giudici, come spesso avviene
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 6 agosto 2016

Riguardarsi pellegrini sulla terra

Commento al Vangelo della XIX Domenica TO 2016 C (Lc 12,32-48)

Riguardarsi pellegrini sulla terra
Gli antichi, usando vesti lunghe, quando viaggiavano o lavoravano le raccoglievano con una cintura attorno ai lombi, per essere più spediti nei movimenti. Quando camminavano, poi, per andare ad una festa di nozze, celebrandosi essa nella notte, portavano le lampade accese. Gesù vuole che noi viviamo sulla terra con i lombi recinti, cioè come pellegrini, e che siamo come servi che aspettano il padrone che torna dalle nozze e che, non sapendo a che ora viene, stanno vigilanti nella notte.
La vita è una continua aspettazione della morte, e la morte è il momento solenne nel quale Gesù, Sposo della Chiesa, viene a prendere l’anima nostra per introdurla alle nozze eterne. Egli verrà improvvisamente e quando meno lo aspettiamo, perché nessuno sa il momento della morte.
La vita terrena è come una notte, perché non ha la vera luce della gioia, ed è una prova. Essa può riguardarsi quasi divisa in tre vigilie, come gli antichi dividevano la notte: la gioventù, la virilità, la vecchiaia. Il Signore può venire in ciascuna di queste vigilie, e bisogna che noi siamo vigilanti per accoglierlo, se vogliamo che Egli ci partecipi l’eterna gloria, quasi come un padrone che si cinge, fa sedere a mensa i suoi servi fedeli, e somministra loro il cibo. Il Signore, nella gloria, ci comunica la sua stessa felicità, e può dirsi veramente che Egli si cinge e ci alimenta, perché, nella sua grandezza, si proporziona a ciascun’anima e, secondo la capacità di lei, l’alimenta di beni eterni.
Nella notte della vita possono venire anche i ladri a rubarci l’anima, poiché i demoni stanno sempre in agguato, ed è necessario vigilare per non farsi derubare dei beni eterni. Viene il Signore improvvisamente e, come si sta vigilanti per attenderlo, bisogna anche vegliare contro le incursioni dei demoni che tentano di compromettere il momento dell’incontro dell’anima con Dio.
Ecco una visuale della vita che non può lasciar adito ad illusioni e non può rendere titubante il cristiano di fronte ai propri doveri: se egli è pellegrino, sta in una posizione provvisoria, nella quale non può estremamente interessarlo ciò che è temporale e tanto meno può interessarlo fino a compromettere i beni eterni.
Egli è pellegrino che aspetta Gesù nell’ultima ora della vita e l’aspetta senza sapere quando venga. Deve dunque essere pronto a riceverlo, facendosi trovare fedele, poiché tutta la vita è vana, anzi è perdizione se non risponde alla sua divina volontà. Viene la persecuzione, viene il ladro che vuole rubarci i beni eterni, e l’anima rimane incrollabile e salda, pensando alla venuta del Re immortale, al Giudizio e alla sentenza che Egli pronuncerà per noi.
Pietro, ascoltando questa istruzione, domandò al Maestro se l’aveva detta per tutti o solo per i suoi apostoli; egli avrebbe voluto intendere meglio che cosa significava per loro essere vigilanti e attenderlo, e domandò chiarimenti. Forse pensò che parlasse del suo regno temporale da essi atteso. Gesù Cristo non gli rispose direttamente, perché era chiaro che quell’istruzione riguardava tutti; ma gli rispose aggiungendo al suo discorso quello che riguardava in modo particolare gli apostoli, e in generale i ministri di Dio. Questi, infatti, non debbono vigilare solo per loro, ma anche per gli altri, dovendo essere dispensatori fedeli e prudenti dei doni di Dio alle anime.
Gesù Cristo esprime questo pensiero con un’interrogazione: Chi credi tu che sia il dispensatore fedele e prudente?, ecc. Lo esprime così perché era circondato dagli scribi e farisei, dispensatori infedeli e violenti. Egli voleva dirgli: «Credi tu che ci siano dispensatori fedeli e prudenti che diano a ciascuno quello che Dio elargisce per il bene delle anime?». E, senza scendere a particolari rimproveri, insiste sul dovere che un ministro di Dio ha di vigilare sulle anime e di compiere con grande accuratezza gli uffici che ha dal Signore verso di loro, pensando al rendiconto finale. Chi crede che la vita sia un divertimento o una ricerca dei propri comodi e, lungi dal curare le anime le maltratta, dandosi ad una vita disordinata, nel Giudizio sarà considerato come un infedele e sarà punito.

Con uno sguardo divino che abbraccia il futuro, Gesù guarda tutti i suoi sacerdoti e li paragona a quelli dell’antico patto; questi possono trovare un’attenuante nelle loro miserie, ma quelli, avendo conosciuto la volontà di Dio e avendo avuto molto di più, saranno puniti molto più severamente nel Giudizio, se avranno avuto la sventura di essere infedeli. Il forte carattere di un sacerdote, perciò, dipende dal concetto che egli si forma della missione che riceve da Dio. Tutti sono pellegrini sulla terra e debbono essere vigilanti, nell’attesa dell’ora di Dio; ma il sacerdote, oltre ad essere pellegrino, è anche dispensatore dei beni celesti ed è responsabile delle anime che gli sono affidate; egli, quindi, meno degli altri fedeli può considerare la sua vita con leggerezza, o condurla disordinatamente, quasi non avesse da renderne conto; egli ha ricevuto più di tutti, e più di tutti sarà punito nelle sue infedeltà.
Servo di Dio don Dolindo Ruotolo