domenica 28 dicembre 2014

La presentazione al Tempio

Commento al Vangelo – I Domenica dopo Natale 2014 B (Lc 2,22-40)
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Don Dolindo Ruotolo
La presentazione al tempio
Maria Santissima, essendo purissima Vergine e Madre di Dio, non era soggetta alla legge della purificazione né a quella della presentazione e del riscatto del suo Figlio divino. La donna, infatti che partoriva un maschio era considerata immonda per 40 giorni per tutto quello che di macchiato e di sensuale accompagna la generazione, e il figlio primogenito era considerato, per legge, appartenente a Dio e non poteva essere della madre senza che ella lo avesse riscattato. Ora, Maria aveva generato per opera dello Spirito Santo, senza che il parto stesso avesse minimamente violato la sua verginità immacolata; Gesù, poi, come vero Figlio di Dio, non aveva bisogno né di essergli consacrato né tanto meno di essere riscattato. Egli, però, e la sua Santissima Madre si sottoposero alle usanze legali per umiliarsi e per darci l’esempio di ogni virtù, e quindi vollero comparire innanzi al mondo come creature qualunque.
D’altra parte, era logico che fosse così, dato che non era ancora giunto il momento di far conoscere il grande mistero che si era compiuto; ora, se Maria non fosse andata al tempio e non avesse offerto Gesù, sarebbe apparsa agl’ignoranti come una violatrice della Legge, il che Dio non volle permettere. Ella, in realtà, più che purificarsi, andava a purificare, profumando di purezza immacolata la terra e il tempio delle figure e delle promesse; più che offrire a Dio il Figlio divino che già gli apparteneva, lo offriva alla terra come Redentore e Re d’Amore; si umiliava legalmente, ma era Regina nel compiere la Legge e i Profeti.
La sacra Famiglia, dunque, giunse al tempio, attraversò l’atrio dei pagani e l’atrio delle donne, e salì i quindici scalini che portavano all’ingresso posto tra l’atrio delle donne e quello degli Israeliti. Il sacerdote di turno al tempio asperse Maria col sangue di una vittima, e fece su di Lei alcune preghiere. Maria era curvata, tutta soffusa di ineffabile purezza, tutta santa, fiore purissimo, aspersa di sangue come di rugiada di umiltà. Subito dopo fece l’offerta prescritta che consisteva, per i meno poveri, in un agnello di un anno, dato in olocausto, e di un colombo o di una tortora, e per i poveri in due colombi o due tortorelle.
Maria scelse l’offerta dei poveri, perché era povera; ma, in realtà, Ella non poteva offrire l’agnello, avendo nelle braccia il vero Agnello di Dio, non poteva dare un simbolo quando ne presentava il compimento. Era andata al tempio sotto le apparenze dell’umiliazione legale, ma in realtà Ella compiva, in quel momento, le figure e le profezie del passato, e donava al Trono di Dio la vera Vittima per i peccati degli uomini.
Per il riscatto del primogenito si versava un obolo di cinque sicli, pari a circa 18 lire; cinque monete ridonavano il figlio alla madre e al padre, i quali venivano così a riconoscere il diritto di Dio sulle sue creature. Maria presentò il Figlio divino al Padre, ed offrì i cinque sicli per riaverlo; era l’ultima figura che splendeva nel tempio, poiché quei cinque sicli adombravano le cinque piaghe con le quali il Redentore avrebbe riscattato l’uomo per darlo a Dio. Gesù Cristo, coperto della veste dei nostri peccati, rappresentava, in quel momento l’uomo e, riscattato con i cinque sicli, esprimeva in sé il riscatto che avrebbe avuto l’uomo; Egli era il Redentore che doveva riscattarlo ma, offrendosi a Dio con la veste dei nostri peccati, rappresentava, innanzi a Lui, l’uomo peccatore, e lo segnava simbolicamente nel prezzo del riscatto che Egli stesso gli avrebbe dato con le sue piaghe e la sua morte.

Il santo vecchio Simeone
Il grande mistero che si compiva sarebbe sfuggito a tutti, se un santo vecchio, chiamato Simeone, non l’avesse svelato per ispirazione divina. Egli era decrepito, giusto e timorato di Dio, cioè, secondo il testo greco, santo e contenzioso osservatore di tutto ciò che riguardava la religione. Aveva passato la vita aspettando la consolazione d’Israele, ossia il Redentore, ed aveva pregato intensamente perché il tempo della sua venuta fosse abbreviato. Ora, nelle sue preghiere aveva avuto dallo Spirito Santo, per ispirazione interna, la rassicurazione che non sarebbe morto senza vedere il Messia. Essendo egli molto vecchio, la rassicurazione equivaleva ad un annuncio dell’imminente compimento delle promesse divine.
Nel giorno nel quale Gesù fu presentato al tempio Simeone sentì una di quelle ispirazioni interne alle quali è difficile resistere: avvertì una profonda gioia nell’anima, un senso di raccoglimento e, nel medesimo tempo, un’espansione di cuore che gli faceva volgere il pensiero a Dio, pregando con facilità, con impeto d’amore e con la sicurezza di essere esaudito. Sono infatti questi i sentimenti che comprendono un’anima circonfusa da una luce speciale dello Spirito Santo. Era attratto verso il tempio e si sentiva un vigore particolare in tutta la persona che lo spingeva come se fosse stato sorretto. Uscì in fretta, andò alla casa di Dio e vi trovò Maria, Giuseppe e il Bambino divino.
Fu una visione per Lui: l’umiltà e il candore della Madre Immacolata erano come aureola di luce intorno al Bambino che aveva tra le braccia; il raccoglimento e la semplicità di san Giuseppe erano come profumo di fiori che lo adornavano; egli capì subito il mistero dell’Infante divino, e domandò, in grazia, di prenderlo fra le braccia. Lo prese e si sentì tutto vivificare dalla grazia; il cuore gli ardeva nel petto e lo Spirito Santo gli effondeva nella mente una grande luce di verità. Volse gli occhi al cielo e, sostenendo il Bambino, esclamò: Ora lascia che se ne vada in pace il tuo servo, o Signore, secondo la tua parola, perché gli occhi miei hanno visto la tua salvezza, da te preparata al cospetto di tutti i popoli, luce per illuminare le nazioni, e gloria del popolo tuo Israele. Parlò tutto d’un fiato, senza interrompersi e senza posare, come san Zaccaria nel suo cantico; le idee erano in lui non una riflessione ma una gran luce, e fluivano da lui come un fascio di splendori che niente poteva arrestare.
L’accento ispirato col quale Simeone parlava era così solenne che Maria e Giuseppe rimasero meravigliati delle cose che si dicevano di Gesù. Non si meravigliarono che Simeone le avesse dette – come spiegano alcuni interpreti –, ma si stupirono di ciò che egli diceva del Bambino, come dice esplicitamente il Sacro Testo. Essi avevano una fede immensamente più grande di quella di Simeone, e conoscevano più profondamente quello che egli diceva; ma è proprio della fede il godere della luce che conferma la verità, e l’ammirarne di più l’armonia nei riflessi che essa spande d’intorno. Maria e Giuseppe vivevano più ardentemente di quello che credevano, poiché la conferma che ne dava Simeone era per la loro mente una luce viva e per il cuore una fiamma d’amore.
Simeone era vecchio, e come tale sentiva un senso di paternità per quelli che erano giovani, e un’espansione di bontà verso di loro. Vedendo Maria e Giuseppe in un grande raccoglimento d’amore, ne fu maggiormente intenerito, e li benedisse con l’effusione affettuosa di un vecchio pieno di bontà. Preso poi da una nuova ispirazione, si rivolse a Maria e le disse in tono solenne, parlando di Gesù: Ecco che questi è posto come rovina e come risurrezione di molti in Israele, e per segno di contraddizione e la tua stessa anima sarà trapassata da una spada, e così verranno svelati i pensieri di molti cuori.
In poche parole aveva tracciato il cammino doloroso del Redentore e quello di sua Madre: in Israele, molti gli avrebbero creduto e si sarebbero salvati, ma molti l’avrebbero rinnegato e si sarebbero perduti; Egli sarebbe stato segno di contraddizione delle autorità costituite e per le anime prive di rettitudine; l’anima di Maria, poi, sarebbe stata trapassata da una spada di amarissimo dolore nelle contraddizioni del Figlio e nella sua dolorosa morte.

Esulta Anna, una santa donna del tempio
Mentre Simeone si estasiava di gioia, tenendo nelle braccia Gesù Bambino, sopraggiunse una santa donna chiamata Anna, vecchia di ottantaquattro anni che stava nel tempio giorno e notte che abitava, cioè, in qualche stanza annessa al tempio, prestava i suoi servigi, e si tratteneva in continue preghiere e digiuni, implorando il compimento delle divine promesse. Questa donna, rimasta vedova dopo sette anni di matrimonio era rimasta vedova fino a ottantaquattro anni e, come può rilevarsi dal contesto, si era data ad un santo apostolato fra le anime che frequentavano il tempio, mantenendo acceso in loro il desiderio della venuta del Messia. Nel Sacro Testo è detto, infatti, che ella, dopo averlo visto Bambino, parlava di Lui a tutti quelli che aspettavano la redenzione d’Israele; dunque, aveva relazioni di apostolato con le anime più rette, e parlava loro dei disegni di Dio. Era chiamata la profetessa proprio per questo, e raccoglieva le confidenze di quelli che più erano oppressi dalle pene della vita, incoraggiandoli con la speranza dell’imminente redenzione.
Come Simeone, anche Anna si sentì tratta al tempio da un’ispirazione interiore e, poiché aveva familiarità con le misteriose operazioni di Dio, sentì subito nel cuore un impeto di gioia che la fece erompere in benedizioni e lodi al Signore che aveva mandato il Redentore.

Era misterioso e commovente che due vecchi avanzatissimi negli anni rendessero testimonianza al nato Messia; essi rappresentavano l’antico patto che confermava la verità di ciò che si era compiuto. In quel momento, la corte del Re divino era formata dall’Antico Testamento e dall’Antica Legge, figurati nei due vecchi, era glorificato da Simeone che s’interpreta chi esaudisce e chi obbedisce, e da Anna che significa, grazia, misericordia che dona, figlia di Fanuele, visione di Dio, della tribù di Aser, la beatitudine e la felicità. Nei nomi stessi dei due vecchi splendeva un riflesso del mistero che si era compiuto; Dio aveva esaudito i sospiri dell’umanità, si era fatto obbediente, e aveva effuso la misericordia e la grazia.

domenica 21 dicembre 2014

Il momento dell'Incarnazione





Commento al Vangelo – IV Domenica di Avvento 2014 B (Lc 1,26-38)
Don Dolindo Ruotolo
Il momento dell’Incarnazione
In un’umile borgata, celebre non per grandezza ma per il disprezzo proverbiale nel quale era tenuta, viveva un’umile verginella, sposata ad un umile falegname. Quando si voleva dare un appellativo di disprezzo, si diceva: È stolto come uno di Nazaret, e quella borgata era così umiliata che non si credeva potesse dare i natali a qualche cosa di buono. Il Signore, che deride le vedute umane e che si compiace dell’umiltà, volle scegliere proprio questa borgata come luogo per incarnarsi. Come Egli adagia la fava nel morbido baccello e manda la rugiada fecondante nella notte, così volle riposare nell’umiltà, e discendere in un luogo di sommo nascondimento agli uomini.

L’umiltà
L’umiltà, l’umiltà è il fascino di Dio, perché è il foco nel quale la sua luce può riflettersi e la sua grandezza può manifestarsi. Egli che, conoscendo se stesso genera il Verbo, non trova altro luogo dove riporre il Verbo fatto Fiore di Iesse che nell’umiltà, conoscenza di se stessi nella piccolezza. La creatura, conoscendo se stessa e umiliandosi, attira il Creatore; nel soave vuoto dell’umiltà, Egli rifulge, poiché il disprezzo amoroso nel quale la creatura si sprofonda è apprezzamento di Dio, ed ha qualcosa di quell’eterna conoscenza feconda del Verbo eterno. È un mistero d’amore che il mondo non conosce.

La Verginella di Nazaret
L’umiltà attrasse Dio sulla terra, poiché la Verginella da Lui scelta come suo tabernacolo vivente era la più umile di tutte le creature. Maria, della discendenza di Davide, di stirpe regale; era, in realtà, sconosciuta a tutti, e viveva come umile persona del popolo nelle modeste condizioni di una vita di lavoro. Si era tutta consacrata al Signore, fin dalla piccola età, nel tempio, e gli aveva offerto la sua verginità immacolata; ma chi aveva cura di Lei l’aveva voluta sposare ad un uomo della stessa casa di Davide, Giuseppe e, come si usava in quei tempi, aveva contrattato il matrimonio a sua insaputa. Ella aveva obbedito, fiduciosa di conservare intatto il suo giglio poiché, l’uomo al quale era stata legata, era di straordinaria virtù. Può supporsi che gliene avesse parlato; ma forse, con maggiore probabilità, si era interamente affidata al Signore, aspettando da Lui la guida nel suo misterioso cammino. Nella sua profonda intuizione della divina volontà, aveva capito che Dio aveva un fine in quel casto connubio, e si era acquietata, confidando in Lui. Questo non è una pia supposizione, ma può dedursi dal suo atteggiamento verso san Giuseppe, dopo l’Incarnazione del Verbo, poiché, come vedremo, Ella non gli svelò il mistero, ma attese che Dio glielo avesse svelato.

Quand’ecco giunse un angelo di Dio

Quand’ecco una gran luce invase la stanzetta e la fece trasalire. In quella luce splendeva più fulgido un angelo di Dio.
Maria non si turbò e non temette, perché era abituata alla compagnia degli angeli; ma si accorse che quel celeste messaggero non era come gli altri, in quel momento. Non aveva un aspetto di maestà, ma sembrava prostrato in riverente ossequio; rifulgeva di luce più grande, poiché portava il più grande messaggio che sia stato mai portato dal Cielo in terra; ma la sua grandezza era velata dall’umiltà.
Sostò per un momento, si curvò e, ammirando il capolavoro di Dio, esclamò: Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te; benedetta tu fra le donne. E si fermò adorando Dio che l’aveva fatta così bella, poiché in Lei vedeva i riflessi più luminosi dell’infinita santità.
Maria, l’umilissima Maria si sentiva salutata con parole grandi che per Lei erano incomprensibili; allora si turbò perché quelle parole non avevano eco nel suo Cuore, abituato ad impiccolirsi; erano come un linguaggio sconosciuto per Lei, e pensò che cosa potessero significare. Non sospettò che fossero un elogio, ma temette che fossero un rimprovero, un segno dello scontento di Dio. Si rileva chiaramente da ciò che l’angelo soggiunse: Non temere, perché hai trovato grazia innanzi a Dio.
Si direbbe: è la psicologia delle anime veramente umili; esse si turbano negli elogi, perché sembrano loro un assurdo, e li riguardano come un traviamento del loro cuore, perché ad esse sembrano che manomettano la gloria di Dio.
Maria non si turbò nella visione dell’angelo, come suppongono alcuni, ma nelle sue parole come dice esplicitamente il Sacro Testo – e, non sapendone intendere il significato, come chi ascolta una lingua sconosciuta, mostrò fino a qual punto giungeva la sua umiltà! Fu in quel momento di abbassamento interiore che l’angelo la preconizzò Madre di Dio: Ecco, concepirai nel tuo seno un figlio e lo chiamerai Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo. Il Signore gli darà la sede di Davide, suo padre, e regnerà in eterno nella casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà mai fine. L’angelo disse: Concepirai nel tuo seno e partorirai; dunque, doveva diventare veramente madre; doveva dare nome al suo Figlio Gesù, Salvatore; dunque si compivano i vaticini che annunciarono la salvezza d’Israele e del mondo; il Figlio sarebbe chiamato Figlio dell’Altissimo; e quindi Ella sarebbe stata la Madre di Dio. Avrebbe avuto il regno di Davide in eterno, il vero regno promesso al santo re, il regno della grazia e dell’amore che sarebbe durato in eterno.
Maria rimase pensosa. Ella era sposata a san Giuseppe; aveva promesso a Dio il fiore verginale, e sapeva che l’aveva promesso anche Giuseppe; che cosa doveva fare? Desiderosa solo di compiere la divina volontà voleva sapere come doveva compierla. Maria, in quel momento, fece un atto di virtù più grande di quello di Abramo e, invece di mostrarsi pronta a immolare il proprio figlio, si mostrò pronta anche a rinunciare alla sua verginale integrità, se così a Dio fosse piaciuto. Non è esatto supporre e dire che Maria avrebbe rinunciato alla divina Maternità per non rinunciare alla verginità; questo non sembrerebbe consono alla piena sottomissione di Maria al volere di Dio. La Vergine espose solo la sua particolare condizione, e implicitamente quella di san Giuseppe: Ella non conosceva uomo e, dato il suo voto, non poteva conoscerlo se Dio l’avesse voluto, Ella aveva uno sposo vergine che per la sua consacrazione apparteneva a Dio solo; come sarebbe avvenuta la concezione? Ella non poteva rompere il legame che san Giuseppe aveva stretto con Dio, e domandava come sarebbe potuto avvenire il concepimento. Ma l’angelo subito la rassicurò; Ella avrebbe concepito per opera dello Spirito Santo, e la sua verginità, come quella di san Giuseppe, sarebbe rimasta integra.
Le parole dell’angelo non furono una semplice affermazione, furono una gran luce, poiché egli parlava in nome di Dio. Nessuno può capire con quale amoroso rispetto un angelo pronuncia il Nome di Dio, dal quale tutto riceve e nel quale si bea. Gabriele, nel nominare lo Spirito Santo, rifulse d’amore, fruendo dell’eterno Amore e, nell’accennare alla virtù dell’Altissimo, mostrò nel suo volto il suo riverente timore per l’onnipotenza divina. Era fulgido d’amore e prono in adorazione talmente profonda, da far apprezzare l’infinita distanza che sussiste tra la potenza della creatura e quella del Creatore. Maria in quel momento contemplò la potenza di Dio e vi si abbandonò con un atto di fede illimitata. Non aveva bisogno di sapere altro, non aveva bisogno di scrutare, non volle pensare alle conseguenze esterne di una sua concezione miracolosa; curvò l’intelletto e credé, piegò la volontà e si donò, aprì il cuore e amò d’intenso amore Dio.
L’angelo soggiunse che anche Elisabetta, benché sterile, aveva miracolosamente concepito un figlio, e stava già al sesto mese, perché niente era impossibile a Dio. Era questa la prova umana che dava alla ragione di Maria, perché Dio, nelle sue grandi opere e nelle sue rivelazioni, ha sempre un riguardo delicato per la ragione umana. La fede piena in Lui è in tal modo sostenuta, ed ha una maggiore facilità nel suo slancio. La luce, nella ragione, è come la spinta della catapulta all’aeroplano che deve spingersi al volo senza motore, e lo lancia d’un colpo nell’azzurro del cielo.

Maria credé: «Ecco la serva del Signore...»

Maria credé al grande mistero che le si annunciò e credé all’effusione dello Spirito Santo in Lei. Curvò la fronte con immensa umiltà, aprì il cuore con piena dedizione, e pronunciò quelle ammirabili parole che dovevano far compiere il grande mistero dell’Incarnazione del Verbo: Ecco la serva del Signore, sia fatto di me secondo la tua parola. Fu un momento solenne che la povera penna non sa rendere; fu il momento delle nozze d’una creatura con l’eterno Amore, e della discesa del Verbo nel suo immacolato seno. Si direbbe che questa discesa d’amore fu come l’immenso peso che fece traboccare la bilancia della misericordia, e sollevò Maria fin là dove il Verbo era disceso, fino alle altezze eterne. Maria si raccolse in silenzio, s’inabissò in Dio, si donò a Lui interamente, umiliandosi fino alla polvere del proprio nulla. Sparì quasi in questo atto di profondissima umiltà, e pregò ardentemente. Avvertì una grande pace, e sentì rifluire nella sua vita una corrente di purezza sterminata.
Il suo corpo sembrava fosse diventato spirito, tanto era luminoso e diafano in quella gran luce che l’adombrava. Fu tutta come un cantico vivente d’amore: cantavano le sue potenze nell’armonia dei doni dello Spirito Santo, rifulgeva l’intelletto di sapienza divina, rifulgeva la volontà tutta unita a quella di Dio, l’inondava una luce immensa di scienza celeste per la quale conversava nei cieli, anzi nella pace amorosa della Santissima Trinità, poiché da quel momento Dio la chiamava quasi nel divino consesso: era infatti la Figlia, la Sposa, la Madre di Dio, aveva in sé l’immagine più grande della Santissima Trinità, era principio generante del Verbo Incarnato, l’aveva nel suo seno, congiunto a sé per l’eterno Amore, e poteva rispondere, come eco, alle eterne parole: Ex utero ante luciferum genui te, dette da Dio Padre, con le parole del suo amore materno: Dal mio seno, nella luce di Dio ti ho generato. È mirabile! Dio parlando della generazione eterna del Figlio paragonò il suo eterno seno all’utero verginale, perché non fosse sembrato strano che da una Vergine un giorno potesse essere concepito il Verbo Incarnato, e Maria poteva paragonare il suo utero al seno eterno di Dio Padre!

E il Verbo si fece Carne

L’angelo fu testimone delle nozze di Maria con lo Spirito Santo e dell’Incarnazione del Verbo; fu quello un momento di grande gioia per il suo spirito ardente, e sostò in adorazione. L’eterno Amore che congiunge il Figlio al Padre, congiunse il Figlio alla Madre divina. Attivò in Lei un amore immenso e l’avvolse con la sua fiamma; l’adombrò, cioè la fece quasi sparire in quella fiamma, rendendola quasi incandescente in Lui. Quell’amore era Lui stesso fatto fiamma del Cuore di Maria, di modo che Maria visse tutta di Lui e per Lui in quel momento. Egli ardeva come la fiamma del Sinai, e non la consumava, ma la vivificava. Maria era come assorbita da Lui, pur conservando la propria personalità; un germe vitale del suo seno fu penetrato dalla vita che lo Spirito Santo attivava e cominciò il suo sviluppo. Era un germe incontaminato, verginale, penetrato senza alcuna lesione non da un germe umano ma creato dalla virtù di Dio, e la vita che lo attivò era quella dell’eterno Amore. Maria poté dirgli con verità più grande di quello che non lo dicano le creature alle creature: Sposo d’amore sei tu per me.
La grazia dello Spirito Santo s’irradia nelle creature e le arricchisce di doni perché possano essere lode di Dio; in Maria lo Spirito Santo non s’irradiò ma la vivificò, rendendola feconda del Verbo Incarnato Lode sostanziale di Dio; Maria si sentì doppiamente come divinizzata, e la gratitudine che aveva per Dio le fece sentire in una tenerezza ineffabile la divina Paternità. Chiuse gli occhi, glorificò il Signore esultando, nel silenzio del suo Cuore, rimase prona in adorazione, più bella di tutti gli angeli del cielo. Gabriele la guardò stupefatto; vide trasparire da Lei la luce stessa di Dio, poiché in quel momento si era realizzato il grandioso miracolo: La donna aveva circondato e avvolto l’uomo Dio nella propria vita, lo faceva vivere di sé e viveva di Lui, di modo che la sua vita per Lui aveva qualche cosa di divino. Il sangue che fluiva nel Figlio era suo, ed in Lui diventava Sangue divino per l’unione ipostatica; rifluiva poi dal Figlio in Lei come Sangue divino, comunicandola di sé. La grande e piccola circolazione passava nel Cuore Immacolato della Madre, ma rifluiva nel Cuore divino del Figlio, e ritornava a quello della Madre. Si saturava naturalmente di ossigeno nei polmoni della Madre e di vita divina nel Figlio, di modo che la vita materna era continuamente vivificata dal Figlio divino.
È questa la più grande meraviglia dell’Incarnazione del Verbo in Maria, ed è la Comunione che la elevò alla più grande santità in ciascuno di quei 20 o 30 secondi nei quali il sangue compiva tutto il suo giro nel sistema arterioso e venoso. Tutto il corpo di Maria ne era santificato, e fin nelle più piccole fibre dove i vasi capillari raggiungono un diametro di cinque millesimi di millimetro, fin negli organi più lontani dalla vita razionale, fluiva la vita divina, e santificava tutte le attività, rendendole lode di Dio.
            Era logico che dove viveva la Lode sostanziale di Dio tutto dovesse essere lode, e che il corpo che aveva dato la vita temporale al Verbo Incarnato fosse un corpo tutto voci di amorosa lode a Dio.

sabato 13 dicembre 2014

EGLI ERA IN PRINCIPIO PRESSO DIO


Commento al Vangelo – III Domenica di Avvento 2014 B (Gv 1,6-8.19-28)


Egli era in principio presso Dio
  Era il Verbo, ma dove?
  Risponde profondamente l’evangelista: Era presso Dio, nel seno eterno del Padre, nella sua immensità, ma distinto da Lui, e per questo dice: Era presso Dio.
  Era sussistente, infinito, termine della sua conoscenza e oggetto della sua compiacenza, indiviso dal Padre, sedente con Lui sul trono eterno e spirante con Lui l’eterno Amore. Per noi che risaliamo dal tempo ai confini eterni, è detto che Egli era, in principio, ma Egli è sempre stato col Padre e lo Spirito Santo, sempre sarà, e nella sua semplicissima eternità è, tutto presente, tutto infinitamente in atto.
  Quale mistero sublime che dà le vertigini!
  È stata calcolata scientificamente l’età di circa diecimila anni per un piccolo strato di torba; moltiplicando la cifra per le profondità abissali che la raccolgono, si giunge ad un numero astronomico, quasi incalcolabile. Eppure è appena il quadrante di una delle ultime ore della formazione della terra.
  Se ascendo dalla terra nella prima stazione del cielo, vi trovo la luna, il nostro satellite che è morto già e ancora cammina intorno a noi, quasi specchio che riflette sulle nostre notti la luce indiretta del sole. Quando cominciò il suo etereo viaggio? Io non lo so. Passa da millenni e millenni sulle nostre solitudini, guarda da millenni e millenni le nostre vicende; come un teschio dalle orbite vuote guarda l’abisso del tempo che fu e del tempo che scorre.
  I suoi occhi vuoti sono crateri di spenti vulcani, l’ultima fase della vita dell’astro, e quei vulcani suppongono i miliardi di miliardi di secoli che li precedettero, suppongono forse la vita che passò, i cui avanzi sono forse negli immobili magmi e nelle lave sospese nel vuoto; suppone la prima solidificazione dell’astro, e poi la massa incandescente roteante tra rossi bagliori, e poi la nebulosa incandescente, bianchissima, saettante sull’orbita sua e poi ancora – chi sa? – il nucleo dal quale si staccò l’errante cometa, il bolide che percorse miliardi di miliardi di chilometri, di miriametri di anni luce, e sembrò quasi immobile sul quadrante del tempo, tanto esso era immenso!
  Che cosa formidabile poter giungere, almeno con la mente, ai confini del principio di tutto, e scorgervi quell’erat eterno, sfolgorante nella luce attuale che nella sua immensità semplicissima non conosce né il prima né il dopo!
  Per giungere a quei confini, dovrei tendere il mio fragile orecchio nello spazio sterminato, per ascoltarvi, portata sulle onde dell’etere, la squilla lontana della prima ora che scoccò con l’immane caos quando il Verbo parlò dalle profondità della potenza di Dio e, diffondendo la divina bontà, disse: Fiat.
  Fiat!… Sorse prima la monade, come fantastica l’uomo miope che non può scorgere nella profondità degli oscuri misteri?
  Fiat!… Sorse l’atomo forse, un atomo solo che pieno di formidabili forze, portò nella sua infinitesimale piccolezza il riflesso dell’Infinito generante, e cominciò a moltiplicarsi, ad aggregarsi, a fondersi, a sovrapporsi, a splendere, a saettare, a correre gioioso sull’orbita sua, lodando il Signore?
  Io non lo so; ma se l’atomo fu la prima creatura della materia che vedo o intuisco, quanti trilioni di trilioni di secoli-luce ci vollero per formare un primo piccolo corpo? Io mi stordisco e mi avvilisco, e non riesco a fissare ancora la prima ora del quadrante del tempo!
  Ma come si formò per l’eterna Parola di Dio il primo essere materiale, come poté, direi, condensarsi in materia la stilla di vita diffusa dall’infinita bontà? Possibile!
  Dall’eterno Principio che è eterna Sapienza e infinito amore, poté scendere giù una massa informe e vuota, disordinata e infeconda? Possibile!
  La prima voce dell’universo fu muta, e la bontà infinita, diffondendosi, formò abissi di tenebre? Possibile!
  La prima ora del tempo, il principio fu segnato da un oscuro quadrante e da un indice buio? Termina il tempo proprio in questi confini, e l’orizzonte suo è fosco come l’abisso di caverne profonde?
  Non ti smarrire anima mia, ascolta la voce di Dio nel primo libro della sua Parola: In principio Dio creò il cielo e la terra, e la terra era informe e vuota (Gn 1,2). La terra, la materia, questa era ancora informe e vuota, troppo distante da Dio, quasi che Dio nel crearla la disdegnasse, quasi fosse già il rifiuto di una cosa più bella, il sedimento di una fiumana splendente.
  Il tempo non ha qui il suo primo quadrante, l’ha più in alto, più in alto, poiché, col mondo sensibile, Dio creò quello spirituale, e su di esso segnò la prima ora del mondo.
  Fu simultanea la sua creazione, ma il suo dito divino segnò la prima ora del tempo su di un oceano sfavillante di luce sui cori dei suoi angeli, puri spiriti, completi, sue immagini vive, intelletto e amore che, per raggiungerlo, dovevano solo donargli liberamente per sempre l’intelletto e l’amore, affinché Egli li avesse potuti beatificare, colmandoli della luce del suo Verbo e della fiamma del suo Amore. Qui si scorge luminosamente il principio del tempo, qui l’occhio, oltre questo principio, contempla il Verbo che già era, era presso Dio, era Dio.

La testimonianza di san Giovanni Battista
  San Giovanni, dopo aver detto che il Verbo si è fatto carne, conferma la sua testimonianza con quella del Battista, prima di spiegare quale pienezza ha il Verbo Incarnato, e quale grazia e verità ci comunica. Il versetto 15 è come un inciso, una parentesi, una conferma dell’Incarnazione del Verbo, per la testimonianza di san Giovanni Battista, come i versetti 16, 17 e 18 sono la spiegazione della pienezza di grazia e di verità che il Verbo Incarnato ebbe e ci comunicò. San Giovanni Battista rese questa testimonianza solennemente, gridando alle turbe nell’additare Gesù Cristo: Questi è Colui del quale io dissi: Quegli che verrà dopo di me a predicare è più di me per dignità e per dottrina, perché era prima di me, essendo vero Dio.
  Nella generazione secondo la carne, san Giovanni era prima di Gesù, perché concepito e nato sei mesi prima di Lui; con quelle solenni parole non poteva, dunque, alludere che alla preesistenza del Verbo nell’eternità, ossia alla sua divinità. Per quelli che ancora riguardavano il Battista come un prodigio di santità la testimonianza era di grandissimo valore. Gesù Cristo era stato come presentato al mondo da un grande profeta, e presentato come Dio; non era, dunque, un ignoto, come dicevano i farisei: non sappiamo da dove venga, ma era glorificato dalla testimonianza di uno, certamente mandato da Dio. Se era Dio, evidentemente noi abbiamo ricevuto e riceviamo dalla sua pienezza di grazia, grazia su grazia, e dalla sua pienezza di verità la grazia e la verità, cioè l’annuncio pieno della verità e la grazia per accoglierla e metterla in pratica.
  A Mosè fu data la Legge, ed egli è il fondamento dell’Antico Testamento; ma la Legge era piena di ombre e di figure, e non aveva valore che per il suo riferimento al Redentore che doveva venire né giustificava che in vista di Lui. Era grazia divina e diffondeva grazia, ma non ne era pienezza né poteva dirsi completa luce di verità, dato che annunciava la Luce vera che doveva un giorno illuminare ogni uomo.
  Nessuno, infatti – soggiunge san Giovanni –, ha mai visto Dio nella sua essenza, e nessuno ha potuto rivelarcene il mistero profondo; solo il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre, cioè a Lui consustanziale, e infinita conoscenza di Lui, ha potuto rivelarcelo, annunciandoci la Santissima Trinità, e svelandoci il mistero della sua generazione eterna dal Padre e dell’eterna spirazione dello Spirito Santo.
  Con queste parole, l’evangelista indica la fonte dalla quale egli ha attinto la verità che forma lo scopo del suo Vangelo: la divinità di Gesù Cristo. Egli non fa supposizioni, non esprime un’opinione, non propugna fantasie, attinge la sua dottrina dalla stessa rivelazione fattane da Gesù Cristo, Verbo di Dio fatto uomo, e confermata dai suoi miracoli e dalla sua vita.
  I nemici di Gesù Cristo avrebbero potuto opporre a Lui il Battista che con la sua austerità rispondeva di più alle idee che essi avevano del futuro Messia, ma san Giovanni, prevenendo l’obiezione, la sfata con la stessa testimonianza del Battista.

L’ambasceria dei farisei
  Ad ogni modo, i capi del sinedrio scelsero una rappresentanza di sacerdoti e di leviti, cioè di persone competenti in materia religiosa, e la mandarono dove Giovanni battezzava, per domandargli: Tu chi sei?
  Appena lo interrogarono: Tu chi sei?, egli capì subito lo scopo della domanda e, inorridendo al pensiero che potesse essere scambiato per il Messia, rispose con ansiosa insistenza, pari all’amore che portava al Redentore e alla disistima che aveva di se stesso: Non sono io il Cristo. L’evangelista esprime quest’ansia con l’insistente espressione: Ed egli confessò e non negò, e confessò: Non sono io il Cristo.
  I sacerdoti e i leviti dovettero rimanere impressionati dall’aspetto e dalle parole del Battista. Secondo le profezie i tempi erano maturi per la venuta del Messia, ed essi lo sapevano bene; ora i Giudei credevano che Elia dovesse ritornare sulla terra per annunciarlo, ed essi, notando in Giovanni qualche cosa di straordinario, dato che aveva detto precisamente di non essere il Messia, sospettarono che fosse Elia o il profeta predetto da Mosè (cf Dt 18,15) che da alcuni si credeva dovesse essere il Messia e da altri che dovesse essere Geremia; perciò lo interrogarono di nuovo: Sei tu Elia? Ed egli rispose di no. Sei tu il profeta? Ed egli rispose ancora di no. Soggiunsero allora: Chi sei tu, affinché possiamo dare una risposta a quelli che ci hanno mandati? Che dici di te stesso?.
  Giovanni determinò qual era la sua missione, spiegando implicitamente chi era l’Elia, il profeta o il Geremia che il popolo attendeva, e ricordando la profezia di Isaia che riguardava lui, Precursore del Messia (40,3). Io sono egli disse , la voce di colui che grida nel deserto: raddrizzate la via del Signore. L’Elia che aspettavano era proprio lui, ma non era Elia ritornato in terra, era una voce di preparazione che gridava alle anime deserte di grazia che si preparassero alla manifestazione del Redentore, e raddrizzassero le vie del loro cuore, perché vi potesse passare Dio con la sua misericordia.
  La disistima dei messaggeri del sinedrio verso san Giovanni si accrebbe quando egli si dichiarò una voce che gridava. Egli, magro e quasi diafano, poteva dire di essere una voce, poiché sembrava che in lui non vi fosse rimasta che la voce; ma la sua espressione aveva un senso di profonda umiltà, incompresa dagli orgogliosi farisei; essi crederono di trovarsi di fronte ad un fanatico qualunque, a un illuso che si arrogava una missione che non aveva, e perciò, rivestendosi di autorità, soggiunsero in tono reciso: Come tu dunque battezzi se non sei il Cristo né Elia né il profeta?
  Giovanni non affrontò la questione direttamente, perché non poteva provare la sua missione innanzi al sinedrio. San Giovanni, però, prospettò all’autorità costituita che la sua missione non rappresentava un pericolo né era un’innovazione contro la Legge di Dio; egli battezzava con acqua, dandola come un segno di penitenza, e simbolo della grazia che doveva poi inondare le anime per il Redentore. Non valeva la pena di dare troppa importanza al suo battesimo, e preoccuparsi di lui; era invece molto importante che essi avessero ricercato Colui che doveva salvarli, da essi ancora sconosciuto, benché fosse in mezzo a loro. Questi si sarebbe manifestato dopo di lui, ma era prima di lui perché Dio eterno, ed egli non era degno neppure di sciogliergli il legaccio dei sandali.
         Con un atto di profonda umiltà, dichiarandosi solo Precursore del Messia, Giovanni chiuse la questione, e gl’inviati del sinedrio si ritirano senza potergli obiettare nulla.

Don Dolindo Ruotolo