sabato 17 dicembre 2016

La nascita di Gesù

Commento al Vangelo – IV Domenica di Avvento 2016 A (Mt 1,18-24)

La nascita di Gesù Cristo
La Vergine Santissima fu sposata a san Giuseppe per obbedienza, perché, come si usava presso gli Ebrei, il matrimonio veniva trattato dai genitori o dai parenti più prossimi della fanciulla, a volte senza che ella lo sapesse.
Giunta all’età da marito che era quasi sempre al dodicesimo anno, veniva promessa al giovane che ne faceva richiesta, e celebrava gli sponsali, prendendo impegno con giuramento, ella e lo sposo, di contrarre le nozze.
Il periodo degli sponsali durava un anno per le vergini e un mese per le vedove e, in questo tempo, benché dimorassero ognuno a casa propria, i promessi sposi si riguardavano legittimamente coniugati, e un figlio che fosse stato generato in questo periodo era riguardato come legittimo anche legalmente. Nel tempo degli sponsali, gli sposi corrispondevano fra loro per un intermediario di fiducia che era chiamato amico dello sposo. Dopo un anno si celebravano le nozze, e la sposa veniva accompagnata solennemente in casa del marito. Maria Santissima era stata sposata a san Giuseppe, giovane di circa ventisei anni, modello di virtù che il Vangelo caratterizza con una sola parola chiamandolo giusto, ossia santo. Probabilmente fu san Zaccaria che trattò il suo matrimonio sia perché sacerdote e sia perché i genitori della Vergine Santissima dovevano essere già morti.
Sposata, non era stata ancora accompagnata a casa dello sposo. Ella aveva promesso a Dio con voto di conservarsi vergine, e aveva consentito alle nozze per obbedienza, confidando che il Signore l’avrebbe custodita, e confidando anche nella virtù dello sposo che doveva esserle nota, essendo egli suo cugino.
Raccolta nella preghiera, umiliata profondamente innanzi a Dio, aspettava che la Provvidenza avesse pensato alla sua situazione. È evidente che non manifestò a nessuno, e neppure a san Giuseppe il voto che aveva fatto, ma aveva la certezza che il Signore sarebbe intervenuto con uno dei suoi tratti di misericordia, per liberarla dalle sue angustie. Fu in questo periodo di attesa e di preghiera che si trovò incinta del Verbo eterno per opera dello Spirito Santo.
San Matteo non racconta i precedenti di questa concezione miracolosa: presenta il fiore verginale già fecondo senza opera umana, intatto e purissimo, e dice solo che Maria fu trovata feconda senza che convenissero insieme Ella e san Giuseppe, per mostrare che si era verificata la profezia di Isaia sul parto verginale della Madre del Redentore.
San Giuseppe si accorse di questo per le mutate condizioni dell’aspetto di Maria; forse fu attratto a considerarla perché sentì da Lei una santità arcana; egli non poté pensare male di una Vergine che conosceva illibata, ma non osò contravvenire alla Legge che comandava di rimandare col libello del ripudio la consorte che fosse venuta meno alla fedeltà. Ciò che si manifestava in Maria, la quale stava già al quarto mese dalla concezione del Verbo, era umanamente inspiegabile, e legalmente poteva solo apparire come una trasgressione.
Fu un momento terribile di angustia nel quale il santo dovette pregare ardentemente. La Vergine Santissima, dal canto suo, non osò rivelargli il mistero avverato in Lei, e si rimise al Signore, sembrandole che poteva essere incredibile senza una luce speciale di Dio. Il Signore intervenne e, attraverso il ministero di un angelo, illuminò l’afflitto Giuseppe sulla concezione miracolosa del Redentore. Il santo patriarca, semplice, silenzioso, umile, purissimo, compiva in sé la figura dell’antico Giuseppe, e il Signore gli si rivelò nel sonno, forse nella veglia, un’apparizione lo avrebbe troppo spaventato, forse avrebbe potuto anche soffrirne per la sua profonda umiltà; il fatto è che il Signore stimò più proporzionato a lui parlargli nel sonno.
Il messaggio dell’angelo era eccezionalmente straordinario, ma san Giuseppe vi prestò piena fede, e vide in esso, con esultanza, il compimento delle antiche promesse. Capì perfettamente che egli era scelto come custode del Figlio divino di Maria, e dell’illibata verginità di Lei. Le parole di Isaia, citate dall’evangelista, furono luminosissime nell’anima sua, ed egli obbedì al Signore con piena sottomissione.
Con ogni probabilità e verosimiglianza san Giuseppe celebrò il matrimonio con Maria Santissima per obbedienza, avendo anch’egli il fermo proposito di conservarsi vergine. Non è solo una supposizione questa, ma è consono al modo di operare di Dio che volle il matrimonio per celare il mistero ai profani e non esporlo alla profanazione, ma che non poté non affidare, ad un purissimo giglio, il giglio immacolato dal quale sbocciò il Redentore.
Spira, dal racconto evangelico, un tale profumo di purezza che non può supporsi in nessun modo che san Giuseppe si sia sposato con un ideale umano. Egli capì di compiere la divina volontà, ed aspettò le disposizioni del Signore, consacrandosi tutto a Lui. Forse per questo, dopo che furono celebrate le nozze, non condusse ancora Maria a casa sua, ma lo fece solo al ritorno di Lei dalla casa di santa Elisabetta, dopo la rassicurazione dell’angelo.

Il Vangelo insiste sulla verginità di san Giuseppe, facendo rilevare che non fu insieme con la consorte in nessun modo né quando Ella concepì il Redentore né dopo che l’ebbe partorito. L’espressione: ed egli non la conobbe fino a quando partorì il suo figlio primogenito (che egli chiamò Gesù), ha questo preciso valore nel Testo e nel contesto. L’evangelista usa quell’espressione proprio per insistere sulla concezione miracolosa del Redentore, e per escludere che nella sua nascita vi sia stato alcun concorso umano. Egli chiama Primogenito Gesù Cristo non per far supporre che sia stato il primo di una serie, ma per determinare le sue prerogative di primogenito che gli spettavano pur essendo Unigenito, e per designare soprattutto il Primogenito della nuova generazione dei figli di Dio, e del nuovo patto. Gesù Cristo è il Primogenito di Maria, noi siamo i secondogeniti. Se l’espressione del Vangelo sembra oscura – tanto da far disorientare i poveri protestanti e quelli che non concepiscono le arcane bellezze della verginità –, la sua oscurità è solo apparente, e serve a farci confessare per fede quello che è evidente perché è una realtà storica.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 10 dicembre 2016

Commento al Vangelo – III Domenica di Avvento 2016 A (Mt 11,2-11)

L’ambasciata di san Giovanni Battista
Gesù Cristo era andato ad annunciare la buona novella nelle città della Galilea, accompagnando la sua predicazione con strepitosi miracoli, e raccogliendo sempre più, intorno a sé, un gran numero di seguaci. Questo dovette urtare la suscettibilità dei discepoli di san Giovanni Battista, i quali credevano di vedere in Gesù Cristo quasi un emulo del loro maestro.
Il santo Precursore si trovava imprigionato a Macheronte nella Perea, per aver rimproverato Erode del suo adulterio e, non potendo sfatare personalmente le idee dei discepoli, pensò d’inviarli a Gesù perché la stessa parola viva del Messia li avesse convinti. Che sia stata questa l’intenzione di san Giovanni risulta chiaramente dal contesto e dall’elogio che di lui fece Gesù.
Per la relativa facilità con la quale allora i prigionieri potevano corrispondere con le persone care, e per la maggiore libertà che gli dava Erode stesso, san Giovanni fu informato delle grandi opere che Gesù compiva, e questo accrebbe la sua fede in Lui, e gli fece desiderare maggiormente di glorificarlo dinanzi al popolo. Era stato mandato per annunciarlo e aprirgli la strada, e volle compiere, anche dal carcere, la sua missione, rendendo testimoni del Messia i propri discepoli. Questi andarono da Gesù in un momento nel quale Egli faceva molti miracoli e, parlando in nome di san Giovanni, dissero: Sei tu colui che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro? La stessa domanda dimostrava la stima che il Precursore aveva di Gesù Cristo, poiché si rimetteva a Lui per una risposta come la più autorevole e santa che potesse avere.
Gesù Cristo rispose con la testimonianza dei fatti che rispondevano alle profezie fatte sul Messia (cf Is 35,5ss e 61,1): I ciechi recuperano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, i poveri sono evangelizzati.
Era l’argomento più adatto a convincere i discepoli di san Giovanni, poiché il loro Maestro non aveva fatto miracoli e non poteva essere lui il Messia, come forse essi ammettevano, o per lo meno sospettavano. Ad essi sembrava che il loro maestro avesse un aspetto più austero e venerando e che il fare semplice e cordiale di Gesù fosse inconciliabile con la dignità di Messia, per questo il Redentore soggiunse: Beato chi non prenderà in me motivo di scandalo. Egli voleva dire: le opere parlano di me, ma io non cesso di essere ammantato di umiltà, e beato colui che, nonostante questo, mi segue e ascolta la mia parola.
Gesù Cristo elogia san Giovanni Battista
La domanda fatta da san Giovanni per mezzo dei due discepoli, mandati per far loro toccare con mano la verità, poteva sembrare come un atto di sfiducia nella realtà del Messia da parte del Precursore. Per dissipare questo equivoco, Gesù ne fece l’elogio più bello, e lo fece dopo che gli ambasciatori di lui se ne andarono, perché il suo elogio non fosse apparso come una lusinga o un’adulazione. Le turbe erano andate dietro a san Giovanni, attratte dalla sua fama, e lo avevano seguito anche nel deserto dov’egli si ritirava; ora, che cosa erano andati a vedere? Forse un uomo incostante che, quasi come una canna sotto la raffica del vento, si lascia inclinare laddove il vento soffia?
Egli, invece, era stato fermo contro la stessa perversità di Erode, e aveva compiuto con ferma fede la sua missione di Precursore, senza esitare un momento, come sarebbe potuto apparire dall’ambasciata da lui mandata.
Che cos’erano andati a vedere? Un uomo vestito mollemente? Ma chi veste così sta nella casa dei re, dove la vita è spesso sensuale e leggera. Egli, invece, era l’esempio dell’austera penitenza, e col suo esempio insegnava a preparare l’anima alla redenzione, rinnegandosi. Egli non era solo un profeta, come lo stimavano le turbe, era più di un profeta, era colui che fu preannunciato da Malachia (3,1), come l’angelo, cioè il nunzio che doveva preparare le anime alla venuta del Messia, era l’ultimo e più grande rappresentante dell’Antico Testamento, il quale non annunciava o figurava il Messia futuro, ma lo additava presente. Per questa grande missione, da lui compiuta con fedeltà incrollabile, egli era il più santo di tutti i profeti e aveva una dignità che li superava tutti.
Gesù Cristo conferma questa superiorità del Precursore sui profeti con gli effetti della sua missione: i profeti suscitarono la fede e la speranza nel futuro Messia; Giovanni, invece, attirò le turbe e le indirizzò verso il compimento delle antiche promesse, lo fece con tanto ardore che, dopo la sua predicazione, il regno dei cieli è diventato non un termine di aspirazione ma di conquista reale, e il desiderio della salvezza quasi una gara e una ressa per conseguirla.
Il popolo, infatti, accorse sulle rive del Giordano, dove Giovanni predicava, domandò il battesimo di penitenza; cominciò a prepararsi a partecipare al regno di Dio, e letteralmente fece ressa e quasi violenza per avere il segno della penitenza. Giovanni, più che profeta, annunciava e cominciava a mostrare il compimento di quello che annunciava e di quello che era stato annunciato da tutti i profeti.
Se Giovanni è più grande di tutti i profeti per aver attratto le turbe al regno di Dio, è evidente che il più piccolo di quelli che partecipano al regno dei cieli e ne vivono è maggiore di lui.

Gesù non parla della santità di san Giovanni ma dell’ufficio che compiva, com’è evidente dal contesto; nelle sue parole c’è questa gradualità di dignità: il profeta che annuncia di lontano il regno di Dio; il Precursore che prepara le turbe perché vi entrino, e suscita il desiderio di farne parte; il cristiano che vi entra e fa parte dell’ordine nuovo, non solo desiderandolo, ma vivendolo. San Giovanni morì prima che la redenzione fosse compiuta, e la sua vita, benché santa, non ebbe i caratteri di quella grandezza che solo il Sangue e il sacrificio del Redentore poteva comunicarle. Se si pensa che il più piccolo fedele della Chiesa partecipa al Corpo e al Sangue di Gesù Cristo, s’intende perché è maggiore di Giovanni come dignità di carattere.
Don Dolindo Ruotolo

mercoledì 7 dicembre 2016

Il grande momento ell'incarnazione dedl Verbo

Commento al Vangelo
Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria (Lc 1,26-38)

Il grande momento dell’Incarnazione del Verbo
In un’umile borgata, celebre non per grandezza ma per il disprezzo proverbiale nel quale era tenuta, viveva un’umile verginella, sposata ad un umile falegname. Quando si voleva dare un appellativo di disprezzo, si diceva: È stolto come uno di Nazaret, e quella borgata era così umiliata che non si credeva potesse dare i natali a qualche cosa di buono. Il Signore, che deride le vedute umane e che si compiace dell’umiltà, volle scegliere proprio questa borgata come luogo per incarnarsi. Come Egli adagia la fava nel morbido baccello e manda la rugiada fecondante nella notte, così volle riposare nell’umiltà, e discendere in un luogo di sommo nascondimento agli uomini.
La Verginella di Nazaret
L’umiltà attrasse Dio sulla terra, poiché la Verginella da Lui scelta come suo tabernacolo vivente era la più umile di tutte le creature. Maria, della discendenza di Davide, di stirpe regale; era, in realtà, sconosciuta a tutti, e viveva come umile persona del popolo nelle modeste condizioni di una vita di lavoro. Si era tutta consacrata al Signore, fin dalla piccola età, nel tempio, e gli aveva offerto la sua verginità immacolata; ma chi aveva cura di Lei l’aveva voluta sposare ad un uomo della stessa casa di Davide, Giuseppe e, come si usava in quei tempi, aveva contrattato il matrimonio a sua insaputa. Ella aveva obbedito, fiduciosa di conservare intatto il suo giglio poiché, l’uomo al quale era stata legata, era di straordinaria virtù. Può supporsi che gliene avesse parlato; ma forse, con maggiore probabilità, si era interamente affidata al Signore, aspettando da Lui la guida nel suo misterioso cammino. Nella sua profonda intuizione della divina volontà, aveva capito che Dio aveva un fine in quel casto connubio, e si era acquietata, confidando in Lui. Questo non è una pia supposizione, ma può dedursi dal suo atteggiamento verso san Giuseppe, dopo l’Incarnazione del Verbo, poiché, come vedremo, Ella non gli svelò il mistero, ma attese che Dio glielo avesse svelato.
La purezza dell’umile Verginella era ineffabile. Nessuno ha potuto scrutarne a fondo il mistero, poiché era una purezza completa.

La preghiera di Maria

Maria pregava. Noi non conosciamo il mistero di quelle preghiere che attrassero in terra il Verbo di Dio, ma possiamo arguirlo dal contesto del Vangelo: l’angelo la salutò piena di grazia: fu questa la sua sorpresa, per così dire, nel vederla, perché la grazia rifulgeva in Lei più splendida; dunque, era inabissata in profonda umiltà, poiché sta scritto che Dio dà la grazia agli umili. L’angelo disse: Il Signore è con te; dunque, era in tanta unione di contemplazione da essere in familiarità intima col Signore, e da ospitarlo in pieno nel santuario del proprio Cuore. L’angelo la chiamò con un superlativo ebraico benedetta fra le donne, ossia più benedetta di tutte le donne; dunque, Ella implorava dal Signore la grande benedizione per l’umanità, e sospirava alla Benedetta che avrebbe dovuto generare il Messia; in quel momento era proprio Lei la Benedetta, e rifulgeva fra le donne per la verginale fecondità che stava per renderla Madre di Dio. Donna, presso gli Ebrei, era quasi sinonimo di maternità, e Maria doveva elevarsi come donna fra tutte le creature, mirabile miracolo di fecondità vergine.

Quand’ecco giunse un angelo di Dio

Quand’ecco una gran luce invase la stanzetta e la fece trasalire. In quella luce splendeva più fulgido un angelo di Dio.
Maria non si turbò e non temette, perché era abituata alla compagnia degli angeli; ma si accorse che quel celeste messaggero non era come gli altri, in quel momento. Non aveva un aspetto di maestà, ma sembrava prostrato in riverente ossequio; rifulgeva di luce più grande, poiché portava il più grande messaggio che sia stato mai portato dal Cielo in terra; ma la sua grandezza era velata dall’umiltà.
Sostò per un momento, si curvò e, ammirando il capolavoro di Dio, esclamò: Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te; benedetta tu fra le donne. E si fermò adorando Dio che l’aveva fatta così bella, poiché in Lei vedeva i riflessi più luminosi dell’infinita santità.
Maria, l’umilissima Maria si sentiva salutata con parole grandi che per Lei erano incomprensibili; allora si turbò perché quelle parole non avevano eco nel suo Cuore, abituato ad impiccolirsi; erano come un linguaggio sconosciuto per Lei, e pensò che cosa potessero significare. Non sospettò che fossero un elogio, ma temette che fossero un rimprovero, un segno dello scontento di Dio. Si rileva chiaramente da ciò che l’angelo soggiunse: Non temere, perché hai trovato grazia innanzi a Dio.
Si direbbe: è la psicologia delle anime veramente umili; esse si turbano negli elogi, perché sembrano loro un assurdo, e li riguardano come un traviamento del loro cuore, perché ad esse sembrano che manomettano la gloria di Dio.
Maria non si turbò nella visione dell’angelo, come suppongono alcuni, ma nelle sue parole come dice esplicitamente il Sacro Testo – e, non sapendone intendere il significato, come chi ascolta una lingua sconosciuta, mostrò fino a qual punto giungeva la sua umiltà! Fu in quel momento di abbassamento interiore che l’angelo la preconizzò Madre di Dio: Ecco, concepirai nel tuo seno un figlio e lo chiamerai Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo. Il Signore gli darà la sede di Davide, suo padre, e regnerà in eterno nella casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà mai fine. L’angelo disse: Concepirai nel tuo seno e partorirai; dunque, doveva diventare veramente madre; doveva dare nome al suo Figlio Gesù, Salvatore; dunque si compivano i vaticini che annunciarono la salvezza d’Israele e del mondo; il Figlio sarebbe chiamato Figlio dell’Altissimo; e quindi Ella sarebbe stata la Madre di Dio. Avrebbe avuto il regno di Davide in eterno, il vero regno promesso al santo re, il regno della grazia e dell’amore che sarebbe durato in eterno.
Maria rimase pensosa. Ella era sposata a san Giuseppe; aveva promesso a Dio il fiore verginale, e sapeva che l’aveva promesso anche Giuseppe; che cosa doveva fare? Desiderosa solo di compiere la divina volontà voleva sapere come doveva compierla. Maria, in quel momento, fece un atto di virtù più grande di quello di Abramo e, invece di mostrarsi pronta a immolare il proprio figlio, si mostrò pronta anche a rinunciare alla sua verginale integrità, se così a Dio fosse piaciuto. Non è esatto supporre e dire che Maria avrebbe rinunciato alla divina Maternità per non rinunciare alla verginità; questo non sembrerebbe consono alla piena sottomissione di Maria al volere di Dio. La Vergine espose solo la sua particolare condizione, e implicitamente quella di san Giuseppe: Ella non conosceva uomo e, dato il suo voto, non poteva conoscerlo se Dio l’avesse voluto, Ella aveva uno sposo vergine che per la sua consacrazione apparteneva a Dio solo; come sarebbe avvenuta la concezione? Ella non poteva rompere il legame che san Giuseppe aveva stretto con Dio, e domandava come sarebbe potuto avvenire il concepimento. Ma l’angelo subito la rassicurò; Ella avrebbe concepito per opera dello Spirito Santo, e la sua verginità, come quella di san Giuseppe, sarebbe rimasta integra.
Le parole dell’angelo non furono una semplice affermazione, furono una gran luce, poiché egli parlava in nome di Dio. Nessuno può capire con quale amoroso rispetto un angelo pronuncia il Nome di Dio, dal quale tutto riceve e nel quale si bea. Gabriele, nel nominare lo Spirito Santo, rifulse d’amore, fruendo dell’eterno Amore e, nell’accennare alla virtù dell’Altissimo, mostrò nel suo volto il suo riverente timore per l’onnipotenza divina. Era fulgido d’amore e prono in adorazione talmente profonda, da far apprezzare l’infinita distanza che sussiste tra la potenza della creatura e quella del Creatore. Maria in quel momento contemplò la potenza di Dio e vi si abbandonò con un atto di fede illimitata. Non aveva bisogno di sapere altro, non aveva bisogno di scrutare, non volle pensare alle conseguenze esterne di una sua concezione miracolosa; curvò l’intelletto e credé, piegò la volontà e si donò, aprì il cuore e amò d’intenso amore Dio.

L’angelo soggiunse che anche Elisabetta, benché sterile, aveva miracolosamente concepito un figlio, e stava già al sesto mese, perché niente era impossibile a Dio. Era questa la prova umana che dava alla ragione di Maria, perché Dio, nelle sue grandi opere e nelle sue rivelazioni, ha sempre un riguardo delicato per la ragione umana. La fede piena in Lui è in tal modo sostenuta, ed ha una maggiore facilità nel suo slancio. La luce, nella ragione, è come la spinta della catapulta all’aeroplano che deve spingersi al volo senza motore, e lo lancia d’un colpo nell’azzurro del cielo.

Don Dolindo Ruotolo

sabato 3 dicembre 2016

La voce che grida nel deserto

Commento al Vangelo – II Domenica di Avvento 2016 A (Mt 3,1-12)

La voce che grida nel deserto
L’età legale e tradizionale per diventare dottore e ministro di Dio – come può rilevarsi anche dal Primo libro delle Cronache (23,3) –, era di trent’anni. In questa età san Giovanni il Battista uscì dalla solitudine e cominciò la sua predicazione per preparare il popolo a ricevere il Redentore, vicino anche Lui al trentesimo anno di età.
È probabile che la causa occasionale per la quale san Giovanni si ritirò nel deserto sia stata la persecuzione di Erode; la madre sua, per timore, vi si dovette rifugiare e, passato il pericolo, il bambino, già prevenuto dalla grazia, vi rimase per prepararsi alla sua missione con una vita di aspra penitenza. Non è raro, nella storia dei santi, una precocità di vita penitente né può stupire vedere un bambino prodigio di virtù come non ci stupiamo di vedere bambini-prodigio di musica, di pittura, di arti e di lettere, dei quali abbiamo molti esempi nella storia contemporanea. Se le doti naturali possono rendere più che adulto un piccolo, molto più lo può la grazia e la particolare elezione di Dio.
Che cosa faceva Giovanni nel deserto, tutto solo? Guidato dalla luce dello Spirito Santo, meditava la grandezza di Dio, pregava, riparava per l’ingratitudine umana, e teneva in penitenza il suo corpo, con ogni specie di disagio, per amore di Dio.
Si può credere, con ogni verosimiglianza, che la Vergine Santissima, sua dolcissima zia, l’abbia personalmente guidato nelle vie di Dio, perché i suoi genitori dovettero morire presto. Non è supponibile, infatti che la Vergine Santissima, così piena di bontà e di grazie, abbia trascurato colui che era andato a visitare e a santificare, stando ancora egli rinchiuso nel seno materno.
Il deserto dove Giovanni si ritirò e dal quale uscì per invitare il popolo al regno di Dio era una vasta estensione di terra ad est di Gerusalemme e lungo il Mar Morto, quasi disabitata; il suo abito consisteva in una veste-cilizio, formata di peli di cammelli, cioè di peli duri che tormentavano il corpo, e che egli stringeva ai lombi con una cintola di cuoio, per meglio sentirne il fastidio. Egli stesso, logoratesi le sue vesti d’infanzia, aveva dovuto formarsi questo rozzo indumento, forse utilizzando i peli di cammelli, morti nel deserto. Si cibava di locuste – cibo comune allora come oggi in oriente –, e se ne cibava come le trovava, non certo cotte in acqua, o disseccate al forno che era il modo più comune di mangiarle. Alle locuste aggiungeva un po’ di miele selvatico, di quel miele formato dalle api silvestri nelle fessure delle rocce.
Uscì dal deserto, scarno, coperto di quella veste di penitenza e di povertà che era stata indossata da tanti profeti, ammantato spiritualmente dallo splendore della grazia che lo arricchiva, e sembrò una visione soprannaturale, al popolo che incuriosito gli andava dietro.
Con Malachia sembrava essere cessata la profezia, e l’apparizione di Giovanni, novello profeta agli occhi di tutti quelli che lo vedevano, fece anche più impressione per questo. Rinasceva la solenne poesia degli antichi profeti, e il popolo, oppresso dalla dominazione straniera, vedeva, nella misteriosa figura del Battista, il felice annuncio di qualche mutamento politico importante.
Ma Giovanni non era venuto per suscitare una rivolta: era venuto per preparare i cuori con la penitenza al regno di Dio, alla redenzione, cioè che doveva compiere il Cristo promesso, alla Chiesa militante che Egli doveva fondare, e a quella trionfante che doveva essere la meta finale della salvezza.
Con pochissime parole, il Battista capovolgeva tutte le aspirazioni falsate dal popolo, frutto del rilassamento religioso: la nazione aspirava a godere; s’era paganizzata, ed aveva visto prosperare in essa la setta dei sadducei che negavano persino la risurrezione futura e l’esistenza degli spiriti. Nella sua parte che sembrava ancora sana per lo scrupoloso attaccamento alla Legge, nei farisei, era deformata dal formalismo ipocrita, senz’anima, aspirante al dominio e ai posti alti. Il giogo romano le pesava, ed aspirava a scuoterlo per inaugurare un nuovo regno d’Israele. A queste aspirazioni, il Battista oppose la penitenza e la speranza del regno di Dio; mostrò in se stesso l’esempio della penitenza, e cominciò a battezzare i peccatori che accorrevano a Lui confessando le proprie colpe, per segnarli con un segno di umiltà, per dare a tutti una promessa e una figura della remissione dei peccati che doveva venire dal Redentore, e per suscitare, con quel segno esterno, il desiderio della purificazione dell’anima.
La predicazione del Battista – come si rileva da san Luca (3,7-14) –, consisteva in pochi precetti pratici atti a rinnovare la vita; non aveva splendore di parole sublimi né di miracoli, era rude come il suo abito, e ciononostante fece tanta impressione, da trarre a lui le turbe da Gerusalemme, dalla Giudea e da tutta la regione del Giordano. Il popolo ricordò o trovò chi gli ricordò le parole del profeta Isaia: Voce di colui che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri; capì che quelle parole non si riferivano solo al ritorno degli Ebrei da Babilonia, ma che annunciavano la voce che doveva preconizzare il ritorno delle anime dalla schiavitù della colpa.
La figura stessa di Giovanni, scarna e spettrale, sembrava che avesse solo la voce con la quale chiamava a penitenza; era quasi tipicamente una voce che sembrava venire dalle profondità del mistero, e corsero le turbe per farsi battezzare, confessando i propri peccati. Sentivano tutti il bisogno di purificarsi, erano stanchi di una vita di peccati, e avevano il desiderio di vederla mutata. Il battesimo di Giovanni non rimetteva di per sé le colpe; ma, eccitando l’anima a compunzione e a pentimento, attraeva la misericordia di Dio e non era una semplice e sterile cerimonia.
Al popolo che andava da Giovanni si unirono anche dei farisei e dei sadducei, i quali andarono ad osservare il nuovo profeta, più per curiosità che per vera compunzione; più per criticare che per sanzionare la sua missione; è evidente dalle parole severe che il santo Precursore rivolse loro. Essi erano abituati ad avvelenare il popolo con le loro false teorie religiose e perciò Giovanni li chiamò razza di vipere, cioè anime avvelenate che non sapevano propinare che veleno, subdolamente e quasi senza farsi scorgere, ammantati d’ipocrisia gli uni, e di fasto gli altri. Li esortò particolarmente a far penitenza, come quelli che ne avevano più bisogno, e a non presumere di potersi salvare perché figli di Abramo, poiché i veri figli della discendenza spirituale di lui dovevano essere suscitati dalla grazia e non dalla natura.
San Giovanni, quando disse queste severe parole, battezzava a Betabara, dove Israele, sotto la guida di Giosuè, aveva miracolosamente attraversato il Giordano. Vi erano là ancora le dodici pietre poste a ricordo del miracolo, e il Precursore, additandole, gridò che Dio per mantenere la promessa fatta ad Abramo di una discendenza spirituale non si sarebbe fermato alla progenie naturale di lui, ma avrebbe suscitato anche dalle pietre i suoi figli spirituali, tagliando, anzi, come alberi inutili e infruttuosi, quelli che, fidando sulla discendenza naturale da Abramo, non avrebbero fatto buoni frutti di penitenza. Era necessario, per formare la progenie eletta, non tanto discendere da Abramo, quanto dal Redentore; Egli avrebbe costituito negli apostoli le dodici pietre fondamentali della Chiesa universale, testimonianza viva del passaggio dalla morte alla vita operato da Lui, e da quelle pietre sarebbero nati i veri figli di Abramo, i veri discendenti ed eredi della grande promessa.
Quest’allusione mirabile all’opera del Redentore gli diede modo di umiliarsi al ricordarlo, e di presentarlo alle turbe come l’unica via di salvezza: egli battezzava con l’acqua, per indurre sentimenti di penitenza, ma Colui che stava per manifestarsi, infinitamente più potente, avrebbe battezzato le anime, infondendo loro lo Spirito Santo e infiammandole del fuoco della divina carità. Egli è così grande – disse Giovanni – che io non sono degno neppure di prestargli gli umili uffici degli schiavi ai padroni, portandogli i sandali; Egli è così santo e giusto che verrà quale Giudice di tutti, e come col ventilabro si separa il grano dalla paglia per bruciarla, così Egli, diffondendo nel mondo la sua Chiesa, attraverso il vento delle prove e delle lotte separerà i buoni dai cattivi, raccoglierà i buoni nel suo regno, come si raccoglie il grano nel granaio, e condannerà i cattivi alle fiamme eterne dell’Inferno.

Giovanni non aveva ancora visto il Redentore; parlava per divina ispirazione e, in poche ed efficaci parole, determinava i caratteri del suo regno: Egli non avrebbe raccolto solo le anime della promessa, ma avrebbe adottato le creature di qualunque nazione come figlie di Dio e discendenza spirituale di Abramo; non le avrebbe contrassegnate con un segno esterno, ma le avrebbe rinnovate con la grazia dello Spirito Santo, lasciando integra la loro libertà e separando alla fine, come Giudice supremo, definitivamente, i buoni dai cattivi.
Don Dolindo Ruotolo