domenica 29 aprile 2012

Gesù Buon Pastore


Commento al Vangelo: IV Domenica di Pasqua 2012 (Gv 10,11-18)
Don Dolindo Ruotolo
Il buon Pastore e il mercenario
Il Messia era stato caratterizzato dai profeti come il Pastore del suo popolo (cf Is 40,11; Ez 34,23; 37,24; Zc 13,7, ecc.), e Israele era stato chiamato gregge del Signore (cf Ez 34,5; Mic 7,14; Zc 10,3, ecc.). Gesù Cristo affermò solennemente che questi vaticini si erano avverati in Lui, proclamandosi pastore, anzi, buon pastore non solo del popolo ebreo ma di tutti gli altri che Egli avrebbe uniti al primo suo gregge, formandone un solo ovile sotto un solo pastore. Dal modo com’Egli parlò, traspare tutta la sua tenerezza verso le anime e, dal contrapposto che fece tra il buon pastore e il mercenario, tutto il dolore che provava non solo per i falsi pastori del popolo ebreo, ma per i pastori falsi e mercenari di tutti i secoli. Io sono il buon pastore esclamò –; era venuto per dare la vita e per darla abbondantemente, e la dava alle sue pecorelle non solo pascolandole, ma immolandosi per loro; perciò soggiunse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle e, secondo l’espressione del testo greco, dà la vita in prezzo di redenzione.
Egli era l’unico pastore che pascolando si offriva, e salvando dalla morte le sue pecorelle s’immolava per esse. Nell’Eucaristia donò se stesso, offrendosi al Padre e immolandosi incruentamente, e sulla croce s’immolò cruentamente. Per confermare e rendere vivo questo grande pensiero, Gesù Cristo ritornò alla similitudine dell’ovile e delle pecorelle, e disse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle; il mercenario, invece, è chi non è pastore, e al quale non appartengono le pecorelle; egli, quando vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo rapisce e le disperde. Il mercenario poi scappa perché è mercenario e non gl’importa delle pecorelle.
I pastori di pecore conducono una vita solitaria nei campi e l’unica loro compagnia sono quei placidi animali che conducono al pascolo. Essi li amano come loro proprietà, e quasi come parte della loro vita; la docilità che esse hanno ad ogni loro cenno ispira ad essi una grande tenerezza, e la loro debolezza di fronte ai pericoli li rende solleciti nel difenderle. Un gregge è come una famiglia di cui il pastore si sente il capo, e perché le pecorelle lo riconoscono e ne ascoltano la voce, egli se ne sente quasi padre, e non esita ad affrontare dei gravi pericoli per difenderle, soprattutto contro le insidie dei lupi. Nelle solenni solitudini dei campi non c’è forse una scena più soave e commovente come quella di un gregge che pascola, e del pastore che lo vigila. Raccolte a gruppi, brucano le erbe, corrono di qua e di là, si riposano, e il loro belare è come un’armonia serena che si disperde lontano nelle ampie solitudini verdi e tranquille.
Gesù Cristo non poteva scegliere una similitudine più bella per significare l’unione delle anime a Lui, e la sua infinita tenerezza nel pascolarle.
L’arte ha raccolto in mille modi questa soave parabola, e ne ha formato innumerevoli quadri, dai quali traspare sempre la tranquilla pace delle anime che sono condotte ai pascoli da Gesù, e il suo infinito amore nel pascolarle. Egli è il buon Pastore, e le anime per essere guidate da Lui debbono essere docili, semplici, silenziose e affettuose come pecorelle. Egli le ama, le guida, le difende, le nutre e dà la vita per loro, Vittima perenne di redenzione e di amore sugli altari. È questa la sua sublime regalità, tanto diversa da quella dei reggitori di popoli, solleciti della loro gloria e del loro tornaconto. È questa la sua amorosa paternità per le anime, tanto diversa da quella di coloro che le reggono come mercenari, e che al primo pericolo che le minaccia fuggono e le lasciano in balia di quelli che le uccidono. Un pastore mercenario non ama le pecorelle, ma la paga che guadagna per il servizio che presta; il gregge anzi, gli è di fastidio, perché rappresenta il peso della sua giornata e, quando si trova di fronte ai lupi che lo assalgono, fugge per mettersi in salvo, non avendo nessun interesse a salvare le pecorelle.
Tali erano i pastori d’Israele, e tali sono i pastori degeneri che riguardano il ministero come un’occupazione qualunque e una fonte di guadagno. Non parliamo, poi, dei cosiddetti protestanti e di quelli di altre sette, i quali non solo sono mercenari, pagati per strappare le anime alla Chiesa, ma sono falsi pastori, ladri e assassini che non entrano nell’ovile per la porta, non hanno alcun mandato di reggere le anime e rappresentano essi medesimi i lupi rapaci che le uccidono e le disperdono.
Dopo aver detto che Egli è il buon pastore perché dà la vita per le pecorelle, Gesù Cristo soggiunge che Egli ha tanta premura per le sue pecorelle che le conosce ad una ad una, si comunica loro, ed esse lo conoscono. Come il Padre, conoscendo se stesso, genera il Figlio e gli comunica la vita infinita, e come il Figlio conosce il Padre, dandogli una lode infinita, così Gesù Cristo conosce le sue pecorelle, vivificandole ad una ad una, come se fosse tutto e solo per ciascuna, e dà la vita per loro, ad una ad una, di modo che ogni sua pecorella ottiene in pieno il frutto e i benefici della redenzione. Le pecorelle, poi, vivificate da Lui, lo amano perché lo conoscono e lo glorificano. C’è dunque, tra Gesù buon pastore e le sue pecorelle, un’unione d’amore che Gesù stesso paragona all’unione del Padre con Lui Verbo eterno. Egli dona loro la vita, ed esse lo glorificano e lo amano; Egli le cura singolarmente, una ad una, ed esse lo amano d’amore singolare.
Gesù parlava agli Ebrei, ed essi avrebbero potuto capire che essi solo erano i privilegiati, eletti per essere il suo ovile, e per averlo come Pastore; Egli, invece, doveva chiamare al suo Cuore tutte le genti della terra, e perciò soggiunse: Ho altre pecorelle che non sono di quest’ovile; anche quelle bisogna che io conduca; esse ascolteranno la mia voce, e si farà un solo ovile e un solo pastore. Egli chiamò i pagani alla fede, e alla fine dei tempi chiamerà alla Chiesa gli Ebrei dispersi, formando così di tutte le nazioni un solo ovile sotto un solo pastore, il Papa. Dopo un periodo di apostasia generale, Gesù, con l’effusione di nuove grazie, chiamerà tutti i popoli al suo Cuore, e Israele finalmente conoscerà la sua voce, lo crederà come Messia e Redentore, si unirà alla Chiesa Cattolica, e si formerà così un solo ovile di tutte le genti, in una grande glorificazione di Dio su tutti i cuori. Questa glorificazione sarà frutto del Sacrificio della croce, e del rinnovarsi di questo Sacrificio nell’Eucaristia, e il Sacrificio si realizzerà perché Gesù si offrirà completamente alla divina volontà, dando la vita sulla croce, riprendendola nella risurrezione, e rinnovandone, poi, l’offerta sugli altari. Per questo Gesù soggiunse: Il Padre mi ama perché io do la vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma io la dono da me stesso, e ho il potere di darla e il potere di prenderla di nuovo. Questo comandamento ho avuto dal Padre mio.
         Ai pastori d’Israele che lo perseguitavano in nome della loro autorità, Gesù, dunque, annuncerà che Egli solo era il buon pastore, e che la loro autorità era tramontata. Ad essi, che avevano congiurato di ucciderlo, dichiarò che sarebbe morto solo per propria elezione, e che questo era conforme al piano della divina volontà. Annunciò la costituzione del nuovo suo ovile, formato dalle genti tutte della terra, e abbatté così, per sempre, le barriere che avevano separato Israele dagli altri popoli. Egli, prendendo la croce, avrebbe preso in mano lo scettro della sua regalità e il vincastro del suo pastorale ministero d’amore, portando al pascolo le sue pecorelle

sabato 21 aprile 2012

I discepoli di Emmaus


Commento al Vangelo: III Domenica di Pasqua 2012 (Lc 24,35-48)
Don Dolindo Ruotolo
Gesù appare agli apostoli
Rimessisi un po’ dall’emozione, i due discepoli raccontarono quanto era loro accaduto per strada e come avevano riconosciuto Gesù nella frazione del pane. Forse il loro racconto cominciò a suscitare diffidenze, come avviene spesso quando si riferisce a gente incredula un fatto soprannaturale, quando Gesù, improvvisamente, stando chiusa la porta entrò in mezzo a loro ed più soggetto esclamò: La pace sia con voi; sono io, non temete. Il suo Corpo glorioso, non alle leggi della materia, non conosceva ostacoli, e molto più di quel che non faccia un’onda elettrica, passò attraverso le mura e la porta. I congregati, già impressionati da quello che ascoltavano dai discepoli di Emmaus, ne furono turbati e atterriti, credendo di vedere uno spirito.
Se avessero creduto a quello che dicevano i discepoli, non avrebbero supposto di trovarsi di fronte ad un fantasma. Gesù, con una grande amorevolezza, per toglierli dall’angustia, soggiunse: Perché vi turbate, e quali pensieri sorgono nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi, sono proprio io; palpatemi e guardate, perché lo spirito non ha carne ed ossa come vedete che ho io. Detto questo, mostrò loro le mani e i piedi e li fece toccare loro, ma essi non crederono ancora, benché avessero il cuore pieno di gioia al divino contatto.
Questo ci fa vedere in quale stato di miscredenza ancora si trovassero e quanto fitte fossero le tenebre del loro spirito. Toccavano con mano, vedevano con gli occhi e non credevano. È terribile! Erano più increduli dello stesso san Tommaso, la cui mancanza di fede è diventata proverbiale; il loro intelletto era oscurato completamente, poiché rimaneva in loro ancora l’idea che il Maestro non avesse potuto risorgere.
Così fanno i miscredenti per partito preso: dicono di voler tutto osservare e controllare e, quando toccano con mano la verità, neppure credono, perché il loro cuore è guasto e annebbiato. Non cercano il motivo della credibilità ma quello della miscredenza, e non cedono di fronte all’evidenza, rinnegando praticamente lo stesso positivismo balordo per il quale dicono di non credere. Se si umiliassero e riconoscessero la loro ignoranza, riavrebbero la luce della verità e quella della fede, ma sono ostinati e non vogliono credere.
Di fronte all’ostinazione degli apostoli Gesù, lungi dall’abbandonarli come avrebbero meritato, ricorse ad un altro espediente: Essi erano fuori di loro per la gioia, come dice il Sacro Testo; non credevano ai loro occhi e al loro tatto, non per ostinazione di malizia, ma per la stessa sorpresa di ciò che vedevano; erano come fuori della realtà della vita, e non sapevano trarre la logica conseguenza di quello che vedevano; perciò Gesù, richiamandoli alla realtà e distraendoli da quello stupore che impediva loro di riflettere, esclamò: Avete qui qualche cosa da mangiare? Ed essi gli presentarono un pezzo di pesce arrostito e un favo di miele; Gesù ne mangiò alla loro presenza, e quello che avanzò lo diede loro perché ne avessero mangiato e l’avessero mostrato agli altri come testimonianza della sua risurrezione.
Gesù Cristo, avendo un corpo reale poteva mangiare, benché fosse glorioso. Il cibo penetrò veramente nello stomaco, e si mutò interamente in sua sostanza, senza bisogno di digestione. Egli si degnò di partecipare alla nostra vita per santificarla e, mentre prima della Passione aveva mangiato la Pasqua con le erbe amare, simbolo del pellegrinaggio terreno, dopo la risurrezione mangiò il favo di miele, simbolo delle dolcezze della gloria eterna.
Nella Cena, mangiò l’Agnello pasquale, figura di Lui stesso immolato, e dopo la risurrezione mangiò il pesce arrostito, simbolo del suo amore eucaristico; l’agnello vive nella terra, simbolo dell’anima pellegrina, e il pesce nel mare, simbolo dell’anima beata dell’immensità della gloria di Dio, nella quale è come sommersa per l’eterna beatitudine.
Di fronte all’evidenza di veder consumato il cibo che gli avevano dato, gli apostoli crederono, come appare chiaramente dal colloquio che Gesù ebbe con loro; ma nel loro spirito c’erano ancora delle tenebre sulla sua Passione e Morte, ed Egli le dissipò, richiamando la loro attenzione sul compimento delle profezie che lo riguardavano, da Lui già annunciate loro prima di patire. E perché avessero potuto intendere appieno quanto di Lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei profeti e nei salmi, cioè in tutta la Scrittura, ne comunicò loro l’intelligenza con una grazia particolare, perché avessero potuto intenderle e insegnarle agli altri, evangelizzando tutte le genti.
San Luca sintetizza, in queste poche parole, le raccomandazioni e le istruzioni che Gesù Cristo fece agli apostoli nei quaranta giorni nei quali rimase con loro, prima di congedarsi definitivamente e ascendere al cielo. Fu in questi trattenimenti che Egli promise lo Spirito Santo, e li esortò a trattenersi in Gerusalemme, per prepararsi a quella grande grazia che doveva trasformarli in messaggeri di misericordia, di perdono e di pace per tutta la terra.
Alla fine dei quaranta giorni, li condusse prima a Betania, per congedarsi da Marta, da Maria e da Lazzaro, e poi di là sul monte Oliveto, dove li benedisse e, sollevatosi verso il cielo, sparì dai loro occhi, assunto nella gloria.
Fu quella l’ultima e definitiva prova che diede della sua divinità, e per questo gli apostoli e quelli che erano con loro lo adorarono, riconoscendolo pienamente Figlio di Dio.
         Ritornarono poi a Gerusalemme pieni di gaudio, per le grazie ricevute, delle quali, ora, valutavano tutta la magnificenza, e stavano nel tempio continuamente, lodandone e benedicendone Dio. Essi, infatti, si svegliarono come da un sonno e, accorgendosi di non aver apprezzato abbastanza gli immensi doni ricevuti da Dio, cercarono di riparare alla loro manchevolezza, andando a ringraziarlo continuamente nel tempio.

mercoledì 18 aprile 2012

C'è vita dopo la morte?

C’è vita dopo la morte?



Domanda: "C’è vita dopo la morte?"

Risposta: C’è vita dopo la morte? La Bibbia ci dice: “L’uomo, nato di donna, vive pochi giorni, ed è sazio d’affanni. Spunta come un fiore, poi è reciso; fugge come un’ ombra, e non dura. […] Se l’uomo muore, può egli tornare in vita?” (Giobbe 14:1-2, 14).

Come Giobbe, quasi tutti noi siamo stati sfidati da questa domanda. Esattamente, che cosa ci succede dopo la morte? Smettiamo semplicemente di esistere? La vita è una porta girevole di partenza e ritorno alla terra per raggiungere la grandezza personale? Vanno tutti nello stesso posto o andiamo in luoghi diversi? Ci sono davvero un cielo e un inferno o si tratta semplicemente di uno stato d’animo?

La Bibbia ci dice che non solo c’è vita dopo la morte, ma una vita eterna talmente gloriosa da essere stato scritto: “Le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono quelle che Dio ha preparate per coloro che lo amano” (1 Corinzi 2:9). Gesù Cristo, Dio manifestato in carne, è venuto sulla terra per darci questo dono della vita eterna: “Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre iniquità; il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui e grazie alle sue ferite noi siamo stati guariti” (Isaia 53:5).

Gesù subì il castigo che merita ognuno di noi e sacrificò la Sua stessa vita. Tre giorni dopo, mostrò di essere vittorioso sulla morte risuscitando dal sepolcro, nello Spirito e nella carne. Rimase sulla terra per quaranta giorni e fu testimoniato da migliaia di persone prima di ascendere alla Sua dimora eterna in cielo. Romani 4:25 dice: “[Gesù] è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione”.

La risurrezione di Cristo fu un evento ben documentato. L’apostolo Paolo sfidò le persone a interrogare i testimoni oculari per la sua validità, e nessuno fu in grado di contestarne la veracità. La risurrezione è la pietra angolare della fede cristiana. Poiché Cristo fu risuscitato dai morti, anche noi possiamo credere che lo saremo.

Paolo ammonì alcuni primi cristiani che non credevano in questo: “Ora se si predica che Cristo è stato risuscitato dai morti, come mai alcuni tra voi dicono che non c’è risurrezione dei morti? Ma se non vi è risurrezione dei morti, neppure Cristo è stato risuscitato” (1 Corinzi 15:12-13).

Cristo fu solo la primizia di coloro che saranno risuscitati a nuova vita. La morte fisica venne mediante un uomo, Adamo, al quale siamo collegati tutti. Ma a tutti coloro che sono stati adottati nella famiglia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo sarà data nuova vita (1 Corinzi 15:20-22). Così come Dio risuscitò il corpo di Gesù, così i nostri corpi verranno risuscitati al ritorno di Gesù (1 Corinzi 6:14).

Anche se alla fine saremo tutti risuscitati, non tutti andremo in cielo. Dev’essere fatta una scelta da ogni persona in questa vita per stabilire dove andrà per l’eternità. La Bibbia dice che è stabilito per noi che moriamo una sola volta, dopo di che viene il giudizio (Ebrei 9:27). Quanti sono stati resi giusti andranno nella vita eterna in cielo, ma i non credenti saranno mandati al castigo eterno o inferno (Matteo 25:46).

L’inferno, come il cielo, non è solo una condizione esistenziale, ma un luogo letterale e assai reale. È un posto in cui gli ingiusti sperimenteranno l’ira eterna e infinita di Dio. Essi sopporteranno un tormento emotivo, mentale e fisico, soffrendo consapevolmente vergogna, rimpianto e disprezzo.

L’inferno è descritto come un abisso (Luca 8:31; Apocalisse 9:1) e uno stagno di fuoco, che brucia con zolfo, dove i suoi abitanti saranno tormentati giorno e notte nei secoli dei secoli (Apocalisse 20:10). Nell’inferno ci saranno pianto e stridore di denti, stando a indicare angoscia e rabbia (Matteo 13:42). È un luogo “dove il verme loro non muore e il fuoco non si spegne” (Marco 9:48). Dio non si compiace della morte dei malvagi, ma desidera che si ravvedano delle loro vie malvagie affinché possano vivere (Ezechiele 33:11). Però Egli non ci costringerà a sottometterci; se scegliamo di respingerLo, Egli non ha altra scelta che darci quanto vogliamo: vivere senza di Lui. 

La vita su questa terra è una prova: una preparazione a ciò che verrà. Per i credenti, questa è la vita eterna nell’immediata presenza di Dio. Pertanto, in che modo siamo resi giusti e messi in grado di ricevere questa vita eterna? Esiste solo un modo: attraverso la fede e la fiducia nel Figlio di Dio, Gesù Cristo. Gesù ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Giovanni 11:25-26). 

Il dono gratuito della vita eterna è a disposizione di tutti, ma esige che neghiamo a noi stessi alcuni piaceri mondani e che ci sacrifichiamo a Dio: “Chi crede nel Figlio ha vita eterna, chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui” (Giovanni 3:36). Dopo la morte, non ci sarà data l’opportunità di ravvederci dei nostri peccati, perché, una volta che vedremo Dio faccia a faccia, non potremo fare a meno di credere in Lui. Egli vuole che andiamo a Lui con fede e amore adesso. Se accettiamo la morte di Gesù Cristo come il pagamento per la nostra ribellione peccaminosa contro Dio, ci viene garantita non solo una vita significativa sulla terra, ma anche la vita eterna nella presenza di Cristo.

Se vuoi accettare Gesù Cristo come tuo Salvatore, ecco un esempio di preghiera. Ricorda: dire questa o qualunque altra preghiera non ti salverà. È solo affidarti a Cristo che può salvarti dal tuo peccato. Questa preghiera è semplicemente un modo per esprimere a Dio la tua fede in Lui e per ringraziarLo di aver provveduto alla tua salvezza. "Signore, so di aver peccato contro di Te e di meritare il castigo. Però Gesù ha preso il castigo che meritavo io, in modo che attraverso la fede in Lui io potessi essere perdonato/a. Rinuncio al mio peccato e metto la mia fiducia in Te per la salvezza. Grazie per la Tua meravigliosa grazia e per il Tuo meraviglioso perdono: grazie per il dono della vita eterna! Amen!"

Hai preso una decisione per Cristo grazie a quello che hai letto qui? Se lo hai fatto, ti preghiamo di cliccare sul pulsante sottostante "Oggi ho accettato Gesù".

Padre Antonio Gerron

sabato 14 aprile 2012

Gesù Cristo appare agli Apostoli


Don Dolindo Ruotolo
Commento al Vangelo  di Giovanni 20,19-31 della II Domenica di Pasqua 2012

                            Gesù Cristo appare agli apostoli

Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.
Essi erano in buona fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che parlavano della risurrezione e non ricordavano ciò che, in proposito, aveva detto loro Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente, ma s’erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro aspirazioni.
Il timore poi dei Giudei aveva fatto nascere in loro, quasi inconsciamente, il desiderio di sottrarsi, se fosse stato possibile, all’incanto e al fascino di ciò che in tre anni avevano visto e ascoltato.
La paura è sempre una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse: La pace sia con voi.
Nella sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di sbigottimento che si generò in loro a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate e il costato aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, e avessero constatato che quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.
Il Corpo risorto di Cristo
e le ombre penose della bellezza umana
Il momento fu solenne, ed è difficile, per noi, formarcene una pallida idea.
Il Corpo di Gesù, essendo risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano sottigliezza, per la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde radiofoniche e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà ostacoli insormontabili ai corpi. Il Corpo glorioso è come spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e tutto energia, e può attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio. Gesù Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli apostoli. Non irradiava luce quasi fosse un sole, come può arguirsi da apparizioni di esseri ultramondani, ma era Egli, come un corpo tutto splendente, luce placidissima che non abbagliava.
Pietro, Giacomo e Giovanni dovettero ricordare, allora, la scena della trasfigurazione che aveva qualche somiglianza con ciò che vedevano. Gesù, ritto in piedi, era mirabilmente bello: era Lui, ma immensamente più affascinante nella sua carne gloriosa. I capelli erano nel fulgore della luce come onde d’oro, la fronte e il volto erano candidi e rubicondi, fonte di gioia nella loro purissima bellezza; il corpo era mirabilmente intonato, senz’alcuno di quegli angoli oscuri che ha l’umana bellezza; maestoso, ma dolce e paterno, spirava amore da ogni parte, ed era come giglio fragrante schiuso in una valle brumosa, perché emanava da Lui quel tenue e soave profumo che spirava dalla carne gloriosa.
L’umana bellezza e l’umana carne, anche quando sono avvolte in un alone di purezza, hanno sempre qualche angolo oscuro e qualche lezzo di putrido, eccetto il caso nel quale siano interamente vivificate dallo Spirito Santo. È un’illusione pensare che una bellezza vivente o effigiata dal vero possa portarci a Dio, fissandola con uno sguardo di curiosa esplorazione; essa ha sempre dei corticircuiti che scaricano nella terra la corrente dell’amore divino che ferve nell’anima. Una sola bellezza può fissarsi e sentirsene vivificati, ed è quella che traluce dalla grazia di Dio; una sola bellezza può fissarsi e possedersi ed è quella di Dio. Qualunque altra bellezza accende sempre una passione nei sensi, dà un desiderio incosciente di possesso almeno ideale, è come vento che solleva le onde e suscita le tempeste, è come forza che devia da Dio la corrente del cuore.
Gesù, ritto nella sala, vestito non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima che elevava l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I discepoli, vedendo il Signore, gioirono. Era la gioia della vita piena che emanava da Colui che era la vita; era la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le ansie oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come faro luminoso, dal quale veniva tracciata la via del Cielo.
Gioirono i discepoli nella gioia della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella gioia, si estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è gioia più grande della purezza integrale: è una gioia che nasce dall’amore di Dio che si trasfonde nell’anima come luce di verità, come calore di carità, e come complesso di bontà. In noi c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia spirituale è sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere Gesù, si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una grande serenità, e dicendo: La pace sia con voi, li avvolse in quella pace che spira da Dio, Verità, Sapienza e Amore eterno.
Pace, tranquillità d’ordine, serena sicurezza, riposo d’amore nell’eterno Amore!
A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi…
Gioirono i discepoli, ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come il Padre ha mandato me così io mando voi.
Con delicatezza divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati. Pur ricevendosi una volta lo Spirito Santo – perché la sua comunicazione sacramentale imprime il carattere –, Gesù Cristo volle darlo più volte ai suoi prediletti, riserbandone loro una nuova pienezza nel giorno della Pentecoste. Si direbbe che sta nelle sue abitudini di misericordia e di amore moltiplicare e rinnovare i suoi doni a quelle anime che gli si danno con amore, ed hanno fiducia nella sua generosità.
Dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento (Sess. XIV, can. 3). Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le disposizioni interiori che lo animano.
La Confessione dei peccati non è un’imposizione umiliante e penosa benché a primo aspetto sembri che sia così, e benché a volte abbia quasi questo sapore: è una concessione di misericordia, fonte di pace e di gioia grande per il povero peccatore. Sottoporre i propri peccati a chi rappresenta Dio significa mutare l’immondizia in concime, il concime in pianta, in fiore, in frutto di eterna vita. Confessarsi significa espandere l’anima propria, piangendo, nelle braccia amorose di Dio, e assicurarsi del suo perdono che è dolcissima gioia, pienezza di vita che fa sentire leggeri, leggeri, liberi dalle catene, tesi al volo verso le ricchezze eterne.
Con divina delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo.
Gesù Cristo risana Tommaso dalla sua incredulità.
Quando Gesù apparve agli apostoli, Tommaso non era con loro. Di carattere più indipendente, di volontà più ostinata, forse aveva creduto inutile starsene rinchiuso nel Cenacolo, o forse anche era andato a sbrigare qualche faccenda. Era colui che meno aveva creduto al messaggio delle pie donne e di Maria Maddalena, e può darsi che, sentendone parlare e discutere, si fosse così disorientato e urtato, da uscirsene. Per lui ormai era certo che Gesù era morto che le speranze riposte in Lui erano fallite, e che ostinarsi ad attendere ancora eventi che gli sembravano ormai impossibili era lo stesso che esporsi alla derisione e dar di volta al cervello. Il suo disorientamento si accrebbe quando, al ritorno, seppe dagli altri apostoli dell’apparizione di Gesù.
È evidente che gli dovettero raccontare tutto minutamente, e che, al suo ostinarsi nel non credere, dovettero ripetutamente fargli notare che essi avevano visto proprio le ferite delle mani, dei piedi e del costato, e che non c’era dubbio che fosse proprio Lui. Ma Tommaso credeva di scorgere nella gioia, nell’entusiasmo e nella certezza dei compagni, i segni di un’esaltazione fantastico, e perciò, alle loro insistenti affermazioni, rispose: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.
La psicologia di chi ascolta il racconto
concitato di un fatto straordinario
Si deve notare la profonda psicologia di questo episodio e della risposta di Tommaso: chi ha visto un fatto straordinario e se ne è convinto, entusiasmandosi, ne diventa testimone ardente e si urta contro chi non l’ammette solo perché non l’ha visto. Chi non l’ha visto ha in fondo all’anima sua, magari inconsciamente, il rammarico di non averlo osservato, e si sente in una certa inferiorità di fronte a chi ne rende testimonianza.
L’assistere ad un fatto straordinario diventa sempre un titolo d’orgoglio, perché diventa una testimonianza indiretta della bontà e dignità di chi ne è stato spettatore. Questo urta chi non lo è stato, e il suo orgoglio nascosto svaluta il fatto, per non confessare la propria inferiorità. Al suo occhio cattivo tutto sembra una montatura, un’esagerazione, un frutto di eccitazione fantastica; rifiuta di ragionare, fa dinieghi energici, alterca, ovvero deride chi si riscalda nell’attestarlo, e rimane ostinatamente nel suo giudizio, anche di fronte alla realtà. Per essere troppo ragionevole diventa irragionevole, e per cavillare troppo diventa stolto.
San Tommaso, ritornato al Cenacolo, aveva trovato l’ambiente per lui stranamente cambiato. I suoi compagni gli sembravano esaltati, la loro gioia lo urtava, le loro osservazioni lo turbavano. Sentiva, in fondo, il rammarico di non essersi trovato, ma voleva persuadersi di essere stato lui un privilegiato a non trovarsi ad una scena che gli sembrava fantastica. Aveva un incosciente rimorso della sua incredulità, ma tentava soffocarlo nei raggiri di un ragionamento; perciò, all’argomento di prova che gli davano i compagni della realtà dell’apparizione, cioè le piaghe delle mani, dei piedi e del costato, risponde con un fare altero che rivela la lotta interna del suo spirito: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.
L’insistenza della sua risposta mostra l’agitazione nella quale la diede: voleva vedere lui le piaghe, anzi voleva accertarsi del foro fatto nelle mani e nei piedi dai chiodi, e dell’apertura fatta al costato dalla lancia, mettendovi il dito e la mano. Nel dire questo, egli mostrava il suo dito e la mano, quasi in tono di sfida, e guardava i compagni con un senso di commiserazione, quasi che egli solo fosse tra loro l’uomo accorto che non si lascia abbindolare.
Gli apostoli non poterono opporgli altro; si mostrarono dispiaciuti, disgustati, afflitti ma, di fronte all’ostinazione di una ragione sconvolta, c’è poco da fare. Non la si può conquidere col ragionamento. È proprio l’atteggiamento di quelli che negano la verità e il soprannaturale per partito preso: nulla li convince, e preferiscono al ragionamento il cavillo insensato, all’evidenza la loro ostinazione irragionevole. Si appellano solo e reclamano argomenti e constatazioni materialmente positive, salvo poi a negarne anche l’evidenza se questa non coincide col loro pensiero.
Il cavillo dolorosamente è prolifico: uno ne genera cento e, quando l’anima vi si è inviluppata, è come avvolta da una rete che la stringe sempre più. Solo la luce e la grazia di Dio può vincerla, e Gesù, misericordiosamente, volle personalmente intervenire, per sanare, con le sue soavissime piaghe, quelle dell’anima di san Tommaso.
Gesù appare di nuovo, presente Tommaso,
che è guarito dalla sua incredulità
Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo tutti raccolti nella casa, e Tommaso era con loro. Forse pregavano; certo erano in un momento di raccoglimento nel quale era più facile la mozione della grazia.
Crediamo che Maria si trovasse con gli apostoli, e che fu proprio Lei ad implorare la grazia della conversione per Tommaso. Come Madre amorosa che prendeva cura attiva dei figli affidatile da Gesù, conobbe o fu addirittura presente al disorientamento di Tommaso, e supplicò il Figlio suo divino a sanarlo. A Lei dovette suscitare tanto dolore l’incredulità di un apostolo, e vide in essa la rappresentanza dell’incredulità dei diffidenti e presuntuosi nella fede.
Tommaso soprannominato Didimo dice il Sacro Testo –, ossia gemello, era veramente come il fratello gemello dei miscredenti futuri, dei razionalisti che non ragionano, e soprattutto di quelli che non credono al soprannaturale, pretendendo toccarlo con mano. Maria ne era addoloratissima, poiché Ella sapeva, per esperienza, che non si compiono mai i disegni di Dio se non si crede, e santa Elisabetta aveva riconosciuto in questo il segreto della sua grandezza: Beata te che hai creduto, poiché così si compirà in te quello che ti è stato detto dal Signore (Lc 1,45). Maria, dunque, che vedeva Tommaso privo allora del dono dello Spirito Santo, della potestà che Gesù aveva data agli apostoli soffiando su di loro, Maria che lo vedeva immeschinito nella incredulità, sterpo sterilissimo e infecondo che dà solo spine, pregò Gesù che lo sanasse, e Gesù comparve di nuovo a porte chiuse.
Quale gioia per gli apostoli e quale sorpresa per Tommaso! Egli si voltò, lo vide, lo riconobbe: era Lui! Allibì per un momento, temette, si turbò, ma Gesù gli effuse subito nel cuore la serena tranquillità, dicendo: La pace sia con voi. La tracotanza di Tommaso fu in un momento fiaccata, e nel suo cuore cominciò a sorgere un tumulto d’amore e di umiliazione. Gesù lo chiamò a sé, e lo invitò a mettere il dito nelle sue piaghe e la mano nel suo costato, dicendogli con infinito amore: Non voler essere incredulo ma fedele.
Il Sacro Testo non dice se Tommaso abbia messo il dito e la mano nelle piaghe di Gesù, ma noi crediamo che il Redentore ve l’abbia costretto. A quella vista, a quel contatto, Tommaso si prostrò e, adorandolo, disse: Signor mio e Dio mio. Non poté dire altro: il cuore gli scoppiava dal dolore e dall’amore, la fede divampava in lui, l’abbandono era pieno nel suo Redentore e nel suo Dio. Ma Gesù soavemente lo rimproverò, per completare la grande lezione che voleva dare ai secoli futuri, dicendo: Perché hai visto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto. Non è fede il credere perché si vede, ma il credere per l’autorità di Dio che parla per la Chiesa; è solo allora che l’anima riposa nella verità. Ogni propria constatazione può essere fallace, ogni esperienza personale può essere offuscata dalla fantasia, ogni propria persuasione può mutarsi col mutarsi delle circostanze che l’hanno formata; solo la parola di Dio è sicura, solo la voce della Chiesa ce la può accertare e solo credendo ciò che non si vede e non si tocca con mano si può dire di aver fede e di credere in verità veramente divine.
Ciò che si tocca con mano è materiale, ciò che si vede con gli occhi appartiene alla terra; ora la fede ha per oggetto le cose eterne e soprannaturali. Dio può mostrarcele anche sensibilmente, ma Egli, in generale, lo fa solo con chi ha tanta fede da conversare nei cieli pur vivendo sulla terra.
Le piaghe del Corpo glorioso di Gesù
Con divina disposizione di sapienza, Gesù Cristo volle conservare, nel suo Corpo glorioso, le sue cinque piaghe, non solo come fiori del suo amore, ma anche per sanare quelle dell’anima nostra. Abbiamo macchiato le mani per le nostre azioni cattive, i piedi, per i nostri passi errati, il cuore per le profanazioni dell’amore che dobbiamo a Dio solo, e Gesù ci mostra le sue piaghe per sanarci. Egli volle confitte alla croce le sue mani e i suoi piedi per riparare i disordini della nostra libertà, e volle che fosse aperto il suo Cuore dopo morte, per riparare gli eccessi ai quali si abbandona il nostro cuore quando muore alla grazia. È allora che esso si lascia ferire da ogni allettamento di male e diventa triste tabernacolo di passioni vergognose. Basta vedere le piaghe di Gesù per sentirsi commuovere il cuore e per ripetere con san Tommaso, in un impeto di pentimento e d’amore: Signor mio e Dio mio!
La Chiesa, perciò, ha avuto sempre una speciale devozione alle santissime Piaghe del Redentore, essendo questa devozione cominciata, si può dire, proprio quando Gesù le mostrò agli apostoli e le fece toccare a Tommaso. Satana cerca disorientare la mente dei fedeli in questi tempi di miscredenza; e tenta confondere il riserbo giusto della Chiesa per una rivelazione privata non ancora da essa vagliata, con la riprovazione della devozione alle piaghe. Come potrebbe la Chiesa riprovare quello che forma l’oggetto d’una sua festa liturgica speciale? Come potrebbe avere l’Ufficio e la Messa delle cinque piaghe e riprovare quelli che ne vivono lo spirito? Essa non vuole che si propaghi come devozione privata quello che è sua devozione pubblica, e che si consideri come devozione incerta quella che è devozione del suo cuore. Satana gioca con l’equivoco, e ride, vedendo che aborriscono da questa devozione, quasi da cosa illecita, proprio quelli che più hanno bisogno d’essere risanati dalle piaghe di Gesù.
Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto
Siamo in tempi di stolto positivismo, nel quale si vuol tutto vedere e toccare con mano, trascurando le positivissime basi della verità, della sapienza e della vita. Tommaso dolorosamente ha fatto scuola, e i suoi seguaci l’hanno superato; egli voleva toccare con mano Gesù, essi si restringono alla materia e vogliono toccare solo quello che sembra ad essi vita. Si è detto che giovò più san Tommaso alla nostra fede con la sua incredulità che gli apostoli con la loro fede, perché la sua incredulità fu l’occasione di una solenne conferma della risurrezione di Gesù Cristo.
È una frase che bisogna intendere con un granello di sale. L’incredulità non giova mai, neppure quando dà occasione ad una maggiore chiarificazione della verità, certo non per suo merito.
La chiarificazione viene dalla fede della Chiesa, non dalla provocazione della miscredenza. In realtà, se san Tommaso fosse stato fedele e avesse creduto, la sua fede avrebbe diffuso, nei secoli, un’onda di fede. Egli, invece, è stato preso quasi come vessillo di quelli che non credono al soprannaturale, e che pretendono di vedere e scrutare tutto.
Chi non ha, nella sua vita, un momento di stolta titubanza innanzi alla verità della fede? Chi non si lascia qualche volta turlupinare da satana che presenta come tenebre ciò che è luce? Chi non desidera, almeno qualche volta, toccare con mano la realtà dei misteri? Umiliamoci e, ricordando le parole di Gesù: Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto, cerchiamo questa santa beatitudine della fede che non vede e crede. Gesù non disse: Beati coloro che non vedono e credono, ma disse: Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto, indicando così, chiaramente, che la beatitudine di chi crede senza vedere si riepiloga in Cielo, dopo la vita presente; allora quelli che in vita non hanno visto e hanno creduto, avranno la gioia immensa di vedere tutto nel lume della gloria, in Dio stesso. La fede cieca, anche sulla terra dà la gioia della pace, poiché l’anima che crede riposa in Dio; ma la gioia della vita vera è riservata nell’eternità, dove tutto è chiaro, e dove si gode, contemplando la verità e l’armonia di ciò che si è creduto in terra.
Gesù Cristo disse: Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto, alludendo forse anche ai santi dell’Antico Testamento che sospirarono a Lui, e soprattutto alla fede di san Giuseppe e della Vergine Madre sua, ammirabili esemplari di fede profonda, perché lo contemplarono nella fralezza della sua vita mortale, nel nascondimento della sua maestà e nell’umiliazione estrema cui si ridusse per amore. Maria, poi, lo contemplò sul Calvario e nel sepolcro con vivissima fede, e fu l’unico Cuore nel quale rimase intatta, anzi ingigantita, la fede, quando tutto sembrò fallito, per la tragedia della Passione. m
(dal Commento ai Quattro Vangeli - di Don Dolindo Ruotolo)

giovedì 5 aprile 2012

VENERDI' SANTO - PASSIONE DI GESU'


Venerdì 6 Aprile 2012 - VENERDÌ SANTO (PASSIONE DEL SIGNORE)
Gv 18,1- 19,42

Passione del Signore.

1Dopo aver detto queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c'era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.
2Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.
3Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi.
4Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».
5Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore.
6Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.
7Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno».
8Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», 9perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».
10Allora Simon Pietro, che aveva una spada,
la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l'orecchio destro. Quel servo si chiamava
Malco.
11Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non
dovrò berlo?».
Gesù davanti al sommo sacerdote
12Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono
13e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell'anno.
14
Caifa
era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».
15
Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto
dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote.
16
Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro.
17
E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli
di quest'uomo?». Egli rispose: «Non lo sono».
18
Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco,
perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.
19
Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento.
20
Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel
tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
21
Perché interroghi me?
Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
22
Appena
detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo
sacerdote?».
23
Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».
24
Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.
25
Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli
lo negò e disse: «Non lo sono».
26
Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l'orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?».
27
Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
Gesù davanti a Pilato
28
Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.
29
Pilato dunque uscì verso di loro e domandò:
«Che accusa portate contro quest'uomo?».
30
Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te
l'avremmo consegnato».
31
Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra
Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».
32
Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Giovanni nel narrare gli ultimi eventi della rivelazione suprema del Logos incarnato si riallaccia al racconto dei
sinottici. Pur presentando gli avvenimenti sotto una luce molto originale, Giovanni concorda con gli altri evangelisti
spesso anche nei dettagli. Tuttavia Giovanni spicca tra gli altri evangelisti per l’accentuazione della forma drammatica delle varie scene rappresentate e per la prospettiva regale della passione del Signore. Gesù è presentato come un trionfatore che si consegna spontaneamente ai suoi nemici per essere intronizzato sulla croce, dopo essere
stato incoronato e proclamato re dei giudei. Per tale ragione nel quarto vangelo sono molto attenuati gli elementi
Padre Lino Pedron

domenica 1 aprile 2012


SE SARETE QUELLO CHE DOVETE ESSERE

METTERETE FUOCO IN TUTTO IL MONDO


XV GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTU’


L’omelia di GIOVANNI PAOLO II durante l’indimenticabile veglia a Tor Vergata di Roma


VEDO IN VOI LE “SENTINELLE DEL MATTINO”

IN QUEST’ALBA DEL TERZO MILLENNIO

1.   “Voi chi dite che io sia?” (Mt.16,15).
Carissimi giovani e ragazze,
con grande gioia mi incontro nuovamente con voi in occasione di questa Veglia di preghiera, durante la quale vogliamo metterci insieme in ascolto di Cristo, che sentiamo presente tra noi. E’ Lui che ci parla.
            “Voi chi dite che io sia?”. Gesù pone questa domanda ai suoi discepoli, nei pressi di Cesarea di Filippo. Risponde Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente” (Mt.16,16). A sua volta il Maestro gli rivolge le sorprendenti parole: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt.16,17).
            Qual è il significato di questo dialogo? Perché Gesù vuole sentire ciò che gli uomini pensano di Lui? Perché vuol sapere che cosa pensano di Lui i suoi discepoli?
            Gesù vuole che i discepoli si rendano conto di ciò che è nascosto nelle loro menti e nei loro cuori e che esprimano la loro convinzione. Allo stesso tempo, tuttavia, egli sa che il giudizio che manifesteranno non sarà soltanto loro, perché vi si rivelerà ciò che Dio ha versato nei loro cuori con la grazia della fede.
            Questo evento nei pressi di Cesarea di Filippo ci introduce in un certo senso nel “laboratorio della fede”. Vi si svela il mistero dell’inizio e della maturazione della fede. Prima c’è la grazia della rivelazione: un intimo, un inesprimibile concedersi di Dio all’uomo. Segue poi la chiamata a dare una risposta. Infine, c’è la risposta dell’uomo, una risposta che d’ora in poi dovrà dare senso e forma a tutta la sua vita.
            Ecco che cosa è la fede! E’ la risposta dell’uomo ragionevole e libero alla parola del Dio vivente.
Le domande che Cristo pone, le risposte che vengono date dagli Apostoli, e infine da Simon Pietro, costituiscono quasi una verifica della maturità della fede di coloro che sono più vicini a Cristo.

2.  Il colloquio presso Cesarea di Filippo ebbe luogo nel periodo pre-pasquale, cioè prima della passione e della risurrezione di Cristo. Bisognerebbe richiamare ancora un altro evento, durante il quale Cristo, ormai risorto, verificò la maturità della fede dei suoi Apostoli. Si tratta dell’incontro con Tommaso apostolo. Era l’unico assente quando, dopo la risurrezione, Cristo venne per la prima volta nel Cenacolo. Quando gli altri discepoli gli dissero di aver visto il Signore, egli non volle credere. Diceva: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (Gv.20,25). Dopo otto giorni i discepoli si trovarono nuovamente radunati e Tommaso era con loro. Venne Gesù attraverso la porta chiusa, salutò gli Apostoli con le parole: “Pace a voi!” (Gv.20,26) e subito dopo si rivolse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!” (Gv.20,27). E allora Tommaso rispose: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv.20,28).
            Anche il Cenacolo di Gerusalemme fu per gli Apostoli una sorta di “laboratorio della fede. Tuttavia quanto lì avvenne con Tommaso va, in un certo senso, oltre quello che successe nei pressi di Cesarea di Filippo. Nel Cenacolo ci troviamo di fronte ad una dialettica della fede e dell’incredulità più radicale e, allo stesso tempo, di fronte ad una ancor più profonda confessione della verità su Cristo. Non era davvero facile credere che fosse nuovamente vivo Colui che avevano deposto nel sepolcro tre giorni prima.
            Il Maestro divino aveva più volte preannunciato che sarebbe risuscitato dai morti e più volte aveva dato le prove di essere il Signore della vita. E tuttavia l’esperienza della sua morte era stata così forte, che tutti avevano bisogno di un incontro diretto con Lui, per credere nella sua risurrezione: gli Apostoli nel Cenacolo, i discepoli sulla via per Emmaus, le pie donne accanto al sepolcro… Ne aveva bisogno anche Tommaso. Ma quando la sua incredulità si incontrò con l’esperienza diretta della presenza di Cristo, l’Apostolo dubbioso pronunciò quelle parole in cui si esprime il nucleo più intimo della fede: Se è così, se Tu davvero sei vivo pur essendo stato ucciso, vuol dire che sei “il mio Signore e il mio Dio”.
            Con la vicenda di Tommaso, il “laboratorio della fede” si è arricchito di un nuovo elemento. La Rivelazione divina, la domanda di Cristo e la risposta dell’uomo si sono completate nell’incontro personale del discepolo col Cristo vivente, con il Risorto. Quell’incontro divenne l’inizio di una nuova relazione tra l’uomo e Cristo, una relazione in cui l’uomo riconosce esistenzialmente che Cristo è Signore e Dio; non soltanto Signore e Dio del mondo e dell’umanità, ma Signore e Dio di questa mia concreta esistenza umana. Un giorno san Paolo scriverà: “Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo. Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm.10,8-9).
Nelle Letture dell’odierna Liturgia troviamo descritti gli elementi di cui si compone quel “laboratorio della fede, dal quale gli Apostoli uscirono come uomini pienamente consapevoli della verità che Dio aveva rivelato in Gesù Cristo, verità che avrebbe modellato la loro vita personale e quella della Chiesa nel corso della storia. L’odierno incontro romano, carissimi giovani, è anch’esso una sorta di “laboratorio della fede” per voi, discepoli di oggi, per i confessori di Cristo alla soglia del terzo millennio.
Ognuno di voi può ritrovare in se stesso la dialettica di domande e risposte che abbiamo sopra rilevato. Ognuno può vagliare le proprie difficoltà a credere e sperimentare anche la tentazione dell’incredulità. Al tempo stesso, però, può anche sperimentare una graduale maturazione nella consapevolezza e nella convinzione della propria adesione di fede. Sempre, infatti, in questo mirabile laboratorio dello spirito umano, il laboratorio appunto della fede, s’incontrano tra loro Dio e l’uomo. Sempre il Cristo risorto entra nel cenacolo della nostra vita e permette a ciascuno di sperimentare la sua presenza e di confessare: Tu, o Cristo, sei “il mio Signore e il mio Dio”.
        Cristo disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (Gv.20,29). Ogni essere umano ha dentro di sé qualcosa dell’apostolo Tommaso. E’ tentato dall’incredulità e pone le domande di fondo: E’ vero che c’è Dio? E’ vero che il mondo è stato creato da Lui? E’ vero che il Figlio di Dio si è fatto uomo, è morto ed è risorto? La risposta si impone insieme con l’esperienza che la persona fa della Sua presenza. Occorre aprire gli occhi e il cuore alla luce dello Spirito Santo. Allora parleranno a ciascuno le ferite aperte di Cristo risorto: “Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno”

3.        Carissimi giovani, anche oggi credere in Gesù, seguire Gesù sulle orme di Pietro, di Tommaso, dei primi apostoli e testimoni, comporta una presa di posizione per Lui e non di rado quasi un nuovo martirio: il martirio di chi, oggi come ieri, è chiamato ad andare contro corrente per seguire il Maestro divino, per seguire “l’Agnello dovunque va” (Ap.14,4). Non per caso, carissimi giovani, ho voluto che durante l’Anno Santo fossero ricordati presso il Colosseo i testimoni della fede del ventesimo secolo.
Forse a voi non verrà chiesto il sangue, ma la fedeltà a Cristo certamente sì! Una fedeltà da vivere nelle situazioni di ogni giorno: penso ai fidanzati ed alla difficoltà di vivere, entro il mondo di oggi, la purezza nell’attesa del matrimonio. Penso alle giovani coppie e alle prove a cui è esposto il loro impegno di reciproca fedeltà. Penso ai rapporti tra amici e alla tentazione della slealtà che può insinuarsi tra loro.
Penso anche a chi ha intrapreso un cammino di speciale consacrazione ed alla fatica che deve a volte affrontare per perseverare nella dedizione a Dio e ai fratelli. Penso ancora a chi vuol vivere rapporti di solidarietà e di amore in un mondo dove sembra valere soltanto la logica del profitto e dell’interesse personale o di gruppo.
            Penso altresì a chi opera per la pace e vede nascere e svilupparsi in varie parti del mondo nuovi focolai di guerra; penso a chi opera per la libertà dell’uomo e lo vede ancora schiavo di se stesso e degli altri; penso a chi lotta per far amare e rispettare la vita umana e deve assistere a frequenti attentati contro di essa, contro il rispetto ad essa dovuto.

4.         Cari giovani, è difficile credere in un mondo così? Nel Duemila è difficile credere? Sì! E’ difficile. Non è il caso di nasconderlo. E’ difficile. Non è il caso di nasconderlo. E’ difficile, ma con l’aiuto della grazia è possibile, come Gesù spiegò a Pietro: “Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt.16,17).
Questa sera vi devo consegnare il Vangelo e lo farò. E’ il dono che il Papa vi lascia in questa veglia indimenticabile. La parola contenuta in esso è la parola di Gesù. Se l’ascolterete nel silenzio, nella preghiera, facendovi aiutare a comprenderla per la vostra vita dal consiglio saggio dei vostri sacerdoti ed educatori, allora incontrerete Cristo e lo seguirete, impegnando giorno dopo giorno la vita per Lui!
      In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. E’ Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna. E’ Lui, Cristo!
Carissimi giovani, in questi nobili compiti non siete soli. Con voi ci sono le vostre famiglie, ci sono le vostre comunità, ci sono i vostri sacerdoti ed educatori, ci sono tanti di voi che nel nascondimento non si stancano di amare Cristo e di credere in Lui. Nella lotta contro il peccato non siete soli: tanti come voi lottano e con la grazia del Signore vincono!

5.         Cari amici, vedo in voi le “sentinelle del mattino” (cfr. Is.21,11-12) in quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a combattere gli uni contro gli altri. I diversi messianismi secolarizzati, che hanno tentato di sostituire la speranza cristiana, si sono poi rivelati veri e propri inferni.
Oggi siete qui convenuti per affermare che nel nuovo secolo voi non vi presterete ad essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti
Cari giovani del secolo che inizia, dicendo “” a Cristo, voi dite “” ad ogni vostro più nobile ideale. Io prego perché egli regni nei vostri cuori e nell’umanità del nuovo secolo e del nuovo millennio. Non abbiate paura di affidarvi a Lui. Egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in ogni situazione.



            Maria Santissima, la Vergine che ha detto “” a Dio durante tutta la sua vita, i Santi Apostoli Pietro e Paolo e tutti i Santi e le Sante che hanno segnato attraverso i secoli il cammino della Chiesa, vi conservino sempre in questo santo proposito! A tutti ed a ciascuno offro con affetto la mia Benedizione.
Voglio concludere questo mio discorso, questo mio messaggio, dicendovi che ho aspettato tanto di potervi incontrare, vedere, prima nella notte, e poi nel giorno. Vi ringrazio per questo dialogo, scandito con grida ed applausi. Grazie per questo dialogo. In virtù della vostra iniziativa, della vostra intelligenza, non è stato un monologo, è stato un vero dialogo.
C’è un proverbio polacco che dice: “Kto z kim przestaje, takim sie staje”. Vuol dire: se vivi con i giovani, dovrai diventare anche tu giovane. Così ritorno ringiovanito. E saluto ancora una volta tutti voi, specialmente quelli che sono più indietro, in ombra e non vedono niente. Ma se non hanno potuto vedere, certamente hanno potuto sentire questo chiasso. Questo chiasso ha colpito Roma e Roma non lo dimenticherà mai!