sabato 14 aprile 2012

Gesù Cristo appare agli Apostoli


Don Dolindo Ruotolo
Commento al Vangelo  di Giovanni 20,19-31 della II Domenica di Pasqua 2012

                            Gesù Cristo appare agli apostoli

Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.
Essi erano in buona fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che parlavano della risurrezione e non ricordavano ciò che, in proposito, aveva detto loro Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente, ma s’erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro aspirazioni.
Il timore poi dei Giudei aveva fatto nascere in loro, quasi inconsciamente, il desiderio di sottrarsi, se fosse stato possibile, all’incanto e al fascino di ciò che in tre anni avevano visto e ascoltato.
La paura è sempre una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse: La pace sia con voi.
Nella sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di sbigottimento che si generò in loro a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate e il costato aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, e avessero constatato che quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.
Il Corpo risorto di Cristo
e le ombre penose della bellezza umana
Il momento fu solenne, ed è difficile, per noi, formarcene una pallida idea.
Il Corpo di Gesù, essendo risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano sottigliezza, per la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde radiofoniche e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà ostacoli insormontabili ai corpi. Il Corpo glorioso è come spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e tutto energia, e può attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio. Gesù Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli apostoli. Non irradiava luce quasi fosse un sole, come può arguirsi da apparizioni di esseri ultramondani, ma era Egli, come un corpo tutto splendente, luce placidissima che non abbagliava.
Pietro, Giacomo e Giovanni dovettero ricordare, allora, la scena della trasfigurazione che aveva qualche somiglianza con ciò che vedevano. Gesù, ritto in piedi, era mirabilmente bello: era Lui, ma immensamente più affascinante nella sua carne gloriosa. I capelli erano nel fulgore della luce come onde d’oro, la fronte e il volto erano candidi e rubicondi, fonte di gioia nella loro purissima bellezza; il corpo era mirabilmente intonato, senz’alcuno di quegli angoli oscuri che ha l’umana bellezza; maestoso, ma dolce e paterno, spirava amore da ogni parte, ed era come giglio fragrante schiuso in una valle brumosa, perché emanava da Lui quel tenue e soave profumo che spirava dalla carne gloriosa.
L’umana bellezza e l’umana carne, anche quando sono avvolte in un alone di purezza, hanno sempre qualche angolo oscuro e qualche lezzo di putrido, eccetto il caso nel quale siano interamente vivificate dallo Spirito Santo. È un’illusione pensare che una bellezza vivente o effigiata dal vero possa portarci a Dio, fissandola con uno sguardo di curiosa esplorazione; essa ha sempre dei corticircuiti che scaricano nella terra la corrente dell’amore divino che ferve nell’anima. Una sola bellezza può fissarsi e sentirsene vivificati, ed è quella che traluce dalla grazia di Dio; una sola bellezza può fissarsi e possedersi ed è quella di Dio. Qualunque altra bellezza accende sempre una passione nei sensi, dà un desiderio incosciente di possesso almeno ideale, è come vento che solleva le onde e suscita le tempeste, è come forza che devia da Dio la corrente del cuore.
Gesù, ritto nella sala, vestito non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima che elevava l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I discepoli, vedendo il Signore, gioirono. Era la gioia della vita piena che emanava da Colui che era la vita; era la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le ansie oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come faro luminoso, dal quale veniva tracciata la via del Cielo.
Gioirono i discepoli nella gioia della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella gioia, si estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è gioia più grande della purezza integrale: è una gioia che nasce dall’amore di Dio che si trasfonde nell’anima come luce di verità, come calore di carità, e come complesso di bontà. In noi c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia spirituale è sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere Gesù, si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una grande serenità, e dicendo: La pace sia con voi, li avvolse in quella pace che spira da Dio, Verità, Sapienza e Amore eterno.
Pace, tranquillità d’ordine, serena sicurezza, riposo d’amore nell’eterno Amore!
A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi…
Gioirono i discepoli, ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come il Padre ha mandato me così io mando voi.
Con delicatezza divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati. Pur ricevendosi una volta lo Spirito Santo – perché la sua comunicazione sacramentale imprime il carattere –, Gesù Cristo volle darlo più volte ai suoi prediletti, riserbandone loro una nuova pienezza nel giorno della Pentecoste. Si direbbe che sta nelle sue abitudini di misericordia e di amore moltiplicare e rinnovare i suoi doni a quelle anime che gli si danno con amore, ed hanno fiducia nella sua generosità.
Dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento (Sess. XIV, can. 3). Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le disposizioni interiori che lo animano.
La Confessione dei peccati non è un’imposizione umiliante e penosa benché a primo aspetto sembri che sia così, e benché a volte abbia quasi questo sapore: è una concessione di misericordia, fonte di pace e di gioia grande per il povero peccatore. Sottoporre i propri peccati a chi rappresenta Dio significa mutare l’immondizia in concime, il concime in pianta, in fiore, in frutto di eterna vita. Confessarsi significa espandere l’anima propria, piangendo, nelle braccia amorose di Dio, e assicurarsi del suo perdono che è dolcissima gioia, pienezza di vita che fa sentire leggeri, leggeri, liberi dalle catene, tesi al volo verso le ricchezze eterne.
Con divina delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo.
Gesù Cristo risana Tommaso dalla sua incredulità.
Quando Gesù apparve agli apostoli, Tommaso non era con loro. Di carattere più indipendente, di volontà più ostinata, forse aveva creduto inutile starsene rinchiuso nel Cenacolo, o forse anche era andato a sbrigare qualche faccenda. Era colui che meno aveva creduto al messaggio delle pie donne e di Maria Maddalena, e può darsi che, sentendone parlare e discutere, si fosse così disorientato e urtato, da uscirsene. Per lui ormai era certo che Gesù era morto che le speranze riposte in Lui erano fallite, e che ostinarsi ad attendere ancora eventi che gli sembravano ormai impossibili era lo stesso che esporsi alla derisione e dar di volta al cervello. Il suo disorientamento si accrebbe quando, al ritorno, seppe dagli altri apostoli dell’apparizione di Gesù.
È evidente che gli dovettero raccontare tutto minutamente, e che, al suo ostinarsi nel non credere, dovettero ripetutamente fargli notare che essi avevano visto proprio le ferite delle mani, dei piedi e del costato, e che non c’era dubbio che fosse proprio Lui. Ma Tommaso credeva di scorgere nella gioia, nell’entusiasmo e nella certezza dei compagni, i segni di un’esaltazione fantastico, e perciò, alle loro insistenti affermazioni, rispose: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.
La psicologia di chi ascolta il racconto
concitato di un fatto straordinario
Si deve notare la profonda psicologia di questo episodio e della risposta di Tommaso: chi ha visto un fatto straordinario e se ne è convinto, entusiasmandosi, ne diventa testimone ardente e si urta contro chi non l’ammette solo perché non l’ha visto. Chi non l’ha visto ha in fondo all’anima sua, magari inconsciamente, il rammarico di non averlo osservato, e si sente in una certa inferiorità di fronte a chi ne rende testimonianza.
L’assistere ad un fatto straordinario diventa sempre un titolo d’orgoglio, perché diventa una testimonianza indiretta della bontà e dignità di chi ne è stato spettatore. Questo urta chi non lo è stato, e il suo orgoglio nascosto svaluta il fatto, per non confessare la propria inferiorità. Al suo occhio cattivo tutto sembra una montatura, un’esagerazione, un frutto di eccitazione fantastica; rifiuta di ragionare, fa dinieghi energici, alterca, ovvero deride chi si riscalda nell’attestarlo, e rimane ostinatamente nel suo giudizio, anche di fronte alla realtà. Per essere troppo ragionevole diventa irragionevole, e per cavillare troppo diventa stolto.
San Tommaso, ritornato al Cenacolo, aveva trovato l’ambiente per lui stranamente cambiato. I suoi compagni gli sembravano esaltati, la loro gioia lo urtava, le loro osservazioni lo turbavano. Sentiva, in fondo, il rammarico di non essersi trovato, ma voleva persuadersi di essere stato lui un privilegiato a non trovarsi ad una scena che gli sembrava fantastica. Aveva un incosciente rimorso della sua incredulità, ma tentava soffocarlo nei raggiri di un ragionamento; perciò, all’argomento di prova che gli davano i compagni della realtà dell’apparizione, cioè le piaghe delle mani, dei piedi e del costato, risponde con un fare altero che rivela la lotta interna del suo spirito: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.
L’insistenza della sua risposta mostra l’agitazione nella quale la diede: voleva vedere lui le piaghe, anzi voleva accertarsi del foro fatto nelle mani e nei piedi dai chiodi, e dell’apertura fatta al costato dalla lancia, mettendovi il dito e la mano. Nel dire questo, egli mostrava il suo dito e la mano, quasi in tono di sfida, e guardava i compagni con un senso di commiserazione, quasi che egli solo fosse tra loro l’uomo accorto che non si lascia abbindolare.
Gli apostoli non poterono opporgli altro; si mostrarono dispiaciuti, disgustati, afflitti ma, di fronte all’ostinazione di una ragione sconvolta, c’è poco da fare. Non la si può conquidere col ragionamento. È proprio l’atteggiamento di quelli che negano la verità e il soprannaturale per partito preso: nulla li convince, e preferiscono al ragionamento il cavillo insensato, all’evidenza la loro ostinazione irragionevole. Si appellano solo e reclamano argomenti e constatazioni materialmente positive, salvo poi a negarne anche l’evidenza se questa non coincide col loro pensiero.
Il cavillo dolorosamente è prolifico: uno ne genera cento e, quando l’anima vi si è inviluppata, è come avvolta da una rete che la stringe sempre più. Solo la luce e la grazia di Dio può vincerla, e Gesù, misericordiosamente, volle personalmente intervenire, per sanare, con le sue soavissime piaghe, quelle dell’anima di san Tommaso.
Gesù appare di nuovo, presente Tommaso,
che è guarito dalla sua incredulità
Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo tutti raccolti nella casa, e Tommaso era con loro. Forse pregavano; certo erano in un momento di raccoglimento nel quale era più facile la mozione della grazia.
Crediamo che Maria si trovasse con gli apostoli, e che fu proprio Lei ad implorare la grazia della conversione per Tommaso. Come Madre amorosa che prendeva cura attiva dei figli affidatile da Gesù, conobbe o fu addirittura presente al disorientamento di Tommaso, e supplicò il Figlio suo divino a sanarlo. A Lei dovette suscitare tanto dolore l’incredulità di un apostolo, e vide in essa la rappresentanza dell’incredulità dei diffidenti e presuntuosi nella fede.
Tommaso soprannominato Didimo dice il Sacro Testo –, ossia gemello, era veramente come il fratello gemello dei miscredenti futuri, dei razionalisti che non ragionano, e soprattutto di quelli che non credono al soprannaturale, pretendendo toccarlo con mano. Maria ne era addoloratissima, poiché Ella sapeva, per esperienza, che non si compiono mai i disegni di Dio se non si crede, e santa Elisabetta aveva riconosciuto in questo il segreto della sua grandezza: Beata te che hai creduto, poiché così si compirà in te quello che ti è stato detto dal Signore (Lc 1,45). Maria, dunque, che vedeva Tommaso privo allora del dono dello Spirito Santo, della potestà che Gesù aveva data agli apostoli soffiando su di loro, Maria che lo vedeva immeschinito nella incredulità, sterpo sterilissimo e infecondo che dà solo spine, pregò Gesù che lo sanasse, e Gesù comparve di nuovo a porte chiuse.
Quale gioia per gli apostoli e quale sorpresa per Tommaso! Egli si voltò, lo vide, lo riconobbe: era Lui! Allibì per un momento, temette, si turbò, ma Gesù gli effuse subito nel cuore la serena tranquillità, dicendo: La pace sia con voi. La tracotanza di Tommaso fu in un momento fiaccata, e nel suo cuore cominciò a sorgere un tumulto d’amore e di umiliazione. Gesù lo chiamò a sé, e lo invitò a mettere il dito nelle sue piaghe e la mano nel suo costato, dicendogli con infinito amore: Non voler essere incredulo ma fedele.
Il Sacro Testo non dice se Tommaso abbia messo il dito e la mano nelle piaghe di Gesù, ma noi crediamo che il Redentore ve l’abbia costretto. A quella vista, a quel contatto, Tommaso si prostrò e, adorandolo, disse: Signor mio e Dio mio. Non poté dire altro: il cuore gli scoppiava dal dolore e dall’amore, la fede divampava in lui, l’abbandono era pieno nel suo Redentore e nel suo Dio. Ma Gesù soavemente lo rimproverò, per completare la grande lezione che voleva dare ai secoli futuri, dicendo: Perché hai visto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto. Non è fede il credere perché si vede, ma il credere per l’autorità di Dio che parla per la Chiesa; è solo allora che l’anima riposa nella verità. Ogni propria constatazione può essere fallace, ogni esperienza personale può essere offuscata dalla fantasia, ogni propria persuasione può mutarsi col mutarsi delle circostanze che l’hanno formata; solo la parola di Dio è sicura, solo la voce della Chiesa ce la può accertare e solo credendo ciò che non si vede e non si tocca con mano si può dire di aver fede e di credere in verità veramente divine.
Ciò che si tocca con mano è materiale, ciò che si vede con gli occhi appartiene alla terra; ora la fede ha per oggetto le cose eterne e soprannaturali. Dio può mostrarcele anche sensibilmente, ma Egli, in generale, lo fa solo con chi ha tanta fede da conversare nei cieli pur vivendo sulla terra.
Le piaghe del Corpo glorioso di Gesù
Con divina disposizione di sapienza, Gesù Cristo volle conservare, nel suo Corpo glorioso, le sue cinque piaghe, non solo come fiori del suo amore, ma anche per sanare quelle dell’anima nostra. Abbiamo macchiato le mani per le nostre azioni cattive, i piedi, per i nostri passi errati, il cuore per le profanazioni dell’amore che dobbiamo a Dio solo, e Gesù ci mostra le sue piaghe per sanarci. Egli volle confitte alla croce le sue mani e i suoi piedi per riparare i disordini della nostra libertà, e volle che fosse aperto il suo Cuore dopo morte, per riparare gli eccessi ai quali si abbandona il nostro cuore quando muore alla grazia. È allora che esso si lascia ferire da ogni allettamento di male e diventa triste tabernacolo di passioni vergognose. Basta vedere le piaghe di Gesù per sentirsi commuovere il cuore e per ripetere con san Tommaso, in un impeto di pentimento e d’amore: Signor mio e Dio mio!
La Chiesa, perciò, ha avuto sempre una speciale devozione alle santissime Piaghe del Redentore, essendo questa devozione cominciata, si può dire, proprio quando Gesù le mostrò agli apostoli e le fece toccare a Tommaso. Satana cerca disorientare la mente dei fedeli in questi tempi di miscredenza; e tenta confondere il riserbo giusto della Chiesa per una rivelazione privata non ancora da essa vagliata, con la riprovazione della devozione alle piaghe. Come potrebbe la Chiesa riprovare quello che forma l’oggetto d’una sua festa liturgica speciale? Come potrebbe avere l’Ufficio e la Messa delle cinque piaghe e riprovare quelli che ne vivono lo spirito? Essa non vuole che si propaghi come devozione privata quello che è sua devozione pubblica, e che si consideri come devozione incerta quella che è devozione del suo cuore. Satana gioca con l’equivoco, e ride, vedendo che aborriscono da questa devozione, quasi da cosa illecita, proprio quelli che più hanno bisogno d’essere risanati dalle piaghe di Gesù.
Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto
Siamo in tempi di stolto positivismo, nel quale si vuol tutto vedere e toccare con mano, trascurando le positivissime basi della verità, della sapienza e della vita. Tommaso dolorosamente ha fatto scuola, e i suoi seguaci l’hanno superato; egli voleva toccare con mano Gesù, essi si restringono alla materia e vogliono toccare solo quello che sembra ad essi vita. Si è detto che giovò più san Tommaso alla nostra fede con la sua incredulità che gli apostoli con la loro fede, perché la sua incredulità fu l’occasione di una solenne conferma della risurrezione di Gesù Cristo.
È una frase che bisogna intendere con un granello di sale. L’incredulità non giova mai, neppure quando dà occasione ad una maggiore chiarificazione della verità, certo non per suo merito.
La chiarificazione viene dalla fede della Chiesa, non dalla provocazione della miscredenza. In realtà, se san Tommaso fosse stato fedele e avesse creduto, la sua fede avrebbe diffuso, nei secoli, un’onda di fede. Egli, invece, è stato preso quasi come vessillo di quelli che non credono al soprannaturale, e che pretendono di vedere e scrutare tutto.
Chi non ha, nella sua vita, un momento di stolta titubanza innanzi alla verità della fede? Chi non si lascia qualche volta turlupinare da satana che presenta come tenebre ciò che è luce? Chi non desidera, almeno qualche volta, toccare con mano la realtà dei misteri? Umiliamoci e, ricordando le parole di Gesù: Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto, cerchiamo questa santa beatitudine della fede che non vede e crede. Gesù non disse: Beati coloro che non vedono e credono, ma disse: Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto, indicando così, chiaramente, che la beatitudine di chi crede senza vedere si riepiloga in Cielo, dopo la vita presente; allora quelli che in vita non hanno visto e hanno creduto, avranno la gioia immensa di vedere tutto nel lume della gloria, in Dio stesso. La fede cieca, anche sulla terra dà la gioia della pace, poiché l’anima che crede riposa in Dio; ma la gioia della vita vera è riservata nell’eternità, dove tutto è chiaro, e dove si gode, contemplando la verità e l’armonia di ciò che si è creduto in terra.
Gesù Cristo disse: Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto, alludendo forse anche ai santi dell’Antico Testamento che sospirarono a Lui, e soprattutto alla fede di san Giuseppe e della Vergine Madre sua, ammirabili esemplari di fede profonda, perché lo contemplarono nella fralezza della sua vita mortale, nel nascondimento della sua maestà e nell’umiliazione estrema cui si ridusse per amore. Maria, poi, lo contemplò sul Calvario e nel sepolcro con vivissima fede, e fu l’unico Cuore nel quale rimase intatta, anzi ingigantita, la fede, quando tutto sembrò fallito, per la tragedia della Passione. m
(dal Commento ai Quattro Vangeli - di Don Dolindo Ruotolo)

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