sabato 17 settembre 2011

La terra, vigna del Signore


Commento al Vangelo della XXV Domenica del T.O. (Mt 20,1-16)
Don Dolindo Ruotolo
La terra, vigna del Signore

La terra è come una vigna di proprietà del Padre celeste, e in questa vigna vennero chiamati gli uomini come operai del bene, per avere la mercede del loro lavoro nell’eternità. Dopo la caduta originale, la vigna del Padre celeste fu il popolo eletto, e le generazioni che in esso si succedettero furono come i vari gruppi di operai reclutati per lavorarla. Questi operai furono chiamati in varie ore della giornata della vita: alcuni nella puerizia, altri nell’adolescenza, altri nella gioventù, altri nella virilità, e altri nella vecchiaia. Quanti poi furono i chiamati nelle varie epoche della storia d’Israele che nel suo percorso terreno poteva paragonarsi ad una giornata, e quante generazioni si succederono nell’età dei patriarchi, dei giudici, dei re e dei profeti, e poi in quelle del decadimento della nazione! Ancora: gli operai della prima ora sono particolarmente nominati insieme con quelli dell’ultima; sono essi che risaltano nella parabola; quelli delle ore intermedie rappresentano un passaggio dalle prime generazioni alle ultime.
Sono dunque di fronte due grandi elezioni di anime: quella dell’Antico Testamento e quella del Nuovo; la prima e l’undicesima ora, gli operai della legge della servitù, e quelli della legge di grazia; quelli che vengono assoldati e pattuiscono la mercede, cercando il padrone per interesse, e quelli che vengono chiamati dall’amore e vanno a lavorare pieni di riconoscenza per la grazia avuta, mentre si vedevano già condannati all’inazione e alla miseria. Due categorie, due popoli, due generazioni: il popolo ebreo, lavoratore della prima ora, e il popolo pagano, chiamato per misericordia all’undicesima ora, nell’ultimo periodo della storia del mondo. Esso è l’ultimo ma, essendo stato chiamato per grazia, risponde con ardore alla chiamata divina, sarà il primo nel possedere il regno di Dio. Gli Ebrei sono i primi, ma vengono per ultimi quando si tratta di raccogliere il frutto del lavoro, perché si rivolgeranno al padrone ultimi di tutti, allorché, alla fine dei tempi, si convertiranno e faranno parte della Chiesa.
Gesù Cristo, raccontando la bella parabola, aveva innanzi allo sguardo la storia dei secoli; considerò le anime che in esse si succederono e si sarebbero successe; vide quante avrebbero reso vana la chiamata di Dio, e quante sarebbero state salvate dalla redenzione per pura misericordia; dominava, nel suo pensiero, quindi, la chiamata di tanti al bene e l’elezione dei pochi al regno della grazia, le schiere innumerevoli delle generazioni passate del popolo di Dio, e l’esigua schiera degli apostoli e dei discepoli, i veri eletti nel regno della grazia che Egli inaugurava. È questo il pensiero fondamentale della parabola, espresso chiaramente dalle parole con le quali Gesù Cristo la chiuse: i primi e gli ultimi, i chiamati e gli eletti; i primi che vengono ultimi al regno di Dio, e gli ultimi che per i primi ne raccolgono il frutto; i chiamati nel corso dei secoli e in mezzo al popolo ebreo, e i pochi eletti che lo circondano, spregiati dagli scribi e farisei, eppure primi nell’elezione della grazia e della misericordia.
San Pietro aveva domandato quale premio avrebbero avuto essi che avevano abbandonato tutto, e Gesù raccontò questa parabola per far sempre più risaltare che il premio, se era corona di giustizia, era principalmente corona della grazia che aveva donata agli eletti la giustizia. Essi erano operai dell’ultima ora, scelti per misericordia in un tempo di decadimento, e quindi di oziosità spirituale; l’aver lasciato tutto per andare a lavorare nella vigna del Signore, se era un merito per loro, era principalmente una grazia da essi ricevuta. La ricompensa sarebbe stata grande, ma per pura bontà del padrone della vigna, il quale li aveva eletti per misericordia, quando il declinare della luce della verità e del bene del popolo non dava loro altra speranza di raggiungere la via del bene e salvarsi.
Gesù Cristo parlò non solo per gli apostoli che lo ascoltavano, ma anche per tutte le genti, e la sua parabola si applica anche alla chiamata delle singole anime nelle vie di Dio. Tutti siamo operai della sua vigna, la Chiesa; ma non tutti siamo chiamati nella medesima ora della vita. Ci sono quelli che cominciano di buon mattino, e quelli chiamati all’ultima ora.
La chiamata è grazia, e il premio è misericordia del padrone della vigna, di modo che tutti giungono al Cielo per bontà divina, e raccolgono la vita eterna. Chi giunge prima nella vigna non può presumere di sé, e chi giunge dopo non deve scoraggiarsi, perché l’amore supplisce quello che non si è fatto nel percorso della vita. Si può anche dire che la grazia ci chiama sempre, e che siamo noi che spesso non rispondiamo alla sua chiamata. Se il padrone avesse trovato tutti gli operai alla prima ora, li avrebbe tutti chiamati; ma molti avevano oziato a casa prima di oziare nella piazza, ed erano giunti in ritardo. Quante anime giungono in ritardo nei momenti più grandi delle divine misericordie! Vanno tardi agli esercizi spirituali, alla predica, alla Messa, e non raccolgono l’invito della divina misericordia quando esso è più soave e più penetrante, rimanendo così oziosi nella vita dello spirito! Alle volte un momento può decidere della nostra santificazione, e questo momento ce lo facciamo sfuggire!
Il mondo sta nelle piazze oziando, e tutte le sue occupazioni sono l’espressione di questo malefico ozio. Si può dire ai poveri mondani: Perché state tutto il giorno in ozio? Ozio è il poltrire nelle agiatezze terrene, senza farle fruttificare nella carità; ozio è il perdersi in tante umane convenienze che disseccano le radici stesse della vita spirituale; ozio sono i divertimenti, le conversazioni, le riunioni di salotto; ozio di parole inutili, e tanto facilmente di atti peccaminosi! Ozio è il consumarsi sui libri, trascurando la conoscenza di Dio e delle verità eterne; ozio è il vivere senza partecipare ai grandi mezzi di grazia che Dio ci ha donati: i Sacramenti, la Liturgia della Chiesa, tutti i tesori che essa ci dona nei digiuni, nelle Indulgenze, nei Giubilei. Quanti rimangono, diremmo, sulla piazza della vita, perduti in tante stupidaggini, e all’ultima ora aspettano la chiamata di Dio per potersi convertire! La misericordia divina è infinita, senza dubbio, ma attendere l’ultimo momento per convertirsi è veramente una presunzione che potrebbe anche condurre all’Inferno!
Lavoriamo per l’anima, e perciò lavoriamo per la gloria di Dio, perché questo è il lavoro più bello che possiamo fare per l’anima. Anche sotto questo riguardo, molti sono i chiamati e pochi gli eletti, poiché pochi sono quelli che intendono la vita per quello che è veramente, e che lavorano per guadagnare la ricompensa eterna!
Guardiamo il quadro di un nostro antenato, della mamma, del babbo, della nonna, del nonno… è una sintesi di tutto un tempo che fu: le vesti, l’atteggiamento, il colore stesso del ritratto sbiadito, ci ricordano cose che non sono più, o che sono occupate da altri, usi già passati, e anche angustie, tribolazioni, pene! Quanti lavori, quanti studi, quante occupazioni passate inutilmente! Forse uno degli antenati impiegò cinquant’anni a studiare leggi fisiche che oggi farebbero ridere; forse un altro si specializzò in discipline tramontate… Quante inutilità e quanto tempo sperperato! Quello che è rimasto è la vita eterna, e le opere fatte almeno in quell’ora di lavoro data al Signore!
         Dio ci chiama a lavorare nel suo campo, e si contenta anche di quel poco che gli diamo, purché sia dato con amore. Oseremmo dire che la grazia di Dio è linfa capillare: passa per i piccoli canali e attraverso di essi giunge a tutta la nostra vita. Le piccole mortificazioni, le piccole rinunce, le umili opere buone che costano tanto poco, sono come la capillarità del sistema vivificante della grazia. L’occlusione di uno di questi condotti di grazia può produrre la trombosi dello spirito, come la chiusura di una vena capillare può causare quella del corpo. Quante volte Dio ci chiama a lavorare nel suo campo in piccole cose, e noi non lo ascoltiamo, perdendo il primo anello di una lunga catena di grazie! Rispondiamo a Dio almeno come gli operai dell’ultima ora e, se abbiamo perso tanto tempo nella vita, utilizziamo quello che ci rimane per poter raccogliere il frutto eterno della divina misericordia.

sabato 10 settembre 2011

La misericordia


Commento al Vangelo della XXIV Domenica del T.O. (Mt 18,21-35)


La parabola dei diecimila talenti
La misericordia usata verso i peccatori attrae la misericordia di Dio verso la Chiesa e i suoi membri, avendo tutti dei debiti più o meno gravi, innanzi al cospetto divino. Per confermare questa verità, Gesù raccontò la bella parabola del debitore dei diecimila talenti e di quello di cento denari. Diecimila talenti, se computati col talento antico d’argento, usato in Palestina ai tempi di Gesù, equivalevano a circa 55 milioni, se computati col talento ebraico, equivalevano al doppio.
Il servo infedele, dunque, era debitore di una somma enorme, impagabile nonostante ogni suo sforzo. Simbolo bello questo del peccato diretto contro Dio che non può soddisfarsi senza una misericordia infinita. Cento denari equivalevano a circa 86 lire, e stabiliscono nella parabola la proporzione dell’offesa fatta a noi in confronto di quella fatta a Dio.
Se il Signore è tanto misericordioso con noi da perdonarci con un semplice atto di supplicante penitenza, anche noi dobbiamo essere misericordiosi verso chi è debitore verso la società, verso la Chiesa, o verso di noi di offese, o di danni.
Gesù condanna assolutamente la spietatezza verso i poveri peccatori, anche se questa spietatezza sembrasse giustificata dalla necessità di conservare l’ordine. La spietatezza non produce alcun bene: soffoca, opprime, toglie la libertà di rinsavire, inasprisce, ottenebra.
        Bisogna dunque compatire e perdonare, poiché questo è l’esempio che ci dà Dio, e questo è il retaggio che Gesù Cristo ha lasciato alla sua Chiesa, perdonando sulla croce anche ai suoi crocifissori. Dobbiamo avere, sì, orrore del peccato; riproviamolo, condanniamolo, ma abbiamo misericordia per il peccatore, pensando che anche Dio ci ha usato tante misericordie, molto maggiori di ogni nostra valutazione. Certe forme di zelo spietato non piacciono a Dio, e praticamente non giovano a nulla, poiché la durezza inasprisce e incancrenisce le piaghe. Se invece di essere spietati si pregasse per i poveri traviati, quanti frutti di penitenza si raccoglierebbero nella Chiesa!
Sac. Don Dolindo Ruotolo