sabato 29 ottobre 2016

ZACCHEO

Commento al Vangelo della XXXI Domenica TO 2016 C (Lc 19,1-10)

Zaccheo

Per andare verso Gerusalemme, Gesù, continuando nel suo cammino, attraversò Gerico. La fama dei miracoli da Lui operati, e specialmente quella dei ciechi ai quali aveva ridonato la vista, suscitò grande entusiasmo nella città, e il popolo gli si affollò straordinariamente intorno. Ora, vi era in Gerico un capo dei doganieri pubblici, il quale, sentendo che passava Gesù, corse e si mescolò prima tra la folla nella speranza di vedere chi fosse. Egli era Ebreo, come si rileva dal suo stesso nome ebraico Zakkai che significa puro, giusto, e come Ebreo aveva anch’egli la speranza del Redentore futuro; volle vedere Gesù, dunque non per una semplice curiosità, ma per osservare chi fosse, cioè se avesse qualche cosa di straordinario che potesse farlo riconoscere come il Messia promesso.
Zaccheo, capo dei doganieri o pubblicano, esosi esattori delle gabelle romane che facevano mille soprusi al popolo, era riguardato come un peccatore più degli altri. Piccolo di statura, doveva essere molto scaltro e intelligente per stare in un posto di responsabilità che faceva correre anche rischi di aggressioni da parte degli angariati, e richiedeva una mano ferma per tenere disciplinati i suoi subalterni. Doveva avere, però, un buon fondo di rettitudine, come appare dal modo col quale accolse la grazia di Dio, e un’anima semplice, come può rilevarsi dal gesto che fece per vedere Gesù.
Piccolo di statura ma svelto e nel pieno vigore delle forze, come si rileva dal suo gesto, non potendo in nessun modo farsi largo tra la folla né scorgere Gesù da lontano, da uomo pratico com’era, ebbe un’idea geniale: corse avanti per dove doveva passare Gesù e, visto un albero di sicomoro, vi si arrampicò e vi stette per osservare a suo agio il Maestro divino.
Il sicomoro si prestava a fargli da stazione di osservazione, perché ha i rami quasi orizzontali e non è molto alto; egli, dunque, si appoggiò comodamente ai rami e attese. Notò l’ondeggiare della folla e dall’alto, forse, non gli sfuggì la miseria di quel popolo angariato; ciò può supporsi dalla risoluzione che prese, sotto l’influsso della grazia, di dare ai poveri metà dei suoi beni.
La grazia non opera mai a salti nell’anima nostra e poté utilizzare l’ispezione che Zaccheo fece del popolo dall’alto dell’albero.
Appena Gesù passò per quel luogo, alzò gli occhi e, visto Zaccheo, si fermò e lo invitò a scendere, dicendogli che gli occorreva fermarsi nella sua casa. Zaccheo apprezzò l’onore altissimo che gli veniva fatto e, scendendo in fretta, lo accolse con grande gioia. La sua dimora non doveva essere molto lontana, e tutto il popolo, vedendo che Gesù era andato da un uomo peccatore, cominciò a mormorare. Eppure avrebbe dovuto esaltare Gesù e ringraziarlo, perché la conversione di Zaccheo fu di immediato vantaggio per i poveri e per tutti quelli che erano stati angariati da lui. È evidente che Gesù andò da quel peccatore per convertirlo e disse che gli occorreva fermarsi in casa sua, perché voleva spingerlo a regolare le ingiustizie che aveva commesse.
Non ebbe bisogno di parlargli: gli bastò visitarlo e, poiché Zaccheo aveva accolto il suo primo invito, accolse con prontezza anche quello che gli faceva dell’anima, e disse: Ecco, o Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno gli rendo il quadruplo. Al contatto con Gesù sentì una grande carità per i poveri e, poiché Gesù era andato da lui per perorare la causa dei diseredati e degli angariati, egli sentì nel suo cuore il calore di quella fiamma di bontà e si sentì tutto trasformato. Diventò prodigo nella carità ed esuberante nella giustizia; diede metà di quello che gli apparteneva e riparò al quadruplo quello che aveva frodato.
Con questo, Zaccheo si mostrò pentito non solo dei peccati contro la giustizia, ma di tutti quelli che aveva fatto; col suo esempio trasse tutta la sua famiglia a seguire Gesù, riconoscendolo come Messia, accettò la salvezza che veniva da Lui, e perciò Gesù disse, con accento di grande soddisfazione, che la salvezza era venuta per quella casa, formando del suo capo un vero figlio di Abramo. Era venuto a cercare e salvare ciò che era perduto, e il suo Cuore divino esultava, accogliendo un’intera famiglia a salvezza.

Oppressi dal mondo siamo impotenti a vedere le cose celesti
Gesù attraversò Gerico, una città di commercio, e colui che rappresentava in certo modo il movimento di quel traffico, come capo dei doganieri, era piccolo di statura e non poteva vederlo, per la folla. Si può dire che il concentrarci nei guadagni e negli affari temporali senza occuparci del nostro ultimo fine ci renda piccoli di statura spirituale, incapaci di elevarci alle cose celesti, e oppressi dalla moltitudine degli affari come da folla tumultuante. Non è possibile vedere Gesù in questa deprecabile piccolezza e bisogna ascendere più in alto, facendo uno sforzo per staccarsi dalle cose terrene. Un primo atto di virtù, una rinuncia, un fioretto, anche minimo, offerto a Dio, può elevare d’un tratto la nostra statura spirituale, farci vedere Gesù e metterci sotto il suo sguardo per ottenere da Lui grazia e misericordia.

Gesù c’invita a riceverlo nella nostra casa, comunicandoci di Lui Sacramentato. È allora che Egli viene a noi per portarci la salvezza e la santificazione. Con infinito amore, Egli c’invita dal santo tabernacolo e, standovi come cibo e bevanda, ci dice veramente: Mi occorre fermarmi nella tua casa. Scendiamo presto dalle povere alture della vita terrena e andiamo a Gesù, ricevendolo con gioia, come nostro unico bene e unica vita. Dilatiamo il cuore nella carità, affinché la bontà di Dio ci ricolmi di grazie, e ripariamo le colpe commesse affinché ci usi misericordia. 
Don dolindo Ruotolo

sabato 22 ottobre 2016

Il fariseo e il pubblicano

Commento al Vangelo della XXX Domenica TO 2016C
(Lc 18,9-14)

II fariseo e il pubblicano
        Due uomini andarono al tempio per pregare; uno era fariseo, pieno di sé, orgoglioso, sprezzante, e l’altro era pubblicano, cioè era uno degli esattori pubblici, stimati dal popolo come esosi peccatori. Il fariseo cominciò a pregare in una maniera strana: stava ritto in piedi, con atteggiamento tracotante e, più che pregare, cominciò ad elogiarsi, ringraziando ipocritamente Dio delle buone qualità che presumeva di avere ma, in realtà, compiacendosene dentro di sé, e mettendosi al di sopra degli altri e al pubblicano, con senso di profondo disprezzo per essi. Alle sue pretese buone qualità civili, diciamo così, aggiunse quelle religiose, limitandole al digiuno e alla paga delle decime e dimenticando completamente gli atti di vero culto a Dio e l’umile adorazione della sua maestà.
       Non è improbabile che Gesù abbia formato la parabola su di un fatto realmente avvenuto; ad ogni modo, Egli sintetizzò nella preghiera del fariseo l’atteggiamento della falsa pietà e manifestò le ragioni per le quali la preghiera riesce inefficace.
       L’anima sta ritta in piedi innanzi a Dio, quando presume di se stessa e manca di umiltà; sta ritta quando pretende che Dio la esaudisca e, più che pregarlo, vuole imporsi alla sua maestà, non di rado bestemmiandolo larvatamente. Nel suo atteggiamento superbo, il fariseo pregava dentro di sé, non pregava Dio, e le sue parole tracotanti rimanevano in lui e non giungevano al trono dell’Altissimo come non vi giungono quelle di coloro che pregano con tracotanza.
       Pregava dentro di sé, letteralmente, biascicava fra sé le parole che diceva, perché in realtà l’anima sua non si espandeva né si elevava in Dio.
       Pregava, ma in realtà si elogiava, dicendo che non era come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e non si accorgeva che, con l’atto di superbia che faceva, era rapace della gloria di Dio, ingiusto verso il prossimo che giudicava male, e adultero, almeno spiritualmente, per le innumerevoli e gravi infedeltà che faceva alla divina Legge.
       Quante volte noi preghiamo con disposizioni di spirito capaci di farci condannare, perché portiamo nel cuore le miserie dei nostri peccati e facciamo recriminazioni contro il prossimo? Invece di supplicare, contendiamo con Dio e crediamo ingiuste le disposizioni della sua provvidenza, ribellandoci a Lui proprio nell’atto nel quale più dovremmo conciliarci la sua misericordia!
       Invece d’implorare, riconoscendoci miseri e bisognosi, ci crediamo degni di essere esauditi; il nostro maledetto orgoglio ci chiude le porte della grazia e il Signore non può esaudirci.
       Com’è bello ed efficace pregare come il povero pubblicano che non osava neppure alzare gli occhi al cielo e, percuotendosi il petto, diceva al Signore: Abbi pietà di me che sono un peccatore!Riconosciamoci peccatori, perché dolorosamente lo siamo; confessiamoci indegni delle divine misericordie, umiliamoci profondamente e Dio ci esalterà con la sua grazia e le sue misericordie. Chi presume di sé èumiliato e non ottiene grazie; chi si umilia innanzi a Dio è esaltato e si vede subito esaudito in ciò che domanda.
       Il pubblicano implorò misericordia ed ebbe misericordia, uscendo dal tempio giustificato, cioè rimesso in grazia di Dio; il fariseo si lodò, esaltando la propria pretesa giustizia, e uscì condannato dalla casa di Dio, perché il modo stesso col quale parlava mostrava chiaramente che il bene del quale si vantava l’aveva fatto per vanità e per essere stimato dagli uomini. Era, dunque, un bene effimero che meritava di essere ripudiato da Dio.
       Nel pregare, preoccupiamoci prima di tutto di ristabilire la nostra amicizia con Dio; domandiamogli perdono dei nostri peccati, umiliamoci per averli commessi e imploriamo la grazia di non peccare mai più. Quando stiamo in grazia di Dio, tutti i beni temporali dei quali abbiamo bisogno ci vengono per sovrappiù, e la misericordia divina ci esalta anche nella vita presente, dandoci una vita di pace nel pieno abbandono al suo amore.
        Negli ultimi tempi del mondo, ai quali Gesù si riporta esortandoci alla preghiera, ci sarà, come già c’è, una grande recrudescenza di orgoglio; ognuno crederà di essere un superuomo, prendendo innanzi a Dio un atteggiamento di tale presunzione da meritare di essere riprovato e condannato. L’orgoglio è e sarà la causa di gravi tribolazioni per la terra, è e sarà la causa principale di quell’apostasia dalla fede che riduce e ridurrà le povere nazioni come campi trincerati di spaventose lotte. A quest’orgoglio bisogna opporre la nostra umiltà, e riparare le ingiurie che si fanno al Signore annientandoci al suo cospetto e gridando alla sua bontà infinita: Abbi pietà di noi che siamo peccatori. 
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 15 ottobre 2016

Pregare con costanza e umiltà

Commento al Vangelo della XXIX Domenica TO 2016 C 
(Lc 18,1-8)
Don Dolindo Ruotolo

Pregare con costanza e con umiltà
Avendo Gesù accennato, nel capitolo precedente, alle tribolazioni degli ultimi tempi del mondo, esorta i suoi alla preghiera continua, costante e quasi importuna, per ottenere la misericordiosa giustizia di Dio contro le ingiustizie dei persecutori. Negli ultimi tempi, infatti, sarà tanta l’iniquità degli uomini e così generale l’apostasia che qualunque rimedio o iniziativa umana sarà impossibile; rimarrà solo il grande mezzo della preghiera, e Gesù esorta tutti a farne uso, raccontando una parabola, nella quale caratterizza l’indole dei capi di Stato degli ultimi tempi.
C’era un giudice in una città, il quale non temeva Dio e non aveva riguardi per gli uomini. Era scettico, miscredente, privo di ogni concetto di superiore giustizia e di conseguenza non aveva alcun senso di rispetto o di carità per gli uomini. Questa malvagia caratteristica noi la vediamo già nei capi atei o miscredenti di tanti Stati moderni, i quali non conoscono la giustizia ma il delitto o la sopraffazione.
C’era, in quella città, una vedova che aveva ricevuto qualche grave torto o danno e, incapace di difendersi con le sue forze, perché vedova, ricorse al giudice iniquo. Ma inutilmente, perché egli non se ne curò e la disprezzò. Ella, però, non si stancò di supplicarlo e si rese così importuna che il giudice, annoiato, per non essere tormentato dalle sue insistenze, la contentò.
Con questa parabola, Gesù fece un argomento dal meno al più: se un giudice iniquo, al quale non importava nulla della giustizia, finì per cedere alle insistenti preghiere della vedova, Dio che è giustizia per essenza, non ascolterà la preghiera di chi lo invoca giorno e notte contro le sopraffazioni degli empi?
La preghiera che può conquidere un uomo scellerato con l’importunità non conquiderà l’infinita bontà di Dio con l’amore? Egli ascolterà chi lo supplica, e non sarà lento, ma prontamente renderà giustizia.
Gesù dà la ragione di questa sua esortazione e dice chiaramente per quali tempi principalmente la fa, soggiungendo: Quando il Figlio dell’uomo verrà, credete voi che troverà fede sopra la terra?
Ecco i tempi nei quali sarà più che mai urgente pregare. Verrà il Figlio dell’uomo in una straordinaria effusione di grazie nella Chiesa e per la Chiesa, ma troverà le anime senza fede ed estremamente rilassate; verrà negli ultimi tempi per giudicare tutti, e apparirà glorioso quando l’apostasia sarà quasi completa sulla terra; in questi tempi i pochi fedeli superstiti, sbattuti da fierissime persecuzioni e impossibilitati a difendersi, potranno trovare scampo solo in Dio, e lo troveranno, pregando immediatamente.

Sono vicini i tempi predetti da Gesù?
I tempi predetti da Gesù già si delineano in tante nazioni, dove l’apostasia e l’ateismo fanno strage, e dove le persecuzioni, manifeste o subdole, lasciano i fedeli senza aiuto e senza difesa, in balìa degli uomini più perversi.
La situazione presente del mondo è tale che non si vede quale possa esserne il rimedio efficace.
Alcuni sperano persino in una guerra generale e lo auspicano, senza pensare che la guerra è un terribile castigo che lascia sempre una scia di altri castighi spirituali e materiali. Altri s’illudono di poter conquidere i despoti del mondo, senza pensare che, avendo essi in mano la potenza brutale, non si lasciano né convincere né conquidere. Ci può solo la preghiera e per questo la Chiesa in questi tempi la intensifica e cerca sgominare gli empi con questa sua potenza grandiosa che è quasi un bombardamento dall’alto fatto sulle loro posizioni fortificate.
Chi sente parlare di preghiera quando incombe un pericolo grave, quasi sogghigna, pensando ad un’ingenua illusione. Si può dire, infatti che, inconsciamente, chi più chi meno, quasi tutti hanno la convinzione dell’inefficacia della preghiera e la credono un ripiego e una fanciullata nei momenti nei quali stimano urgente l’agire e l’irrompere.

Questo stato interiore così falso deriva dal fatto che ognuno conta al suo attivo parecchi insuccessi in ordine alla preghiera; anzi, a volte, gl’insuccessi rivestono il carattere d’un fallimento completo. Nessuno pensa di pregare male o addirittura di non pregare, pur facendo molte orazioni; nessuno si umilia sinceramente quando non è esaudito, o quando si presenta al Signore per supplicarlo e, in realtà, può dirsi che rare volte noi domandiamo veramente. Perciò Gesù, con una parabola, volle rivelarci quale è l’atteggiamento dello spirito che rende inefficace o efficace la preghiera. È una cosa importantissima che bisogna ponderare, perché la preghiera ci è indispensabile più del pane.

sabato 8 ottobre 2016

La guarigione dei lebbrosi


Commento al Vangelo della XXVIII Domenica TO 2016 C (Lc 17,11-19)
Don Dolindo Ruotolo
La guarigione dei lebbrosi
Si avvicinavano le feste pasquali, e Gesù intraprese l’ultimo suo viaggio a Gerusalemme per compiervi la sua divina missione. Passò in mezzo alla Samaria, ossia tra i confini della Samaria e della Galilea, avviandosi verso la Perea e, stando per entrare in un villaggio, ancora nell’aperta campagna, gli andarono incontro dieci lebbrosi, i quali, fermatisi da lontano per non avere contatti col popolo, alzarono la voce implorando pietà. La loro fede in Gesù era in quel momento un atto di fiducia; essi lo sapevano potente e speravano che avrebbe potuto alleviare le loro pene; non era ancora una fede di pieno abbandono, e Gesù volle suscitarla in loro con un comando al quale potevano obbedire solo con una fede piena. Andate Egli disse –, fatevi vedere dai sacerdoti.
Si andava dai sacerdoti per far constatare la guarigione e fare l’offerta al tempio (cf Lv 14,10-21); ora essi erano ancora infermi, e solo con un atto di viva fede e di obbedienza poterono avviarsi a Gerusalemme. Mentre andavano, si sentirono sani, e continuarono il loro viaggio; solo uno di essi, un Samaritano, accortosi d’essere guarito, ritornò sui suoi passi e, glorificando Dio ad alta voce, si prostrò ai piedi del Redentore, ringraziandolo. Gli altri nove, nell’esultanza della riacquistata salute, preoccupati com’erano di rientrare subito nel consorzio umano, dal quale la terribile malattia li escludeva, non pensarono di andare a ringraziare Gesù glorificando Dio. Questo era un atto d’ingratitudine del quale Gesù si lamentò, sia per far rimarcare a tutti la loro guarigione, sia per esortarli alla gratitudine nei benefici divini, facendo rilevare che questo dovere l’aveva sentito solo un Samaritano da essi sprezzato come eretico e scismatico.

La lebbra del peccato
Passando per la Samaria, Gesù volle fare un atto di delicata misericordia verso quel popolo disprezzato e, mostrando la gratitudine e la fede del Samaritano, volle mostrare che quel popolo non era inferiore, anzi poteva dirsi in quel momento superiore a quello Giudeo. Egli così stroncava quel senso di disprezzo che aveva il popolo nell’attraversare la Samaria, impediva ogni recriminazione, e chiamava tutti, indirettamente, all’unità che Egli era venuto a stabilire in terra.
Gesù Cristo andava verso Gerusalemme per dare la sua vita per tutti e rendersi Egli come un lebbroso per amore; andava incontro ai peccatori, veri lebbrosi nell’anima, e volle, con un miracolo, manifestare in simbolo quello che gli ardeva nel Cuore. Egli avrebbe dato il Sangue per salvarci, ma non ci avrebbe applicato il prezzo della redenzione senza la mediazione sacerdotale.
È un’illusione tristissima pensare che solo perché Egli può salvarci senza mediatori, lo voglia. Istituendo il Sacerdozio, Egli ha detto a tutti gli uomini: Andate e mostratevi ai sacerdoti. Era logico, del resto, poiché, avendoci Egli salvati con la sua obbedienza fino alla morte di croce, ha voluto che avessimo usufruito della salvezza, obbedendo nell’umiliazione di tutti noi stessi ai piedi di un sacerdote, fino alla morte delle nostre miserie.

La gratitudine degli uomini
Il Signore si lamentò che dei dieci lebbrosi guariti uno solo fosse ritornato per ringraziarlo e dare lode a Dio, e volle insegnarci così che è un nostro imprescindibile dovere la gratitudine per i benefici che riceviamo dal Signore. L’atto della gratitudine è un riconoscimento della gloria di Dio, è una confessione della sua potenza, ed è un sentimento di abbandono filiale a Lui perché ci benedica come Padre amorosissimo.
Il Signore lo esige non tanto perché la nostra gratitudine possa essergli necessaria – benché la nostra lode accresca la sua gloria accidentale –, ma perché l’atto della gratitudine apre per noi nuove fonti di misericordie e di grazie. Gesù Cristo, infatti, benché il lebbroso Samaritano fosse già guarito, vedendolo prostrato ai suoi piedi, intenerito disse: Alzati, vattene, la tua fede ti ha salvato. Con queste parole volle indicare che nuove grazie scendevano su quell’anima e su quel corpo, e che la fede di lui, preziosissimo dono fra tutti i doni, veniva in lui fortificata con quella speciale misericordia.
Ogni volta che ringraziamo Dio, riceviamo dalla sua bontà un nuovo dono, e per questo i primi cristiani solevano salutarsi con queste dolci parole: Deo gratias. Ai pagani sembrarono parole stolte, perché erano più una conclusione che un saluto; eppure i primi cristiani si salutavano veramente, ringraziando Dio di essersi rivisti, e ringraziando di essere redenti da Gesù Cristo.

Noi, gl’ingrati!
Bisogna confessare che noi siamo ingrati al Signore, pur vivendo in mezzo ai suoi continui doni spirituali e corporali. Noi non possiamo ponderarli, tanto essi sono innumerevoli. Se riflettessimo solo ai principali, cioè alla vita dell’anima e a quella del corpo, ai pericoli dai quali siamo liberati, alle bellezze soprannaturali e naturali che ci circondano, dovremmo vivere con la faccia prostrata nella polvere, pieni di riconoscenza. Invece non solo siamo ingrati, ma ci lamentiamo proprio dei doni più belli di Dio: della vita, delle purificazioni della vita per le croci, e di tutte le delicatezze amorose con le quali Egli ci libera dal male e ci orienta all’eternità.

Abbiamo a nostra disposizione il sacramento della Penitenza, dove la nostra lebbra spirituale viene mondata e non solo non ringraziamo Dio, ma tante volte lo riguardiamo come un peso. Abbiamo l’Eucaristia, Dono dei doni, e viviamo tanto freddamente innanzi al tabernacolo, da mostrarcene annoiati. Abbiamo mille ricchezze nella Chiesa e viviamo sempre poveri, sprezzando quasi la vita che da essa riceviamo, e attaccandoci miseramente alle vanità del mondo! Quanti dolori diamo a Gesù con la nostra ingratitudine!
Commento al Vangelo della XXVIII Domenica TO 2016 C (Lc 17,11-19)

La guarigione dei lebbrosi
Si avvicinavano le feste pasquali, e Gesù intraprese l’ultimo suo viaggio a Gerusalemme per compiervi la sua divina missione. Passò in mezzo alla Samaria, ossia tra i confini della Samaria e della Galilea, avviandosi verso la Perea e, stando per entrare in un villaggio, ancora nell’aperta campagna, gli andarono incontro dieci lebbrosi, i quali, fermatisi da lontano per non avere contatti col popolo, alzarono la voce implorando pietà. La loro fede in Gesù era in quel momento un atto di fiducia; essi lo sapevano potente e speravano che avrebbe potuto alleviare le loro pene; non era ancora una fede di pieno abbandono, e Gesù volle suscitarla in loro con un comando al quale potevano obbedire solo con una fede piena. Andate Egli disse –, fatevi vedere dai sacerdoti.
Si andava dai sacerdoti per far constatare la guarigione e fare l’offerta al tempio (cf Lv 14,10-21); ora essi erano ancora infermi, e solo con un atto di viva fede e di obbedienza poterono avviarsi a Gerusalemme. Mentre andavano, si sentirono sani, e continuarono il loro viaggio; solo uno di essi, un Samaritano, accortosi d’essere guarito, ritornò sui suoi passi e, glorificando Dio ad alta voce, si prostrò ai piedi del Redentore, ringraziandolo. Gli altri nove, nell’esultanza della riacquistata salute, preoccupati com’erano di rientrare subito nel consorzio umano, dal quale la terribile malattia li escludeva, non pensarono di andare a ringraziare Gesù glorificando Dio. Questo era un atto d’ingratitudine del quale Gesù si lamentò, sia per far rimarcare a tutti la loro guarigione, sia per esortarli alla gratitudine nei benefici divini, facendo rilevare che questo dovere l’aveva sentito solo un Samaritano da essi sprezzato come eretico e scismatico.

La lebbra del peccato
Passando per la Samaria, Gesù volle fare un atto di delicata misericordia verso quel popolo disprezzato e, mostrando la gratitudine e la fede del Samaritano, volle mostrare che quel popolo non era inferiore, anzi poteva dirsi in quel momento superiore a quello Giudeo. Egli così stroncava quel senso di disprezzo che aveva il popolo nell’attraversare la Samaria, impediva ogni recriminazione, e chiamava tutti, indirettamente, all’unità che Egli era venuto a stabilire in terra.
Gesù Cristo andava verso Gerusalemme per dare la sua vita per tutti e rendersi Egli come un lebbroso per amore; andava incontro ai peccatori, veri lebbrosi nell’anima, e volle, con un miracolo, manifestare in simbolo quello che gli ardeva nel Cuore. Egli avrebbe dato il Sangue per salvarci, ma non ci avrebbe applicato il prezzo della redenzione senza la mediazione sacerdotale.
È un’illusione tristissima pensare che solo perché Egli può salvarci senza mediatori, lo voglia. Istituendo il Sacerdozio, Egli ha detto a tutti gli uomini: Andate e mostratevi ai sacerdoti. Era logico, del resto, poiché, avendoci Egli salvati con la sua obbedienza fino alla morte di croce, ha voluto che avessimo usufruito della salvezza, obbedendo nell’umiliazione di tutti noi stessi ai piedi di un sacerdote, fino alla morte delle nostre miserie.

La gratitudine degli uomini
Il Signore si lamentò che dei dieci lebbrosi guariti uno solo fosse ritornato per ringraziarlo e dare lode a Dio, e volle insegnarci così che è un nostro imprescindibile dovere la gratitudine per i benefici che riceviamo dal Signore. L’atto della gratitudine è un riconoscimento della gloria di Dio, è una confessione della sua potenza, ed è un sentimento di abbandono filiale a Lui perché ci benedica come Padre amorosissimo.
Il Signore lo esige non tanto perché la nostra gratitudine possa essergli necessaria – benché la nostra lode accresca la sua gloria accidentale –, ma perché l’atto della gratitudine apre per noi nuove fonti di misericordie e di grazie. Gesù Cristo, infatti, benché il lebbroso Samaritano fosse già guarito, vedendolo prostrato ai suoi piedi, intenerito disse: Alzati, vattene, la tua fede ti ha salvato. Con queste parole volle indicare che nuove grazie scendevano su quell’anima e su quel corpo, e che la fede di lui, preziosissimo dono fra tutti i doni, veniva in lui fortificata con quella speciale misericordia.
Ogni volta che ringraziamo Dio, riceviamo dalla sua bontà un nuovo dono, e per questo i primi cristiani solevano salutarsi con queste dolci parole: Deo gratias. Ai pagani sembrarono parole stolte, perché erano più una conclusione che un saluto; eppure i primi cristiani si salutavano veramente, ringraziando Dio di essersi rivisti, e ringraziando di essere redenti da Gesù Cristo.

Noi, gl’ingrati!
Bisogna confessare che noi siamo ingrati al Signore, pur vivendo in mezzo ai suoi continui doni spirituali e corporali. Noi non possiamo ponderarli, tanto essi sono innumerevoli. Se riflettessimo solo ai principali, cioè alla vita dell’anima e a quella del corpo, ai pericoli dai quali siamo liberati, alle bellezze soprannaturali e naturali che ci circondano, dovremmo vivere con la faccia prostrata nella polvere, pieni di riconoscenza. Invece non solo siamo ingrati, ma ci lamentiamo proprio dei doni più belli di Dio: della vita, delle purificazioni della vita per le croci, e di tutte le delicatezze amorose con le quali Egli ci libera dal male e ci orienta all’eternità.

Abbiamo a nostra disposizione il sacramento della Penitenza, dove la nostra lebbra spirituale viene mondata e non solo non ringraziamo Dio, ma tante volte lo riguardiamo come un peso. Abbiamo l’Eucaristia, Dono dei doni, e viviamo tanto freddamente innanzi al tabernacolo, da mostrarcene annoiati. Abbiamo mille ricchezze nella Chiesa e viviamo sempre poveri, sprezzando quasi la vita che da essa riceviamo, e attaccandoci miseramente alle vanità del mondo! Quanti dolori diamo a Gesù con la nostra ingratitudine!
don Dolindo Ruotolo

sabato 1 ottobre 2016

LA POTENZA DELLA FEDE

Commento al Vangelo della XXVII Domenica TO 2016 C (Lc17,5-10)

La potenza della fede
        Parlando degli scandali, Gesù Cristo alludeva principalmente ai farisei che allontanavano le anime dalla fede nel regno di Dio e, parlando del perdono, evitava negli apostoli un risentimento inesorabile contro di loro. Egli voleva che aborrissero dal male ma non che si isolassero in loro stessi quasi fossero un partito o una setta. La Chiesa è universale anche quando discaccia gli erranti dal suo seno, perché li vuole salvi e perdona loro con generosità.
        Gli apostoli capirono che Gesù li premuniva contro gli scandali che li scuotevano nella fede e, riscontrando in loro effettivamente una diminuzione di fede, lo pregarono di accrescerla nei loro cuori. Tra gli scandali, infatti, il più spaventoso è quello che scalza dall’anima la fede; è un vero assassinio interiore, poiché un’anima senza la fede è oscurata, è confusa, è disperata, è morta.
        A volte una sola parola stolta o sprezzante può gettare l’anima nel dubbio, e un dubbio positivo e volontario sulle verità eterne è già la perdita della fede.
        Anche un sogghigno può disorientare un’anima dalla verità e può produrre in lei una grande rovina. Se si ponderasse la natura di questa rovina non si sarebbe così facili a riportare gli errori dei perversi né si oserebbe fare una stupidissima ed insulsa propaganda contro tutto quello che è soprannaturale, con la scusa di precisione critica e storica. Anche se si avesse ragione per farla, non si dovrebbero gettare nell’anima dei piccoli quei dubbi che essi poi allargano a tutta l’universalità della fede, naufragando miseramente nei gorghi dell’errore e perdendo la grazia di Dio.
        La fede è un tesoro immensamente prezioso per l’anima e per la medesima vita presente, poiché è faro di luce e consolazione immensa nelle sue angustie; bisogna, dunque, custodirla gelosamente nel proprio cuore e in quello degli altri.
        Gli apostoli, domandando l’accrescimento della loro fede, desiderarono vedere compiute opere meravigliose per confusione dei farisei e probabilmente desiderarono compierle essi stessi. Per questo Gesù rispose che se ne avessero avuto quanto un granello di senapa, cioè anche poca, ma viva e capace di accrescersi, avrebbero potuto con un comando far trapiantare nel mare un albero di sicomoro.
        Col suo sguardo divino Gesù vide le opere grandi e miracolose che gli apostoli avrebbero fatto per la diffusione della fede nel mondo e, per prevenire in loro e nei loro successori qualunque atto di vanità o di presunzione soggiunse, col suo stile divinamente sintetico, che essi avrebbero un giorno lavorato molto, ma che non avrebbero avuto mai motivo di inorgoglirsi e dovevano riguardarsi come servi inutili, cioè non necessari a Dio, dato che i miracoli li avrebbe operati Lui con la sua onnipotenza.

I servi inutili
        È evidente dal contesto che gli apostoli avevano domandato l’accrescimento della fede anche per un senso subcosciente e remoto di vanità e che, desiderando confondere con i miracoli i farisei, si stimavano necessari per la difesa del Maestro contro le insidie dei suoi nemici. Perciò Gesù disse sotto il velo della parabola che essi erano come servi che arano il campo del padrone e pascolano il suo gregge e che quand’anche avessero fatto prodigi di apostolato, non avrebbero dovuto credere di potersene gloriare, ma avrebbero dovuto riguardarsi solo come serviinutili che, comandati, avevano fatto il loro dovere.
        Chi conosce quanto l’orgoglio si gonfia e quanto la misera natura prova facilmente vanità per un bene fatto, capisce tutta l’opportunità e la verità dell’avviso di Gesù. Nel credersi nulla, c’è un’immensa gioia interiore e il sentimento dell’umiltà tutela il bene che si fa, lo rifonde in Dio, lo feconda maggiormente con la sua grazia e lo moltiplica nelle anime. Le parole di Gesù sono state in tutti i secoli una difesa contro la vanità dei messaggeri della divina Parola. Chi compie l’apostolato, infatti, essendo strumento della grazia di Dio, può facilmente assistere ai prodigi della potenza e della misericordia divina e può anche attribuirli alla propria virtù o abilità.
        Il Signore, misericordiosamente, opera le cose grandi attraverso minimi mezzi e uomini inetti; ma anche quando è evidente il suo intervento nelle opere di bene, chi ne è strumento può sentire almeno la soddisfazione orgogliosa del lavoro fatto, ed affacciare pretese innanzi a Dio. La parola di Gesù lo richiama subito alla visione della realtà e, riconoscendo di aver compiuto solo il proprio dovere e d’essere servo inutile per averlo compiuto imperfettamente, si umilia, si annienta, fa appello alla divina misericordia, e rende così possibile l’accrescimento del bene.
        Chi ha un po’ di esperienza di apostolato vero, sa quanto è letale per esso l’orgogliosa soddisfazione, e sa che essa è il segno sicuro di non avervi prodotto veri frutti di vita eterna.
         È necessario, dunque, mettervi come base l’umiltà e cercarvi non la propria soddisfazione ma la gloria d i Dio e il vero bene delle anime.

Servo inutile Don Dolindo Ruotolo