sabato 29 dicembre 2012

Gesù smarrito e ritrovato nel tempio


Commento al Vangelo I Domenica dopo Natale C 2012 (Lc 2,41-52)
Sacra Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

Gesù, smarrito e ritrovato nel tempio
        Ogni anno Maria si recava con san Giuseppe a Gerusalemme per la solennità della Pasqua, benché, essendo donna, non vi fosse obbligata; gli uomini dovevano andarci tre volte l’anno: nella Pasqua, nella Pentecoste e nella festa dei Tabernacoli; le donne ne erano dispensate, e solo le più pie vi si recavano nella Pasqua; i fanciulli, poi, contraevano questi obblighi legali all’età di dodici anni. Maria, andando a Gerusalemme, portava con sé anche Gesù, ma quando Egli giunse all’età legale, dovette farlo viaggiare nella comitiva degli uomini, com’era d’uso, e fu così che al ritorno non si accorse che Egli era rimasto a Gerusalemme. Crederono, tanto Lei che san Giuseppe che fosse in mezzo agli altri, e camminarono una giornata. Alla prima sosta, però, constatarono che mancava e lo cercarono inutilmente tra i parenti e i conoscenti. Col cuore estremamente angosciato, allora, ritornarono a Gerusalemme e, per ritornarvi, impiegarono un altro giorno; non sapendo come rintracciarlo, stettero un giorno intero a farne ricerche, e nessuno seppe dare loro indicazioni perché non lo conoscevano. Finalmente il terzo giorno andarono al tempio, forse per supplicare Dio di farlo ritrovare loro e, attraversando le sale annesse all’edificio sacro, dove i rabbini si radunavano per insegnare la Legge, riconobbero la voce dell’amatissimo Figlio che in mezzo ai dottori stava seduto come un discepolo, ascoltandoli e proponendo loro varie questioni.
        È impossibile formarsi un’idea del dolore di Maria e di Giuseppe nello smarrimento di Gesù; bisognerebbe poter misurare l’amore che gli portavano. Erano angosciati, agonizzavano, temevano di aver provocato essi quell’allontanamento per la loro indegnità, trepidavano per la sua incolumità, gemevano nella maniera più straziante.
        Gesù era tutta la loro vita, e l’anima loro era straziata senza di Lui. Che cosa furono quei giorni di ricerche! Non persero la pace, perché erano santissimi; ma persero, potrebbe dirsi, il cuore, perché se lo sentivano straziato. Gesù Cristo conosceva il loro strazio, ma permise quella terribile prova per santificarli di più e per esempio di tutti. Il suo Cuore divino ne soffriva più di loro ma, nel momento nel quale Egli iniziava la sua vita legale, per compiere la sua opera, era necessaria una grande immolazione d’amore che rendesse l’uomo degno di accogliere il suo amore.
        La spaventosa indifferenza delle creature per ciò che appartiene a Dio, e l’agitazione del mondo nelle miserie delle sue stupide attività, tutte orientate alla materia, esigevano quell’agonia di due anime tese solo a Dio e viventi solo per Dio. La terribile resistenza che fanno tanti cuori alle chiamate di Dio, preferendo i loro disegni alla sua volontà, esigeva il sacrificio che Gesù faceva del suo amore a Maria e a Giuseppe, come riparazione e come preparazione ad accogliere il disegno della divina volontà. Egli doveva affermare il diritto di Dio sulla gioventù, speranza della vita delle nazioni, doveva distruggere d’un colpo le pretese delle tirannidi sui cuori che appartengono solo a Dio, doveva dare una luce che non doveva spegnersi più, sull’educazione dei figli e sulla loro vocazione, ed ebbe bisogno di un grande dolore per affondare nel duro cuore dell’umanità questa semente di vita. Se avesse prevenuto Maria e Giuseppe delle sue intenzioni, non avrebbe conseguito l’altissimo scopo che voleva conseguire; fece, dunque, forza al suo Cuore, si appartò, ritornò al tempio, e schiuse la sua mente agli insegnamenti della Legge, per insegnare ai giovani ad aprire la loro vita a Dio, e a seguire, senza riguardi umani, le ispirazioni particolari della divina volontà su di loro.
        A dodici anni Gesù era ben sviluppato, a giudicare dalla statura che raggiunse nell’età matura. Era di forme perfettissime, bellissimo, splendente, affascinante. La sua chioma intensa, come quella dei Nazirei, gli scendeva sulle spalle, e incorniciava il volto come in un’aureola di gloria. I suoi bellissimi occhi rivelavano il mistero divino che in Lui si nascondeva, avevano un’espressione arcana e una luce ineffabile; penetravano, per così dire, i cuori. Entrò nella sala dov’erano i dottori e sedette, ascoltandoli. Il suo Cuore si saziava della divina Parola, e ardeva per la gloria del Padre. Attrasse subito l’attenzione di tutti, poiché, interrogato, diede risposte profondissime e fece domande che stupirono tutta l’assemblea. Di che cosa parlò? Il Sacro Testo non ce lo dice, ma si può supporre che parlasse della pienezza dei tempi e del Messia, e parlasse del suo Padre celeste, come potrebbe rilevarsi dalla risposta che diede a Maria. Parlò di Dio, e per la prima volta sulla terra echeggiò una parola divinamente luminosa fra tante tenebre che gravavano sugli uomini.
        Maria e Giuseppe entrarono nel sacro recinto, e furono stupiti che Gesù si fosse manifestato così al pubblico. Il suo amore al nascondimento era così profondo che non lo credevano possibile. Forse si stupirono che fra tanto loro dolore Egli si fosse mostrato insensibile, sapendo quanto era affettuoso e amabile. Maria non poté frenare il suo amore materno; corse là dove stava il Figlio, lo interruppe nel suo discorso ed esclamò: Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, andavamo in cerca di te.
        Tutto il suo dolore era espresso in queste poche parole: lo chiamò figlio, e con questo disse che lo cercava da madre, e da Madre divina; gli domandò perché aveva fatto quella cosa, e con questo manifestò tutte le trepidazioni angosciose del suo Cuore e di quello di san Giuseppe; espresse la pena immensa con la quale l’aveva rintracciato, e con questo espresse l’amore che aveva reso un’agonia il suo materno affanno e quello di san Giuseppe.
        Gesù Cristo non rispose duramente, come potrebbe apparire dal Testo; noi, abituati ad adirarci quando siamo contraddetti e leggendo l’episodio con passionalità, possiamo facilmente essere indotti a dare un senso di durezza alla risposta di Gesù; Egli, invece, rispose con immensa dolcezza, e con infinita compassione al loro dolore: Perché mi cercavate? Non sapevate che io debbo occuparmi di ciò che riguarda il Padre mio? Se avessero riflettuto all’amore che portava loro e alla missione che aveva, non avrebbero dubitato del suo affetto, ed avrebbero capito che si era trattenuto al tempio. Egli voleva dire: come potevo trascurarvi, e come potevo non tener conto del vostro dolore? Ma lo sapete che io sono Figlio di Dio, e potevate supporre che io fossi attratto dalla Casa del Padre mio e dagl’interessi della sua gloria.
        Il Sacro Testo soggiunge che essi non compresero quello che aveva detto loro, non perché non fossero in grado di capire le sue parole, ma perché l’emozione e l’amore li concentravano in Lui solo. Era così bello nel sacro recinto, così fulgente d’amore nelle sue parole, così profondo nelle sue risposte che essi rimasero come incantati, e non rifletterono alle sue parole. Tardava loro solo il momento di averlo di nuovo, e per questo il Testo soggiunse: Se ne andò, quindi, con loro, e fece ritorno a Nazaret, ed era loro sottomesso. Non fecero attenzione alle sue parole, dunque, perché lo invitarono a non lasciarli più soli; ed Egli, infatti, immediatamente obbedì.
        Se avesse risposto per rimproverarli non li avrebbe seguiti, e avrebbe continuato a parlare, invece tacque all’istante; la voce materna era per Lui un comando e doveva esserlo sempre; per questo Maria, passando dall’impeto del suo amore ad un sentimento di profondissima umiltà, meditava nel suo Cuore quello che si era svolto, e il mistero dell’amore che Egli le portava. Egli le obbediva, Egli il Figlio vero del Padre! La sua Maestà divina si piegava innanzi alla sua Parola! Tutt’altro che mostrare noncuranza o trattarla male, come dicono i protestanti, Egli lasciava di occuparsi del Padre suo divino per occuparsi della Madre, e mostrava che l’amava d’uno stesso amore, e che per Lui il consentire a ciò che Lei voleva era lo stesso che glorificare Dio suo Padre.
        Ritiratosi a Nazaret, Gesù vi rimase nascosto fino a che non cominciò la sua vita pubblica. Che cosa faceva nel suo arcano nascondimento? Evidentemente si occupava delle cose del Padre suo, cioè della sua gloria, e se ne occupava umiliandosi, obbedendo e lavorando. Il Sacro Testo dice che Egli cresceva in sapienza, in statura e in grazia presso Dio e gli uomini, e da queste poche parole si può intuire qualche cosa del mistero di quella vita divina: cresceva in sapienza non perché studiasse, ma perché manifestava sempre più gli arcani della sua scienza beata e infusa, e meditava con la scienza acquisita, cioè con l’energia della sua anima umana, le divine meraviglie, parlandone con la Madre, con san Giuseppe e con altre persone familiari. Era logico che facesse così, perché Egli voleva innalzare e nobilitare in sé la natura umana, e non c’è cosa più nobile quanto il meditare le meraviglie celesti.
         Cresceva in statura perché l’età si avanzava, ed Egli, essendo veramente anche uomo, lo mostrava in tutta la sua vita. Aveva però, nella sua statura, cioè nel suo aspetto fisico attrattive mirabili che colpivano quanti lo vedevano, e quindi cresceva in queste attrattive come cresce il sole a misura che sale sull’orizzonte. Cresceva in grazia non secondo l’abito che era in Lui perfetto e immutabile, ma secondo gli effetti, compiendo sempre più opere mirabili che ne manifestavano la pienezza. Presso Dio la sua vita era un’offerta sempre più grande, presso gli uomini era una manifestazione sempre più bella; a Dio donava gli atti della vita che progrediva e, seguendo lo sviluppo naturale, cresceva in questi doni d’amore; agli uomini dava lo spettacolo di una grandezza sempre più attraente per la sua bontà e soavità.Commento al Vangelo I Domenica dopo Natale C 2012 (Lc 2,41-52)
Sacra Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Don Dolindo Ruotolo

giovedì 20 dicembre 2012

IL SALUTO DI MARIA


Commento al Vangelo – IV Domenica di Avvento C 2012 (Lc 1,39-45)
Il saluto di Maria
       Maria giunse presto in casa di Zaccaria e salutò Elisabetta, dice il Sacro Testo. Non salutò il consorte di lei o per delicatezza, sapendolo muto e non volendolo mortificare parlando, o perché sapeva che era momentaneamente assente. Salutò con le parole allora più in uso. La pace sia con te, o con altra simile espressione e, al suono della sua voce, il bambino di Elisabetta trasalì di gioia nel seno di lei, ed ella fu ripiena di Spirito Santo.
       La voce benedetta di Maria era come la voce stessa del Verbo Incarnato in Lei, perché Egli ne possedeva e ne elevava tutta la vita; era voce santa e santificante che operò quello che diceva come augurio di pace e, operandolo nello stesso tempo, santificò il Battista nel seno materno, e ne santificò la madre, riempiendola di Spirito Santo.
       Elisabetta vide Maria nello splendore della sua sovrumana bellezza e ne rimase profondamente colpita. Il cammino, fatto sollecitamente, le aveva anche fisicamente ravvivato il colore del volto: l’espansione con la quale le si rivolse aveva fatto come affiorare tutta l’anima sua nelle linee del corpo purissimo; era come un’opera d’arte mirabile, un misto di semplicità e di maestà grande, un insieme di umiltà e di gloria, un’armonia di gioia profonda e di compostezza imperturbabile; era bellissima come non lo fu mai nessuna creatura, e rapiva perché spirava santità e pace da ogni movimento e da ogni parola.
       Era ancora fanciulla: aveva poco più di quindici anni e, benché fosse già sviluppata, portava nella sua persona la casta e affascinante ingenuità propria dell’adolescenza. Era come un fiore aperto alla vita e, perché aperto per virtù dello Spirito Santo, conservava intatto quel candido fulgore d’integrità che è proprio delle vergini. Sembrava un angelo del Paradiso, più di un angelo, fulgente nei raggi della divinità che in Lei riposava, e diffondeva intorno una soavissima unzione di grazia che saziava lo spirito e lo inebriava d’amore verso di Dio. La sua voce non era voce di creatura umana: aveva qualcosa di misterioso, penetrava il cuore come grazia, e lo pacificava con una grande soavità; era come una melodia sommamente espressiva, tratta da uno strumento dolcissimo.

Il saluto di santa Elisabetta

       Santa Elisabetta, perciò, al vederla così grande e così bella, esclamò per ispirazione interna dello Spirito Santo: Benedetta sei tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno. L’abbracciò, la strinse al cuore quasi con effusione materna, perché ella era già avanzata di età; ma, nello stringerla, sentì in lei qualcosa di divino, capì per grazia il mistero della sua Maternità divina, sentì che abbracciava la Regina del cielo e soggiunse: E da dove viene a me questa grazia che la Madre del mio Signore, cioè del mio Dio fatto uomo per la salvezza di tutti, venga a me?
         Con queste ispirate parole fu come scolpita per i secoli la testimonianza della divina Maternità di Maria e della sua ineffabile grandezza. Ella non è indifferente ai salvati dal Redentore: lo porta loro, lo dona, effonde la sua grazia e la sua misericordia, dona la sua gioia, santifica in suo nome, ed è inseparabile da Lui nell’opera della salvezza.
       Se fosse stata solo un canale per il quale passò il Redentore – come dicono stoltamente i poveri protestanti –, Elisabetta, ripiena dello Spirito Santo, si sarebbe rivolta non a Lei ma al Figlio divino che le stava nel seno; ella, invece, la esaltò benedetta fra le donne, e chiamò Frutto suo il Redentore, Frutto della sua pianta purissima che, evidentemente, Ella sola poteva dare. La pianta non è un semplice canale del frutto, lo genera, lo nutre, lo matura e lo dona; bisogna andare dalla pianta per averlo e, senza la pianta, è impossibile coglierlo.
       Elisabetta vide in Maria tutto quello splendore di vita, e lo paragonò inconsciamente all’umiliante abbattimento nel quale il suo sposo, muto e sordo era venuto da lei dopo la visione dell’angelo, capì che la fede nella parola dell’angelo aveva realizzato in lei il grande mistero, come l’incredulità del marito gli aveva causato la mutezza e la sordità. Psicologicamente quell’infermità del marito le era stata motivo di non pochi fastidi nel governo della casa, e quindi esclamò: Te beata che hai creduto poiché si adempiranno le cose dette a te dal Signore.
Il cantico sublime di Maria
       Maria, a quelle parole di lode, sentì l’anima sua tutta tratta in Dio; l’umiltà le dava il senso della sua nullità innanzi a Lui; la riconoscenza le faceva attribuire tutto alla sua infinita misericordia; la luce divina che la illuminava le faceva guardare i suoi disegni su di Lei e i trionfi delle sue misericordie nei secoli, fino alla fine del mondo; perciò, elevando gli occhi al cielo, esclamò: L’anima mia magnifica il Signore.
       Mai uscì da labbro umano un cantico più sublime di gioia; mai un cuore si aprì a Dio con tanto riconoscente amore; mai l’umiltà più profonda fu armonizzata così mirabilmente con la verità, in modo da formare una melodia di annientamento e di grandezza, di piccolezza e d’immensità, di bontà e di forza che affascina l’anima e la unisce alla gioia e ai sentimenti di Maria.
       Le reminiscenze scritturali del cantico di Anna, dei salmi e dei profeti che si trovano nel sublimissimo cantico non mostrano solo la familiarità di Maria con le Sacre Scritture, ma sono come la luce delle profezie e delle figure passate che s’incontrano con la realtà e col compimento delle promesse di Dio e, lungi dall’offuscare l’originalità del canto, lo rendono nella sua concisa semplicità più splendente e più bello. Esso è come il fiore di tutto l’antico patto ed è la gemma feconda del nuovo; è il compimento delle antiche speranze e la speranza nelle nuove misericordie; è la sintesi delle compiute aspirazioni del passato, è un rapido sguardo alla storia del futuro, fino al compimento dei secoli, è il programma della vita di un’anima redenta e la sintesi delle sue elevazioni d’amore; è, infine, lo sprazzo fulgente della vita del Verbo Incarnato e della medesima Madre che lo portava nel seno. In tutta la storia del regno di Dio è una voce sempre viva, in tutto lo sviluppo della Chiesa è un programma sempre attuale, in tutte le ascensioni dei santi, è una voce sempre armoniosa che può raccogliere in un suono d’amore le mirabili armonie della grazia in loro; è un cantico fecondo e verginale, come il Cuore dal quale sgorgò ricco di significati e semplice nella sua espressione che la Chiesa canta e ricanta ogni giorno, senza che esso esaurisca la sua gioiosa e fresca scaturigine, è il canto dei pellegrini che vanno verso la Patria eterna, degli apostoli che percorrono la terra diffondendo il lieto messaggio, dei martiri che attestano la verità col loro sangue, dei confessori che la propagano, delle vergini che la vivono, dei contemplativi che la gustano, degli angeli che la esaltano, delle creature tutte nelle quali ha echi d’amore, ed è nota squillante del cantico eterno nell’eterna gloria.
       Se si recita, è una preghiera soave; se si canta è un inno trionfante che lancia lo spirito esultante in Dio; se si medita è come orto fiorito, ricco di profumi celesti. Ha un sapore sempre nuovo, un fascino sempre vivo, una delicatezza sempre verginale che i secoli non hanno potuto mai invecchiare, perché è un cantico di vita. Che gioia, o Vergine Santa, ricevere la grazia, ricevere Gesù e poter cantare con te: Magnificat anima mea Dominum! Che pace trovarsi sul Calvario della prova e poter ripetere con te, anche lacrimando, nella piena rassegnazione del cuore: Magnificat anima mea Dominum! Che dolcezza interiore elevarsi a Dio, sprezzando le gioie del mondo, e ripetere nel volo dell’anima al Bene eterno: Magnificat anima mea Dominum! Che poesia d’amore recitare con la Chiesa le grandi preghiere liturgiche, sentirsi sazi di elevazioni interiori, e volgere tutta l’anima a Dio in questo canto dell’anima tua, o Maria: Magnificat anima mea Dominum! Che conforto nelle aridità dello spirito, quando la povera nostra fontana si è come essiccata e non dà una goccia, ravvivare la scaturigine del cuore con questo tuo canto, e dare la vita alla povera terra inaridita: Magnificat anima mea Dominum!
       Anche a costo di dilungarci, noi non possiamo passare oltre senza dare almeno uno sguardo fugace a questi aspetti luminosi del cantico di Maria, e a dilettarci nella molteplice rifrazione di questa gemma preziosissima del Nuovo Patto.
       Non possiamo non commentare il profondo significato di questo canto d’amore che c’è stato donato per cantare a Dio la riconoscenza del nostro amore, perché uniti alla voce verginale della Mamma nostra, possiamo essere meno ingrati all’Amore che per noi discese dal cielo, e per amore ci redense col suo preziosissimo Sangue.
         San Zaccaria non credé all’angelo e rimase muto e sordo fino al compimento della promessa; Maria credé e parlò, anzi cantò con una melodia che abbracciò tutti i secoli. Noi, figli suoi, cantando con Lei viviamo della sua grande fede, partecipiamo alla beatitudine del suo Cuore: Beata quae credidisti, e ci rendiamo meno inetti al compimento dei disegni di Dio in noi. 
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 15 dicembre 2012

MAESTRO, CHE COSA DOBBIAMO FARE?


Commento al Vangelo III Domenica di Avvento C 2012 (Lc 3,10-18)

Maestro, che cosa dobbiamo fare?


San Luca ci dà qualche esempio sintetico della predicazione di san Giovanni a varie categorie di persone, per mostrare il fascino che esercitava su tutte le classi. Le turbe, ascoltando le parole di minaccia rivolte ai farisei e ai sadducei, furono atterrite del giudizio di Dio, e domandarono ansiosamente che cosa dovessero fare per evitarlo.
       La parola del Precursore, infatti, vivificata dalla grazia, aveva una potenza che penetrava il fondo del cuore. Egli rispose loro, esortandoli alla carità con due opere di misericordia corporale: vestire i nudi e dar da mangiare agli affamati.
       Era come un’anticipazione della grande legge della carità, la quale, per divina clemenza, copre la moltitudine dei peccati. I farisei smungevano il popolo angariandolo, e con questo allontanavano da loro la misericordia di Dio; ora, la via per meritarla era perfettamente l’opposto: vestire e non spogliare la gente, alimentarla e non affamarla.
       L’appello alla carità rendeva pensosi i pubblicani, perché essi, quali esattori fiscali, non potevano fare a meno di esigere le imposte; domandarono pertanto come dovessero regolarsi, e Giovanni disse loro di non richiedere più di quello che era fissato dalla Legge. Gli esattori, infatti, erano abituati alle più esose sopraffazioni, rubavano con destrezza come potevano e si rendevano incapaci del regno di Dio.
       I pubblicani erano assistiti nelle loro funzioni dalla forza pubblica e, parlando ai soldati, suscitarono in loro il desiderio di migliorarsi; andarono pertanto anch’essi da Giovanni, e gli domandarono come dovessero regolarsi nelle loro funzioni; egli rispose che dovevano star attenti a non far ingiusta violenza a nessuno, a non calunniare e a contentarsi della paga che ricevevano. Probabilmente si trovavano tra le turbe anche i soldati mandati da Erode o a spiare quello che diceva il Battista, o per ordine pubblico, data la ressa che faceva il popolo.

Giovanni rende testimonianza a Gesù
       La vita del Battista rappresentava per il popolo un prodigio e, benché egli non facesse mai alcun miracolo, molti pensarono che fosse il Cristo, l’atteso Redentore.
       Questo sospetto, lungi dal rappresentare una lusinga per Giovanni, fu per lui una pena, e perciò si affrettò con tutte le sue forze a dissipare l’equivoco, stabilendo nei termini precisi la verità.
       Egli battezzava con l’acqua, cioè con un semplice simbolo di penitenza e di umiliazione, mentre il Redentore, più forte di lui perché Dio e al quale si dichiarava indegno di sciogliere i legacci dei calzari, avrebbe battezzato effondendo la grazia dello Spirito Santo e il fuoco dell’amore; il suo battesimo sarebbe stato, perciò, una vera rigenerazione.
         Egli minacciava magari i castighi di Dio, ma non aveva alcun potere sulle anime, il Redentore, invece, avrebbe avuto il ventilabro nella sua mano, cioè sarebbe stato giudice delle anime, avrebbe purificato il suo popolo, e avrebbe salvato i giusti e condannato i reprobi come inutile paglia, nel fuoco eterno dell’Inferno. Non si poteva dunque scambiare il simbolo per la Realtà né il servo per il padrone.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

venerdì 14 dicembre 2012

La predicazione di Giovanni Battista


Commento al Vangelo – II Domenica di Avvento C 2012 (Lc 3,1-6)
La predicazione di Giovanni Battista
         
San Luca, da storico accurato qual è, prima di parlare dell’apostolato di san Giovanni Battista, accenna alla situazione politica della Palestina, cioè a quelli che la governavano e ai sommi sacerdoti che la reggevano nella parte religiosa. Non è a caso che lo Spirito Santo glielo fa fare, perché i governanti stranieri e il sommo sacerdozio, assoggettato alla politica e decaduto fino al punto da essere dominato da principi pagani e da essere esautorato a loro piacere, dimostravano la pienezza dei tempi predetti per la venuta del Messia, ossia la completa rovina del regno di Giuda.
       Tiberio Cesare, figlio di Livia Drusilla e di Tiberio Claudio Nerone, adottato come figlio dall’imperatore Augusto dopo che questi sposò Livia, sua madre, fu prima associato al governo dell’impero e preposto all’amministra-zione delle province e poi, alla morte di Augusto, gli successe e fu imperatore dal 767 al 791 di Roma. San Luca computa gli anni dell’impero di Tiberio non dalla morte di Augusto, ma dalla sua prima assunzione al governo nel 764-765 di Roma; Gesù Cristo, essendo nato nel 748-749 di Roma, nel quindicesimo anno del governo di Tiberio, aveva circa trent’anni, come dice san Luca al versetto 23.
       Il governo della Palestina era così costituito: la Giudea, annessa alla provincia della Siria dopo la deposizione e l’esilio di Archelao, era retta da governatori dipendenti dal preside della provincia. Il primo governatore fu Coponio, il quinto fu Ponzio Pilato, il quale governò dal 26 di Gesù Cristo fino al 36-37. Alla morte di Erode, detto il Grande, il suo regno fu diviso in quattro parti, ciascuna delle quali fu detta tetrarchia, cioè governo di quattro persone. La Giudea, la Samaria e l’Idumea toccarono ad Archelao, il quale fu poi deposto, come si è detto, e la Galilea e la Perea toccarono ad Erode Antipa, il quale regnò dall’anno IV prima di Gesù Cristo, fino all’anno 39-40 di Gesù Cristo. Filippo, figlio di Erode, il grande, ebbe in eredità dal padre l’Iturea che comprendeva la Bitinia, la Traconitide, l’Auranitide ecc., e sposò Salomè, figlia di Erodiade, moglie di un altro suo fratello, per parte di padre, chiamato anch’esso Filippo Erode, colui al quale Erode Antipa tolse la moglie. Filippo Erode fu diseredato dal padre e visse da privato. La moglie Erodiade, ambiziosissima, si fece sedurre da Erode Antipa e lo seguì sul regno, diventandone moglie adultera e incestuosa; Filippo il tetrarca, poi, governò con una certa equità, e fu colui che edificò Cesarea di Filippo ai piedi dell’Ermon, e Betsaida Giulia sulla spiaggia nord del lago di Tiberiade.
       L’Abilene, regione situata tra il Libano e l’Ermon a nord-ovest di Damasco, era governata da un certo Lisania, del quale non si conoscono fatti particolari. Un’iscrizione, trovata recentemente ad Abila, capitale della regione, conferma ciò che dice san Luca, indicando chiaramente che al tempo di Tiberio vi era un tetrarca di nome Lisania.
       Per ciò che riguardava la religione, il Sacro Testo dice che a capo del Giudaismo vi erano i pontefici Anna e Caifa. Il pontefice presso gli Ebrei era uno solo e a vita; ma i Romani non tollerarono questa legge e praticamente vollero un pontefice che dipendesse dalla loro autorità, tanto per la nomina quanto per la durata del pontificato. Anna aveva ottenuto il supremo potere religioso dal preside della Siria, Cirino, nell’anno 7 di Gesù Cristo, ma ne fu deposto nel 14 da Valerio Grato. Egli, però, benché deposto, continuò ad avere una grande autorità, ed era riguardato come pontefice insieme a Caifa, suo genero, nominato nell’anno 18 e rimasto pontefice fino al 36 di Gesù Cristo.

La predicazione di Giovanni Battista
       Questa, dunque, era la posizione religiosa e politica della Palestina quando la voce di Dio si fece sentire con una particolare rivelazione a san Giovanni, figlio di Zaccaria che abitava nel deserto di Giuda, conducendovi una vita di penitenza e di preghiere.
       Il Signore gli parlò nell’interno del cuore, lo spinse con la sua grazia ad affrontare animosamente il popolo, e diede efficacia alle sue parole per conquiderlo. Da circa 400 anni non si vedeva un profeta in Israele e l’improvvisa comparsa di Giovanni, appena vestito di un ruvido manto di peli di cammello, e di una cintura di cuoio, fece un’impressione profondissima.
       La sua voce sembrava un grido d’oltretomba, la sua vita ricordava le antiche glorie della patriarcale santità, il suo zelo e il suo coraggio emulavano quello di Elia contro gli empi e contro i principi scellerati del popolo, ed egli era come un essere trasumanato che s’imponeva con la sola sua presenza. La grazia di Dio, poi, soprattutto la grazia di Dio, gli dava un tono penetrante di autorità che conquideva i cuori e paralizzava, per così dire, gli empi e i potenti che avrebbero potuto impedire il suo apostolato. Nessuno gli si opponeva anche quando lo subiva a malincuore e avrebbe voluto eliminarlo.
       È questo il carattere delle grandi manifestazioni divine sulla terra, poiché, quando Dio vuole, si fa sentire attraverso quelli che elegge, e agisce da padrone.
       Giovanni andò per tutta la regione del Giordano, dove poteva trovare acque abbondanti, e predicò la penitenza, iniziandovi quelli che gli credevano, con un battesimo, cioè con una lavanda, simbolo e spinta alla purificazione interna, l’unica che poteva preparare il cuore alla venuta del Redentore. Ricevere l’acqua dalle sue mani era lo stesso che confessarsi peccatori e farlo con compunzione interna; l’acqua così versata era un’umiliazione salutare e, versata annunciando il Redentore, rinnovava la speranza della sua venuta e risultava salutare per la remissione dei peccati.
       Giovanni trovò le anime come uno squallido deserto senza strade, incapaci di far passare per loro, trionfante dei peccati, il Redentore.
       Come in un deserto ci sono le valli che interrompono il cammino, i monti e i colli che l’ostacolano, e le vie tortuose e scabre che lo ritardano; così, nelle anime, c’erano abissi di miserie morali ostacoli di orgoglio e di tracotanza, e mancanza completa di quella rettitudine di cuore che è la prima condizione per accogliere il Signore.
       San Giovanni, col suo battesimo di penitenza e con la sua vita severa, era come voce che gridava in questo deserto morale, eliminando le miserie, umiliando l’orgoglio, rinnovando la speranza della salvezza, e rettificando le intenzioni e le aspirazioni del cuore; egli, quindi, compiva nelle anime, deserte di grazie e di virtù, il vaticinio di Isaia (40,4-5) che il Sacro Testo cita a senso dalla versione dei Settanta.
       Le turbe correvano numerose sulle rive del Giordano, animate da un desiderio di rinnovazione e di redenzione. Vi andavano di tutte le classi sociali e desideravano sapere che cosa dovevano fare per affrettare le vie di Dio. Sentivano inconsciamente che qualche cosa di grande stava per accadere, speravano di sottrarsi al dominio straniero che li tiranneggiava, auspicavano un nuovo periodo di gloria per la nazione, e correvano da Giovanni come da una nuova luce di speranza.
       Quelli che vi andavano con peggiori disposizioni erano gli orgogliosi farisei, desiderosi solo della propria gloria, malvagi nelle loro intenzioni, velenosi nelle loro critiche; vi andavano per non sembrare meno giusti degli altri, e per sorvegliare l’opera del Battista.
       Erano orgogliosi, e credevano di non aver bisogno di penitenza; osservavano il movimento ma non vi partecipavano, perché si credevano veri figli di Abramo, e stimavano che bastasse loro questa gloria.
       Ad essi e ai sadducei che si univano a loro (cf Mt 3,7) – gente agghiacciata dalla miscredenza o dall’indifferenza –, Giovanni rivolse parole severe per scuoterli, parole alle quali non osavano reagire; li chiamò razza di vipere per la loro subdola e velenosa malignità, e domandò loro: Chi vi ha insegnato a sfuggire l’ira che vi sovrasta? Cioè, voleva dire: “Chi vi ha mai assicurato che la vostra falsa giustizia o i vostri errori vi giustificheranno innanzi a Dio e vi faranno fuggire al castigo che meritate? Su quali dati sicuri fondate la persuasione di essere giusti e di non essere compresi nelle minacce che io faccio al popolo? Non vi basta venire: è necessario fare degni frutti di penitenza! Che vi giova essere figli di Abramo? Che vi giova discendere da lui e far parte del popolo eletto, quasi che la semplice discendenza da lui potesse darvi diritto alla grazia? Dio non ha necessità di effondere le sue misericordie in voi per avere un popolo fedele, perché Egli può suscitare anche dalle pietre, cioè dai pagani, i figli veri di Abramo, la sua discendenza spirituale, capace di accogliere e di far fruttificare la redenzione. Ormai questa non è più un privilegio di razza, ma un dono di misericordia, e il Signore reciderà assolutamente, dal suo popolo nuovo, quelli che, come alberi infecondi, non portano frutto”.
       Il discorso di Giovanni, come si vede, era straordinariamente forte, e troncava di colpo tutte le illusioni di una falsa giustizia.
       Può sembrare dura, e magari mancante di carità, l’espressione: razza di vipere, ma i farisei e i sadducei, venuti sulla spianata dove Dio faceva miracoli di grazia, col fare subdolo e strisciante che li distingueva, davano veramente l’idea di vipere velenose che cercavano, con parole mordenti di scherno o di diffidenza, di arrestare lo slancio del popolo alla conversione.
       Giovanni non parlava certo per astio, ma per zelo, e dinanzi al popolo, che poteva subire il loro fascino e la loro influenza, usò un’espressione capace di smascherarli, e li umiliò perché avessero finalmente aperto gli occhi. Il pericolo nel quale erano e la rovina nella quale tentavano spingere il popolo allontanandolo dalle vie di Dio, giustificavano la severa invettiva sulle labbra di chi aveva proprio la missione di prepararle. Era come l’ultimo lampo della severità dell’Antico Patto, perché Giovanni era al limite dei due Testamenti, ed era anche un atto di misericordia per cuori orgogliosi e induriti che non erano capaci di parole blande, dato il loro atteggiamento tracotante e sprezzante.
       San Luca ci dà qualche esempio sintetico della predicazione di san Giovanni a varie categorie di persone, per mostrare il fascino che esercitava su tutte le classi. Le turbe, ascoltando le parole di minaccia rivolte ai farisei e ai sadducei, furono atterrite del giudizio di Dio, e domandarono ansiosamente che cosa dovessero fare per evitarlo.
       La parola del Precursore, infatti, vivificata dalla grazia, aveva una potenza che penetrava il fondo del cuore. Egli rispose loro, esortandoli alla carità con due opere di misericordia corporale: vestire i nudi e dar da mangiare agli affamati.
       Era come un’anticipazione della grande legge della carità, la quale, per divina clemenza, copre la moltitudine dei peccati. I farisei smungevano il popolo angariandolo, e con questo allontanavano da loro la misericordia di Dio; ora, la via per meritarla era perfettamente l’opposto: vestire e non spogliare la gente, alimentarla e non affamarla.
       L’appello alla carità rendeva pensosi i pubblicani, perché essi, quali esattori fiscali, non potevano fare a meno di esigere le imposte; domandarono pertanto come dovessero regolarsi, e Giovanni disse loro di non richiedere più di quello che era fissato dalla Legge. Gli esattori, infatti, erano abituati alle più esose sopraffazioni, rubavano con destrezza come potevano e si rendevano incapaci del regno di Dio.
         I pubblicani erano assistiti nelle loro funzioni dalla forza pubblica e, parlando ai soldati, suscitarono in loro il desiderio di migliorarsi; andarono pertanto anch’essi da Giovanni, e gli domandarono come dovessero regolarsi nelle loro funzioni; egli rispose che dovevano star attenti a non far ingiusta violenza a nessuno, a non calunniare e a contentarsi della paga che ricevevano. Probabilmente si trovavano tra le turbe anche i soldati mandati da Erode o a spiare quello che diceva il Battista, o per ordine pubblico, data la ressa che faceva il popolo.
Padre Dolindo Ruotolo

domenica 9 dicembre 2012

Quand'ecco giunse un angelo di Dio


I settimana di Avvento 2012
Solennità della Immacolata Concezione della B.V. Maria

Quand’ecco giunse un angelo di Dio

      
Quand’ecco una gran luce invase la stanzetta e la fece trasalire. In quella luce splendeva più fulgido un angelo di Dio.
       Maria non si turbò e non temette, perché era abituata alla compagnia degli angeli; ma si accorse che quel celeste messaggero non era come gli altri, in quel momento. Non aveva un aspetto di maestà, ma sembrava prostrato in riverente ossequio; rifulgeva di luce più grande, poiché portava il più grande messaggio che sia stato mai portato dal Cielo in terra; ma la sua grandezza era velata dall’umiltà.
       Sostò per un momento, si curvò e, ammirando il capolavoro di Dio, esclamò: Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te; benedetta tu fra le donne. E si fermò adorando Dio che l’aveva fatta così bella, poiché in Lei vedeva i riflessi più luminosi dell’infinita santità.
       Maria, l’umilissima Maria si sentiva salutata con parole grandi che per Lei erano incomprensibili; allora si turbò perché quelle parole non avevano eco nel suo Cuore, abituato ad impiccolirsi; erano come un linguaggio sconosciuto per Lei, e pensò che cosa potessero significare. Non sospettò che fossero un elogio, ma temette che fossero un rimprovero, un segno dello scontento di Dio. Si rileva chiaramente da ciò che l’angelo soggiunse: Non temere, perché hai trovato grazia innanzi a Dio.
       Si direbbe: è la psicologia delle anime veramente umili; esse si turbano negli elogi, perché sembrano loro un assurdo, e li riguardano come un traviamento del loro cuore, perché ad esse sembrano che manomettano la gloria di Dio.
       Maria non si turbò nella visione dell’angelo, come suppongono alcuni, ma nelle sue parole come dice esplicitamente il Sacro Testo – e, non sapendone intendere il significato, come chi ascolta una lingua sconosciuta, mostrò fino a qual punto giungeva la sua umiltà! Fu in quel momento di abbassamento interiore che l’angelo la preconizzò Madre di Dio: Ecco, concepirai nel tuo seno un figlio e lo chiamerai Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo. Il Signore gli darà la sede di Davide, suo padre, e regnerà in eterno nella casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà mai fine. L’angelo disse: Concepirai nel tuo seno e partorirai; dunque, doveva diventare veramente madre; doveva dare nome al suo Figlio Gesù, Salvatore; dunque si compivano i vaticini che annunciarono la salvezza d’Israele e del mondo; il Figlio sarebbe chiamato Figlio dell’Altissimo; e quindi Ella sarebbe stata la Madre di Dio. Avrebbe avuto il regno di Davide in eterno, il vero regno promesso al santo re, il regno della grazia e dell’amore che sarebbe durato in eterno.
       Maria rimase pensosa. Ella era sposata a san Giuseppe; aveva promesso a Dio il fiore verginale, e sapeva che l’aveva promesso anche Giuseppe; che cosa doveva fare? Desiderosa solo di compiere la divina volontà voleva sapere come doveva compierla. Maria, in quel momento, fece un atto di virtù più grande di quello di Abramo e, invece di mostrarsi pronta a immolare il proprio figlio, si mostrò pronta anche a rinunciare alla sua verginale integrità, se così a Dio fosse piaciuto. Non è esatto supporre e dire che Maria avrebbe rinunciato alla divina Maternità per non rinunciare alla verginità; questo non sembrerebbe consono alla piena sottomissione di Maria al volere di Dio. La Vergine espose solo la sua particolare condizione, e implicitamente quella di san Giuseppe: Ella non conosceva uomo e, dato il suo voto, non poteva conoscerlo se Dio l’avesse voluto, Ella aveva uno sposo vergine che per la sua consacrazione apparteneva a Dio solo; come sarebbe avvenuta la concezione? Ella non poteva rompere il legame che san Giuseppe aveva stretto con Dio, e domandava come sarebbe potuto avvenire il concepimento. Ma l’angelo subito la rassicurò; Ella avrebbe concepito per opera dello Spirito Santo, e la sua verginità, come quella di san Giuseppe, sarebbe rimasta integra.
       Le parole dell’angelo non furono una semplice affermazione, furono una gran luce, poiché egli parlava in nome di Dio. Nessuno può capire con quale amoroso rispetto un angelo pronuncia il Nome di Dio, dal quale tutto riceve e nel quale si bea. Gabriele, nel nominare lo Spirito Santo, rifulse d’amore, fruendo dell’eterno Amore e, nell’accennare alla virtù dell’Altissimo, mostrò nel suo volto il suo riverente timore per l’onnipotenza divina. Era fulgido d’amore e prono in adorazione talmente profonda, da far apprezzare l’infinita distanza che sussiste tra la potenza della creatura e quella del Creatore. Maria in quel momento contemplò la potenza di Dio e vi si abbandonò con un atto di fede illimitata. Non aveva bisogno di sapere altro, non aveva bisogno di scrutare, non volle pensare alle conseguenze esterne di una sua concezione miracolosa; curvò l’intelletto e credé, piegò la volontà e si donò, aprì il cuore e amò d’intenso amore Dio.
       L’angelo soggiunse che anche Elisabetta, benché sterile, aveva miracolosamente concepito un figlio, e stava già al sesto mese, perché niente era impossibile a Dio. Era questa la prova umana che dava alla ragione di Maria, perché Dio, nelle sue grandi opere e nelle sue rivelazioni, ha sempre un riguardo delicato per la ragione umana. La fede piena in Lui è in tal modo sostenuta, ed ha una maggiore facilità nel suo slancio. La luce, nella ragione, è come la spinta della catapulta all’aeroplano che deve spingersi al volo senza motore, e lo lancia d’un colpo nell’azzurro del cielo.

Fede e ragione

       Si crede prima e poi si ha la luce nella stessa ragione, poiché dall’altezza si può contemplare la valle e misurare l’altezza, mentre dalla valle non può contemplarsi l’orizzonte dell’altezza. È una cosa di grande importanza: non si va alla fede scrutando, ma si può scrutare quando si crede, per amare, contemplare e credere maggiormente.
       Gli sforzi della ragione umana precedenti la fede sono utili solo a spingerci a Dio, ricercando da Lui la fede; ma questa è luce trascendente e vivificante che non si trova nelle povere caverne della ragione, appena fosforescenti. È più bello illuminare la ragione col sole della fede che pretendere di far luce col lucignolo della ragione. Noi non ponderiamo quanto è meschina questa nostra ragione di fronte alla luce ineffabile di Dio; per questo le diamo tanta importanza. I santi semplici che si sono abbandonati alla luce di Dio, hanno avuto sempre una ragione illuminata immensamente più di quella dei grandi pensatori della nostra povera terra.

Maria credé: «Ecco la serva del Signore…»

       Maria credé al grande mistero che le si annunciò e credé all’effusione dello Spirito Santo in Lei. Curvò la fronte con immensa umiltà, aprì il cuore con piena dedizione, e pronunciò quelle ammirabili parole che dovevano far compiere il grande mistero dell’Incarnazione del Verbo: Ecco la serva del Signore, sia fatto di me secondo la tua parola. Fu un momento solenne che la povera penna non sa rendere; fu il momento delle nozze d’una creatura con l’eterno Amore, e della discesa del Verbo nel suo immacolato seno. Si direbbe che questa discesa d’amore fu come l’immenso peso che fece traboccare la bilancia della misericordia, e sollevò Maria fin là dove il Verbo era disceso, fino alle altezze eterne. Maria si raccolse in silenzio, s’inabissò in Dio, si donò a Lui interamente, umiliandosi fino alla polvere del proprio nulla. Sparì quasi in questo atto di profondissima umiltà, e pregò ardentemente. Avvertì una grande pace, e sentì rifluire nella sua vita una corrente di purezza sterminata.
         Il suo corpo sembrava fosse diventato spirito, tanto era luminoso e diafano in quella gran luce che l’adombrava. Fu tutta come un cantico vivente d’amore: cantavano le sue potenze nell’armonia dei doni dello Spirito Santo, rifulgeva l’intelletto di sapienza divina, rifulgeva la volontà tutta unita a quella di Dio, l’inondava una luce immensa di scienza celeste per la quale conversava nei cieli, anzi nella pace amorosa della Santissima Trinità, poiché da quel momento Dio la chiamava quasi nel divino consesso: era infatti la Figlia, la Sposa, la Madre di Dio, aveva in sé l’immagine più grande della Santissima Trinità, era principio generante del Verbo Incarnato, l’aveva nel suo seno, congiunto a sé per l’eterno Amore, e poteva rispondere, come eco, alle eterne parole: Ex utero ante luciferum genui te, dette da Dio Padre, con le parole del suo amore materno: Dal mio seno, nella luce di Dio ti ho generato. È mirabile! Dio parlando della generazione eterna del Figlio paragonò il suo eterno seno all’utero verginale, perché non fosse sembrato strano che da una Vergine un giorno potesse essere concepito il Verbo Incarnato, e Maria poteva paragonare il suo utero al seno eterno di Dio Padre!
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 1 dicembre 2012

La fine del mondo


Commento al Vangelo – I Domenica di  Avvento C 2012 (Lc 21,25-28.34-36)

La fine del mondo

                                                                 Egli aveva detto che Gerusalemme sarebbe stata calpestata dai pagani, fino al compimento del loro tempo, cioè fino a che anch’essi avrebbero avuto il castigo delle loro iniquità; e, siccome questo avverrà alla fine del mondo, accennò subito ai segni caratteristici e specifici che l’avrebbero annunciata. Oltre ad una nuova e più spaventosa conflagrazione delle nazioni, infatti, che desolerà la terra, vi saranno dei segni nel sole, nella luna e nelle stelle cioè, com’è detto in san Matteo (24,29) e in san Marco (13,24), il sole si oscurerà, e conseguentemente la luna apparirà rossa di sangue, e l’universo sarà scosso e perturbato. Sulla terra vi saranno violentissimi terremoti, aeromoti, e maremoti, e i popoli ne saranno costernati, non sapendo quello che potrà accadere in mezzo allo sconvolgimento delle potenze dei cieli.
        Nello sconquasso spaventoso di tutte le forze della creazione la terra sarà distrutta e periranno tutte le opere che l’uomo vi compì, staccandosi da Dio e inorgogliendosi miseramente. Comparirà allora Gesù Cristo su di una nube del cielo, cioè in un nembo di gloria, con grande potenza e maestà e verrà a giudicare tutti gli uomini, per dare a ciascuno quello che avrà meritato.
Dopo il terribile annuncio della distruzione di Gerusalemme e della fine del mondo Gesù Cristo si rivolge ai suoi uditori e agli uomini tutti del mondo, per indicare loro quale dev’essere l’atteggiamento che devono avere nelle grandi tribolazioni delle quali saranno testimoni. Il primo atto da compiere sarà quello di elevare gli occhi al cielo e confidare in Dio, aspettandosi le sue misericordie spirituali: Mirate in alto e alzate le vostre teste perché si avvicina la vostra redenzione. Ogni castigo ha un fine di misericordia nelle vie di Dio e il castigo finale preluderà al regno del Signore e al trionfo pieno della Chiesa; dunque, quando incominceranno a verificarsi le parole divine di Gesù, l’anima deve confortarsi e sperare nel regno di Dio.
Questa dev’essere la nostra vita nei momenti delle grandi tribolazioni che incombono già sulla terra e che incomberanno alla fine del mondo: dobbiamo levare lo sguardo a Dio, sospirando al suo regno; dobbiamo zelare la gloria del Signore e il bene delle anime e, senza farsi trascinare dai sensi, dobbiamo mortificarci e pregare. Non si può rimanere indifferenti quando Dio chiama, e se in ogni tempo come disse Gesù –, è necessario pregare, nel tempo della tribolazione è necessario farlo senza intermissione per il proprio bene e per quello degli altri.
        Gesù disse di vigilare, pregando di essere fatti degni di schivare tutte le cose terribili che dovranno avvenire; dunque, certe tribolazioni possono evitarsi o per lo meno attenuarsi con la preghiera.
        Se nei momenti di sconvolgimenti le nazioni pensassero a promuovere la preghiera pubblica, quanto gioverebbero di più ai popoli anziché con le loro preveggenze materiali, i loro armamenti e la loro tirannica disciplina!
        E se le anime consacrate a Dio pensassero specialmente alla loro responsabilità innanzi al popolo, con quanta cura baderebbero a conservarsi sante, mortificate, e in continua preghiera!
         Non si provvede al bene comune con le chiacchiere, ma levando le mani supplichevoli a Dio e implorando la sua misericordia.Commento al Vangelo – I Domenica di  Avvento C 2012 (Lc 21,25-28.34-36)

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo