sabato 26 gennaio 2013

La predicazione di Gesù in Galilea

Commento al Vangelo III Domenica del T.O. C 2013 (Lc 1,1-4;4,14-21)
La predicazione di Gesù in Galilea
        
San Luca premette al racconto del Vangelo un breve prologo che ne è come l’introduzione. Comincia ad indicare perché scrive e da quali criteri è guidato nel suo lavoro: molti, ascoltando la predicazione degli apostoli, avevano preso appunti per conservarne la memoria, ed avevano disteso dei racconti più o meno particolareggiati dei fatti della vita di Gesù Cristo, secondo le testimonianze oculari di quelli che vi avevano assistito e avevano poi avuto il mandato di predicarli. Questi appunti e questi racconti, però, riguardavano la vita pubblica del Redentore, e non erano scritti con un disegno particolare, diremmo con un disegno storico; erano episodi staccati che ad uno, ignaro dei fatti, non potevano dare un quadro chiaro dei grandi avvenimenti.
       Il santo evangelista, forse spintovi dalle insistenti domande di un suo illustre e carissimo amico convertito alla fede, Teofilo, si accinse a fare indagini accurate sui fatti fin dal loro principio, affinché egli e i pagani convertiti alla fede avessero potuto avere un racconto sicuro, attinto direttamente alle sue fonti storiche, ordinato e particolareggiato, in modo da confermare, nei loro cuori, la fede ricevuta attraverso la predicazione apostolica. È evidente che lo Spirito Santo lo spinse principalmente a scrivere, e che utilizzò le circostanze umane per determinarlo al lavoro.
       L’azione di Dio non esclude mai la nostra cooperazione; anzi, in certi casi sembra quasi che Dio ne tenga conto con amoroso rispetto. L’autore ispirato mette il suo lavoro, e, lavorando, diventa così lo strumento libero e attivo nelle mani del Signore. Il lavoro e la cooperazione umana sono guidati certamente dallo Spirito del Signore, e sono facilitati dalla sua grazia, di modo che l’autore ispirato è come condotto soavemente nelle sue indagini, ed è poi illuminato in pieno dalla divina ispirazione nel compiere il lavoro voluto da Dio.
       Il prologo del Vangelo di san Luca non è indifferente per noi, perché è una testimonianza precisa del valore della tradizione della Chiesa. Quelle parole: come ci hanno tramandato coloro che videro di persona e furono ministri della Parola, sono perentorie contro quelli che negano la Tradizione, poiché è evidente che il Vangelo ci è venuto proprio attraverso la Tradizione e la parola viva. Questa tradizione non può essere affidata a chiunque, ma a quelli che la custodiscono in nome di Dio, e quindi alla Chiesa cattolica e a quelli che la reggono per mandato dello Spirito Santo. Molti possono conoscere le tradizioni della Chiesa, come molti si erano sforzati di stendere il racconto dei fatti evangelici; ma chi ha l’autorità da Dio può determinare l’autenticità e la verità. Una tradizione abbandonata al capriccio individuale non potrebbe essere fonte di luce e di verità né potrebbe dare la certezza delle cose che insegna.
       San Luca spinse le sue ricerche storiche fin dall’origine dei fatti, e trattò certamente non solo con gli apostoli, ma con la beatissima Vergine Maria. Il sapore orientale dei cantici che egli riporta e il loro carattere psicologico, così proporzionato a Maria, a san Zaccaria e al santo vecchio Simeone, come vedremo, mostra chiaramente che egli li attinse dalle labbra medesime della Vergine purissima, e che non ne mutò parola, abituato com’era alla precisione scientifica per la sua stessa professione medica. La sua memoria era addestrata a sentir raccontare dagl’infermi le storie cliniche dei loro malanni e a ritenerle con esattezza, per poi studiarne il rimedio.
       Gesù Cristo, dopo aver vinto la tentazione di satana, cominciò il suo ministero nella Giudea, come dice san Giovanni (2, 3 e 4), e vi fece parecchi prodigi, dei quali furono testimoni alcuni Galilei. Poi, spinto dallo Spirito Santo, andò in Galilea, dove già si era sparsa la fama dei suoi miracoli e della sua Parola, di modo che cominciò intorno a Lui un concorso grande di popolo che lo seguiva per ascoltarlo nelle sinagoghe dov’Egli insegnava, e lo acclamava. L’acclamazione del popolo ci fa intendere che la divina Parola penetrava il cuore di tutti con fascino straordinario.
       Percorrendo le città della Galilea, Gesù andò anche a Nazaret, dov’era stato allevato e che amava come sua patria, e si recò nella sinagoga di sabato per leggervi la Scrittura e insegnare. Era uso, infatti, nei sabati, leggere nelle sinagoghe qualche tratto della Legge o dei Profeti, per poi spiegarlo al popolo. Quando era presente, nell’adunanza, una persona autorevole le si dava l’incarico di leggere, e le si consegnava il libro, cioè il rotolo di pergamena avvolto intorno ad un asse di legno, sul quale era scritta, da un lato solo, la Parola di Dio, affinché avesse scelto il testo. Chi leggeva rimaneva in piedi per rispetto, e dopo, ripiegato il rotolo, cominciava il suo discorso.
       Nella sinagoga di Nazaret fu consegnato a Gesù il libro del profeta Isaia, ed Egli, spiegatolo, vi trovò quel passo che si riferiva proprio alla missione che stava compiendo. Il profeta parlava in nome del Messia futuro, dicendo: Lo Spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri, mi ha mandato a sanare i contriti di cuore, ad annunciare agli schiavi la liberazione, a dare ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a predicare l’anno accettevole del Signore e il giorno della retribuzione.
       Era il programma dell’opera sua fino alla consumazione dei secoli; era la sintesi della sua missione spirituale e delle opere mirabili che l’avrebbero accompagnata. Egli, unto dallo Spirito Santo, doveva annunciare la verità eterna ai poveri, cioè al popolo, ai peccatori e agl’ignoranti, tutti poveri di luce e di grazia soprannaturale; doveva sanare i contriti di cuore, cioè gli afflitti, i pusillanimi, e quelli che, essendo avviliti nei peccati, desideravano risorgere; redimendo gli uomini, Egli avrebbe annunciato la liberazione ad essi, e alle anime che erano nel Limbo in attesa della salvezza.
       Con la parola della verità avrebbe dato la vista ai ciechi, con la propagazione del Vangelo per tutta la terra avrebbe ridonato la libertà agli oppressi, riempiendo di gioia i cuori per la grazia di Dio; con la diffusione delle divine misericordie avrebbe predicato l’anno accettevole, cioè il tempo di grandi grazie per le anime, e infine avrebbe annunciato il giorno della retribuzione, cioè il Giudizio finale.
       Nelle parole di Isaia c’era l’annuncio profetico dell’opera del Redentore e dello sviluppo di questa immensa misericordia per i secoli futuri, sino al termine dei secoli. Egli avrebbe anche beneficato il popolo, e avrebbe realmente consolato gli afflitti, guarito gl’infermi, dato la vista ai ciechi, ecc.; ma questi benefici erano figura di benefici più grandi che avrebbe diffusi per la sua Chiesa nei secoli.
       Sette grandi annunci che possono considerarsi come profezia dei sette periodi della storia della Chiesa:
       1° l’evangelizzazione dei poveri;
       2° il rinnovamento della società umana, avvilita dal paganesimo mediante il sacrificio dei martiri, i grandi contriti dall’iniquità umana;
       3° il trionfo della Chiesa, prima ridotta in servitù sanguinosa dai Cesari;
       4° l’illuminazione della verità a tutto il mondo, per mezzo dei dottori della Chiesa;
       5° la liberazione dalle nuove persecuzioni, nel periodo dell’apostasia delle nazioni, ed il trionfo della Chiesa oppressa dalle tirannidi;
       6° l’anno accettevole, cioè un periodo di grandi grazie, e un trionfo grande della Chiesa nel regno di Dio;
       7° infine, l’ultima prevaricazione e il Giudizio finale.
       Gesù Cristo, ripiegato il rotolo, lo rese al ministro della sinagoga, e si pose a sedere.
        Splendeva dal suo volto la verità, perché guardava a tutto il tempo futuro, e perciò tutti gli occhi erano fissi in Lui, attratti dal suo fulgore. Il suo aspetto conquideva, e la sua Parola era affascinante, e perciò tutti lo guardavano, per non perdere una parola di ciò che stava per dire. Egli, guardandoli per raccoglierli nel suo Cuore, esclamò: Oggi le vostre orecchie hanno udito l’adempimento di questo passo della Scrittura
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 19 gennaio 2013

Il primo miracolo di Gesù in Cana di Galilea


Commento al Vangelo – II Domenica del Tempo Ordinario C 2013 (Gv 2,1-11)
Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani
Il primo miracolo di Gesù in Cana di Galilea
         Il primo miracolo di Gesù in Cana di Galilea
Da Betania della Perèa, dove aveva chiamato i primi cinque discepoli, Gesù si diresse a Cana di Galilea, identificata oggi col villaggio di Kefr Kenna. La distanza era di circa 90 chilometri, e fu percorsa in tre giorni da Lui insieme ai discepoli. Questa circostanza ci fa capire che camminavano a passo svelto, e per vie campestri, dove il poco concorso rendeva più facile il viaggio. Anche oggi, entrando nel villaggio, vi si vede una fontana ricca d’acque, alla quale dovette essere attinta l’acqua del miracolo. La contrada è fertile, ricca di siepi verdeggianti formate di cactus spinoso, con vigne lussureggianti che producono un buon vino rosso.
        A Cana si trovava già Maria Santissima, la Madre divina di Gesù, occupata ad aiutare alcuni suoi conoscenti o parenti nella celebrazione della loro festa nuziale. Questa circostanza ci fa intendere la carità di Maria Santissima che, come andò per aiutare santa Elisabetta appena la seppe incinta, non esitò a recarsi a Cana per le feste nuziali che ordinariamente duravano più giorni.
        La dolcissima Madre si occupò con grande carità dell’organizzazione del banchetto, come appare dal fatto che per prima si accorse che era venuto meno il vino. Nella sua immacolata modestia, Ella era organizzatrice, perché sapientissima, e placidamente sapeva disporre le cose in un modo perfetto. La veste inconsutile di Gesù che si conserva ancora in Francia ad Argenteil, tessuta dalle sue mani, rivela la sua abilità nel lavoro, e l’accuratezza che vi metteva.
        Gesù andò a Cana perché la Madre sua era là; Egli non poteva lasciarla sola, sapeva quanto avesse bisogno della sua presenza che era la comunione quotidiana dell’anima sua benedetta.
        La circostanza che Gesù e i suoi discepoli furono invitati alle nozze dopo l’arrivo in Cana, e che non vi erano attesi, tanto che forse proprio per la loro presenza mancò il vino alla mensa, ci conferma che Gesù andò in quella borgata per Maria. L’angustia che Ella aveva provato quando lo smarrì per tre giorni era ancora tutta nel Cuore di Gesù, ed Egli non volle che passassero oltre tre giorni di lontananza dalla Mamma sua; era consono alla sua divina delicatezza, ed Egli, amandola d’immenso amore, era tutt’altro che diviso e indipendente da Maria, come credono alcuni.
        Andato dunque a visitare la Madre, perché Ella avesse ricevuto nel suo Cuore immacolato i suoi discepoli e, quasi per affidarle le loro anime e la loro fede nascente, fu invitato al pranzo nuziale anche Lui e i suoi discepoli. La Vergine Santissima li guardò con materna tenerezza, vide in loro, col suo sguardo penetrante, i primi germi di grazia, li riscaldò quasi col suo amore, e certamente usò con loro particolari riguardi di bontà, dato che erano stanchi dal viaggio, dando loro da mangiare e da bere per rifocillarli. Dal rimprovero fatto dal capo del banchetto allo sposo di aver riserbato il vino migliore per la fine del banchetto si rileva che gli apostoli giunsero quando il pranzo era già inoltrato; ora, essendo essi stanchi e assetati per il lungo viaggio, e trovando il vino piuttosto leggero, bevvero volentieri, e consumarono quel poco che era rimasto probabilmente per la celebrazione nuziale che si faceva in fine della tavola.
        Maria Santissima nell’andare e venire, prestandosi ai servigi di ospitalità, e forse nel mescere il vino a qualcuno degli apostoli che ne domandò ancora un po’, si accorse che non ce n’era più. Ella non esitò; nelle mura tranquille della casetta di Nazaret aveva assistito a tanti nascosti prodigi di provvidenza fatti da Gesù, aveva contemplato e conosciuto l’amabilità del suo Cuore, e si rivolse a Lui con una sola parola che era una preghiera e un invito a provvedere: Non hanno più vino.
        Chi sa quante volte aveva fatto questa preghiera quando mancava nella sua casa il pane, o quello che voleva dare ai poverelli; certo era sicura che bastava dirlo al suo divin Figlio per ottenere quanto desiderava; Ella stessa conosceva per esperienza l’ascendente della sua mediazione presso il Cuore di Gesù.
        Gesù Cristo le rispose con una frase che a torto viene sospettata come dura o, peggio, come una protesta di indipendenza dalla Madre nell’apostolato messianico che Egli veniva a compiere; pensare così significa non conoscere la divina amabilità di Gesù, e significa dimenticare completamente la dignità di Maria e la sua missione materna nelle vie della grazia.
        È assurdo che il Signore abbia voluto dichiararsi indipendente dalla Madre nell’opera sua, quando poi l’ha tutta affidata a Lei fin dal principio, e l’ha voluta Corredentrice ai piedi della croce; e più assurdo pensare che abbia voluto rimproverarla duramente, mentre Ella compiva un ufficio di carità. Egli, dunque, le rispose: Che cosa v’è tra me e te, o donna? Non è ancora venuta la mia ora. E volle dire precisamente – com’è chiarissimo dal contesto e da quello che Gesù operò dopo –: Che cosa v’è di diverso tra me e te, e che cosa posso fare io che non puoi fare tu? L’ora mia non è ancora venuta, l’ora della manifestazione gloriosa, e quel miracolo che vuoi da me, fallo pure tu. La chiamò “donna” non per disprezzo ma per amore, usando una parola che presso gli Orientali era usata per indicare intima cordialità con le persone più care e più degne di rispetto, come si può vedere persino in Omero e in Senofonte; la chiamò donna, signora, non per rinnegarla ma per glorificare la sua dignità di Regina del cielo e della terra. Se l’avesse disconosciuta o, peggio, disprezzata, non avrebbe immediatamente fatto ad esuberanza quello che essa voleva, e non avrebbe anticipato quell’ora di glorificazione che aveva affermato non essere ancora venuta.

Non hanno più vino
        Maria, con quelle parole: Non hanno più vino, reclamò un miracolo o di moltiplicazione di quel pochissimo che v’era ancora in qualche coppa, o di transustanziazione dell’acqua. Probabilmente la sua tenerezza materna si fermò su questa seconda idea, poiché, desiderando gli apostoli ancora bere, assetati com’erano, aveva forse dovuto dar loro dell’acqua con rammarico e nel delicato timore che facesse loro male. Ella, inoltre, si era preoccupata di aver fatto un dono agli sposi sia con la sua generosità nel dare, sia per l’invito del Figlio divino e dei suoi cinque discepoli.
        Non è ancora giunta la mia ora. Pensava Gesù, in quel momento, anche all’ora del Banchetto eucaristico dell’Ultima Cena? L’avere Egli detto, in quella sua ora, di averla desiderata con grande e continuo desiderio, desiderio desideravi hoc pascha manducare vobiscum (Lc 22,15), ci fa credere che ci avesse sempre pensato, perché meta ultima del suo amore era quella di darsi. Al suo amore ripugnava quasi dare del vino: avrebbe voluto dare il suo Sangue e, poiché la sua ora non era ancora giunta, avrebbe voluto che il miracolo l’avesse operato Maria. Ma la Vergine Santissima, a sua volta, non voleva dar solo del vino, voleva dare, ai nuovi apostoli, un argomento di fede in Gesù, voleva fortificarli con un prodigio, e per questo insistette col fatto presso Gesù, dicendo ai servi: Fate tutto ciò che vi dirà. Col suo acume aveva capito subito l’allusione del Figlio ad una transustanziazione, e impegnò i servi perché avessero provveduto l’acqua per il miracolo. Come si vede, lungi dall’essere divisi o quasi estranei, Gesù e Maria si intendevano a volo, e Maria, da Signora e Regina, penetrava l’intimo amore di quel Cuore divino, come Gesù penetrava i desideri delicati del Cuore Immacolato della Madre.

L’acqua si muta in vino
        Nel cortile o nel vestibolo della casa c’erano sei vasi di pietra, chiamati idrie, cioè vasi per acqua, della capacità ciascuno di due barili o, in greco, tre metrete; alcuni erano più piccoli, altri più grandi. La metreta che significa misura, era la massima misura di capacità per i liquidi, ed equivaleva a circa 40 litri; ogni vaso, quindi, conteneva da 80 a 120 litri, e tutti insieme dai 480 ai 720 litri.
        Gli Ebrei avevano molti riti di abluzione, prima di mettersi a tavola si lavavano le mani, e poi purificavano i vasi, i bicchieri ecc. Così si spiega che in un banchetto nuziale con numerosi invitati si trovassero quei sei vasi, e si capisce che, essendo già il banchetto alla fine, erano stati vuotati dell’acqua già usata, per la pulizia. Gesù Cristo ordinò ai servi di riempirli, ed essi, immaginando forse che quell’acqua servisse nuovamente alle abluzioni, li riempirono fino all’orlo per facilitarle. Con un atto interno di onnipotente volontà, Gesù ordinò quell’acqua a chi aveva cura del vino nel banchetto, l’ordinò come quando, al principio, creò le cose dal nulla o ne ordinò l’armonia; il capo del banchetto doveva distribuire, in quel momento, vino e non acqua, e Gesù, facendone attingere, la mutò in vino ottimo. Non era venuta l’ora di dare il suo Sangue, ma Egli volle, con quel miracolo, adombrare il più grande prodigio del suo amore e disse internamente sull’acqua: Questo è il vino per il capo del banchetto, come un giorno avrebbe detto sul vino: Questo è il mio Sangue che si sparge per voi. L’acqua, all’istante, si mutò in vino, forse conservando il colore dell’acqua, perché il capo del banchetto si accorse che era ottimo vino quando lo gustò; ci sono, del resto, dei vini prelibati che, all’aspetto, sembrano quasi acqua.
        I servi si accorsero del miracolo, perché essi avevano riempito le idrie d’acqua e, quando ne attinsero per portarla al capo del banchetto, sentirono dalle idrie il profumo d’un vino squisito. Il Sacro Testo nota che il capo del banchetto ignorava da dove fosse venuto quel vino, per escludere che si fosse suggestionato a credere vino l’acqua. Egli, anzi, semmai, era suggestionato del contrario, aspettandosi in fine di tavola il vinello leggero. Gustando perciò quell’ottimo vino, da uomo che s’intendeva bene di usi e di costumanze nei banchetti, chiamò in disparte lo sposo e gli disse che aveva fatto male a riserbare il buon vino per la fine del pranzo, perché l’uso generale esigeva l’opposto, supponendo che si dia il vinello a chi già si è inebriato di buon vino.
         I discepoli di Gesù, ultimi invitati giunti al banchetto, stavano naturalmente più vicini al cortile o al vestibolo della casa, e si accorsero bene della manovra dei servi; quando bevvero quell’ottimo vino, quindi, rimasero pieni di stupore e crederono in Gesù, avendo toccato con mano la manifestazione della sua gloriosa potenza. Essi credevano già in Lui, ma il miracolo evidente accrebbe la loro fede e la fortificò.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 12 gennaio 2013

Egli battezzava con l'acqua

Commento al Vangelo Domenica dopo l’Epifania (Lc 3,15-16.21-22)
Battesimo del Signore - Festa

Egli battezzava con l’acqua
        La vita del Battista rappresentava per il popolo un prodigio e, benché egli non facesse mai alcun miracolo, molti pensarono che fosse il Cristo, l’atteso Redentore.
       Questo sospetto, lungi dal rappresentare una lusinga per Giovanni, fu per lui una pena, e perciò si affrettò con tutte le sue forze a dissipare l’equivoco, stabilendo nei termini precisi la verità.
       Egli battezzava con l’acqua, cioè con un semplice simbolo di penitenza e di umiliazione, mentre il Redentore, più forte di lui perché Dio e al quale si dichiarava indegno di sciogliere i legacci dei calzari, avrebbe battezzato effondendo la grazia dello Spirito Santo e il fuoco dell’amore; il suo battesimo sarebbe stato, perciò, una vera rigenerazione.
       Egli minacciava magari i castighi di Dio, ma non aveva alcun potere sulle anime, il Redentore, invece, avrebbe avuto il ventilabro nella sua mano, cioè sarebbe stato giudice delle anime, avrebbe purificato il suo popolo, e avrebbe salvato i giusti e condannato i reprobi come inutile paglia, nel fuoco eterno dell’Inferno. Non si poteva dunque scambiare il simbolo per la Realtà né il servo per il padrone.

La testimonianza del Padre
e dello Spirito Santo
       Dio ebbe cura di confermare Egli stesso la testimonianza di Giovanni: Gesù Cristo, infatti, andò anch’Egli a farsi battezzare e, nell’atto nel quale, ricevendo l’acqua, si copriva della veste dei nostri peccati, il cielo si aprì, cioè apparve luminosissimo in un punto, quasi si fosse squarciato, manifestando la luce eterna, e da quello splendore venne su Gesù lo Spirito Santo come un alone di luce, quasi colomba fulgente, e si fece sentire la voce del Padre che disse: Tu sei il mio Figlio diletto, in te mi sono compiaciuto. La bianca colomba di luce e la voce del Padre manifestarono la santità di Gesù Cristo e la sua divinità; lo Spirito Santo consacrò l’umanità di Lui in una pienezza di grazia che toccava l’infinito, e la voce del Padre lo dichiarò esplicitamente suo eterno Figlio, oggetto delle sue compiacenze: con questa testimonianza era come suggellata la testimonianza di Giovanni, e la sua missione poteva dirsi terminata col cominciare del ministero pubblico di Gesù. Perciò san Luca accenna alla prigionia del Battista prima della solenne testimonianza del Padre e dello Spirito Santo. Cronologicamente avvenne parecchio tempo dopo, ma san Luca l’accenna prima, per chiudere il ministero pubblico di san Giovanni.
       Può supporsi che il Precursore medesimo, fatto segno a grande amore da parte del popolo, abbia desiderato e domandato a Dio d’essere eclissato nel carcere, per non intralciare il ministero del Redentore.
       Qual esempio per noi, quando siamo adibiti dalla Provvidenza a far conoscere il Redentore nell’apostolato laico o in quello sacerdotale! Non possiamo cercarvi né il nostro tornaconto né la nostra gloria, ma tutta la nostra premura dev’essere la gloria di Dio. La nostra personale attività a che vale? È meno che un po’ d’acqua versata nei cuori per intenerirli; sono necessari, dunque, la grazia dello Spirito Santo e il fuoco del divino amore per zelare la gloria di Dio, e lo Spirito Santo non può vivere nelle anime se noi ne ostacoliamo l’azione con la nostra presunzione e il nostro orgoglio.
        Confessando la nostra nullità, si apre il cielo; dichiarando la nostra indegnità, richiamiamo la grazia sulle anime, la voce di Dio si fa sentire loro e le muta in oggetto della divina compiacenza con la grazia. Eliminare ciò che è nostro: ecco il segreto di un vero apostolato; umiliarsi, confessarsi inetti, indegni, incapaci: ecco il segreto per renderlo fecondo.
Padre Dolindo Ruotolo

domenica 6 gennaio 2013

I Magi e l'adorazione del Redentore

Commento al Vangelo  II Domenica dopo Natale C 2013 (Mt2,1-12)
Epifania del Signore

I Magi e l’adorazione delRedentore
       Quando nacque Gesù Cristo, regnava nella Giudea Erode, chiamato il Grande, si direbbe per una storica ironia, perché se fece molti lavori pubblici, fu un crudelissimo tiranno, e ottenne il regno a furia d’intrighi col senato romano. L’evangelista fa notare intenzionalmente che regnava Erode, un Idumeo straniero che rappresentava per di più l’autorità dei Romani, per far notare che Gesù Cristo, secondo la profezia di Giacobbe (cf Gn 49,10), era nato quando lo scettro regale era stato tolto a Giuda. Erode era padre di quell’Erode, tetrarca della Galilea che fece poi decapitare il Battista e schernì Gesù Cristo nella sua Passione. Alla sua morte, infatti, il regno venne diviso dai Romani in quattro tetrarchie e dato ai suoi figli; terminò così anche quella parvenza di regno che egli era riuscito a conquistare.
       Gesù Cristo nacque a Betlemme di Giuda, chiamata anche Efrata, piccola borgata situata a circa due ore di cammino a sud di Gerusalemme. Vi era un’altra Betlemme situata nella tribù di Zabulon in Galilea, e l’evangelista aggiunge al nome della città la regione cui apparteneva, per mostrare che il Redentore era nato nella città di Davide come suo discendente, e aveva compiuto, con la sua nascita, la profezia di Michea, ricordata ad Erode stesso dai principi dei sacerdoti.
       Non può dirsi con precisione da quanto tempo era nato il Redentore, quando alcuni sapienti dell’oriente, chiamati perciò con parola generica Magi, si recarono a Gerusalemme per adorare il nato Re, essendo stati chiamati alla sua culla da un astro fulgentissimo che era apparso nel cielo.
       Questi Magi studiavano astrologia, e non ignoravano la profezia di Balaam (cf Nm 24,17), con la quale si annunciava l’apparizione di una nuova stella in Giacobbe alla nascita del promesso Messia. All’apparizione della stella che era come una meteora luminosa, si sentirono internamente ispirati ad andare a Gerusalemme per far ricerca del nato Re, e intrapresero il lungo viaggio. Essi venivano probabilmente dall’Arabia e, secondo la comune tradizione, erano tre, sapienti e principi, tenuti in grande considerazione nel loro paese. La stella quasi li invitava al viaggio, perché si librava nell’atmosfera come un segno che indicava la direzione del cammino da intraprendere, e mostrava di muoversi in quella direzione. Non era dunque un astro che aveva un moto circolare, non poteva essere un’illusione, non poteva essere un segno confondibile con un fenomeno sidereo qualunque: era un segno celeste, una chiamata di Dio.
       La fede dei Magi fu grande, perché il viaggio non era facile, e fu grande soprannaturalmente, perché essi non avrebbero avuto interesse ad andare a conoscere un neonato re, se non avessero sentito e creduto che quel Re era il Salvatore promesso. Era la primizia dei pagani che il Signore chiamava alla fede – come dice la Chiesa –, era la rappresentanza del mondo che veniva a rendere omaggio all’Uomo Dio, e veniva a scuotere un po’ l’indifferenza con la quale era stato ricevuto in terra che pur lo aveva aspettato.
       È evidente dalla Tradizione e dal medesimo contesto del Vangelo che la stella li accompagnò durante il viaggio, e che si eclissò forse quando entrarono nella terra d’Israele.
       Dio che è infinita economia e non compie opere superflue, fece eclissare il segno straordinario dove era possibile essere guidati dai lumi naturali di chi stava al pubblico potere. Potrebbe anche supporsi che le nubi avessero eclissato la meteora e che essa rimanesse solo occultata nell’atmosfera. Comunque sia, i Magi, non sapendo dove andare, si rivolsero al re Erode, come a colui che avrebbe dovuto essere informato della nascita dell’atteso Messia. Con la semplicità che caratterizzava i popoli orientali, essi domandarono dove fosse nato il re dei Giudei, avendo visto la sua stella in oriente. Erode che aveva consumato tanti delitti per avere e conservare il regno, fu costernato a questa notizia, perché sapeva benissimo che gli Ebrei aspettavano un liberatore, e che da tutti si diceva prossimo l’evento. Dissimulò, pertanto, il suo turbamento e, nel suo crudele animo, fece già il piano di sbarazzarsi del nato Re, uccidendolo. Chiamò i capi delle classi sacerdotali e i dottori della Legge, e domandò loro con insistenza dove sarebbe dovuto nascere il Cristo. La sua domanda suscitò un turbamento in tutta Gerusalemme, perché la carovana degli stranieri che vi erano giunti, l’annuncio del compimento delle promesse, e forse soprattutto il timore della crudeltà del tiranno, sconvolto dall’annuncio della nascita del re aspettato, faceva temere al popolo qualche brutta sorpresa. L’ingratitudine umana, poi, non ha limiti, dolorosamente; il popolo si era adattato al regime di oppressione e, come tutti i popoli decaduti, preferiva rimanere supinamente oppresso, anziché venire in urto con chi lo dominava.
       Il Vangelo dice espressamente che Erode si turbò e con lui tutta Gerusalemme; non fu dunque un moto di commozione per l’annuncio del nato Re, ma un timore grande di nuove oppressioni da parte del tiranno, e di complicazioni penose che rese il popolo solidale col perfido monarca.
       Il prestigio dei Magi non doveva essere indifferente, se Erode prese in tanta considerazione la loro domanda, e la stimò così vera, da radunare il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, per sapere da loro la risposta che avrebbe dovuto dare. Si sapeva che le profezie riguardanti il Redentore erano determinate, e questo non poteva ignorarlo lo stesso Erode; non era dunque difficile rispondere ai Magi, facendo capo alle Scritture. Il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, infatti, fu unanime nell’affermare che il Redentore doveva nascere a Betlemme di Giuda, secondo la profezia di Michea.
       L’evangelista non cita letteralmente la profezia, ma il senso che dà è preciso. Michea dice che Betlemme è piccola fra le mille città di Giuda ma, nascendo da essa il Redentore, è grande; san Matteo dice nel medesimo senso che essa non è la minima tra le città principali di Giuda,perché da essa esce il condottiero che deve reggere il popolo d’Israele.
       Avuta la risposta, Erode chiamò segretamente a sé i Magi, perché volle evitare che il popolo li accompagnasse e andasse dal nato Messia, e s’informò minutamente del tempo nel quale era loro comparsa la stella. La risposta dei sacerdoti lo aveva anche di più insospettito e preoccupato, perché essa aveva un grande valore innanzi al popolo, e avrebbe potuto provocare una sommossa contro la sua usurpata autorità. Astuto com’era, finse di volersi recare anch’egli ad adorare il nato Re, e mandò i Magi a Betlemme perché l’avessero ricercato, e gli avessero riferito minutamente intorno al luogo dove si trovava. Voleva saperlo per poi farlo uccidere, e s’informò del tempo della comparsa della stella perché, al suo animo crudele, abituato alle stragi, già balenava l’idea di non ucciderlo direttamente attirandosi l’odiosità popolare, ma di coinvolgerlo in una strage comune.
       Appena udita la risposta del re, i Magi partirono, ed ecco che la stella, visto nell’oriente ed eclissata ai loro sguardi, riapparve nel cielo, con immensa gioia del loro animo, indicò la via da percorrere e si fermò sulla grotta dov’era ricoverato Gesù; è probabile, infatti, che la Vergine Santissima fosse stata costretta a rimanere in quella grotta, continuando l’affluenza dei forestieri a Betlemme per il censimento. Forse la dolcissima Mamma si fermò perché Gerusalemme era poco distante da Betlemme, ed attese il compimento dei giorni legali per presentare al tempio il Bambino; forse fu disposizione di Dio che il Verbo Incarnato rimanesse ancora in quella povertà estrema, per manifestarsi così ai pagani. Il fatto certo è che Maria stava ancora a Betlemme all’arrivo dei Magi, e si trovò sola col Bambinello, essendo andato san Giuseppe o a lavorare o a disbrigare faccende.
       I Magi non videro nulla di straordinario, ma videro ciò che era immensamente straordinario da ferire l’anima d’amore: videro Maria col suo Bambino divino e furono talmente colpiti dalla santità della Madre e dalla maestà del Figlio che si prostrarono e lo adorarono, non a mo’ di saluto, perché non avrebbero potuto salutare un infante, ma lo adorarono come Re e come Dio, e gli offrirono doni, come soleva farsi ai re, e doni particolari che si addicevano al Redentore: l’oro, l’incenso e la mirra. Con l’oro lo riconobbero Re, con l’incenso lo confessarono Dio, con la mirra riconobbero la sua condizione di Vittima.
         Innanzi a Gesù Cristo e a Maria Santissima si sentirono infiammati d’amore, provarono una felicità mai sentita nella loro vita e, avvertiti in sogno di non ritornare da Erode, temendo di essere vigilati dal tiranno, se ne ritornarono per un’altra strada, segretamente, al loro paese. 
Don Dolindo Ruotolo