venerdì 31 gennaio 2014

La presentazione al tempio

Commento al Vangelo – IV Domenica del T.O. 2014 A (Lc 2,22-40)
La presentazione al tempio

Maria Santissima, essendo purissima Vergine e Madre di Dio, non era soggetta alla legge della purificazione né a quella della presentazione e del riscatto del suo Figlio divino. La donna, infatti che partoriva un maschio era considerata immonda per 40 giorni per tutto quello che di macchiato e di sensuale accompagna la generazione, e il figlio primogenito era considerato, per legge, appartenente a Dio e non poteva essere della madre senza che ella lo avesse riscattato. Ora, Maria aveva generato per opera dello Spirito Santo, senza che il parto stesso avesse minimamente violato la sua verginità immacolata; Gesù, poi, come vero Figlio di Dio, non aveva bisogno né di essergli consacrato né tanto meno di essere riscattato. Egli, però, e la sua Santissima Madre si sottoposero alle usanze legali per umiliarsi e per darci l’esempio di ogni virtù, e quindi vollero comparire innanzi al mondo come creature qualunque.
D’altra parte, era logico che fosse così, dato che non era ancora giunto il momento di far conoscere il grande mistero che si era compiuto; ora, se Maria non fosse andata al tempio e non avesse offerto Gesù, sarebbe apparsa agl’ignoranti come una violatrice della Legge, il che Dio non volle permettere. Ella, in realtà, più che purificarsi, andava a purificare, profumando di purezza immacolata la terra e il tempio delle figure e delle promesse; più che offrire a Dio il Figlio divino che già gli apparteneva, lo offriva alla terra come Redentore e Re d’Amore; si umiliava legalmente, ma era Regina nel compiere la Legge e i Profeti.
La sacra Famiglia giunse al tempio, attraversò l’atrio dei pagani e l’atrio delle donne, e salì i quindici scalini che portavano all’ingresso posto tra l’atrio delle donne e quello degli Israeliti. Il sacerdote di turno al tempio asperse Maria col sangue di una vittima, e fece su di Lei alcune preghiere. Maria era curvata, tutta soffusa di ineffabile purezza, tutta santa, fiore purissimo, aspersa di sangue come di rugiada di umiltà. Subito dopo fece l’offerta prescritta che consisteva, per i meno poveri, in un agnello di un anno, dato in olocausto, e di un colombo o di una tortora, e per i poveri in due colombi o due tortorelle.
Maria scelse l’offerta dei poveri, perché era povera; ma, in realtà, Ella non poteva offrire l’agnello, avendo nelle braccia il vero Agnello di Dio, non poteva dare un simbolo quando ne presentava il compimento. Era andata al tempio sotto le apparenze dell’umiliazione legale, ma in realtà Ella compiva, in quel momento, le figure e le profezie del passato, e donava al Trono di Dio la vera Vittima per i peccati degli uomini.
Per il riscatto del primogenito si versava un obolo di cinque sicli; cinque monete ridonavano il figlio alla madre e al padre, i quali venivano così a riconoscere il diritto di Dio sulle sue creature. Maria presentò il Figlio divino al Padre, ed offrì i cinque sicli per riaverlo; era l’ultima figura che splendeva nel tempio, poiché quei cinque sicli adombravano le cinque piaghe con le quali il Redentore avrebbe riscattato l’uomo per darlo a Dio. Gesù Cristo, coperto della veste dei nostri peccati, rappresentava, in quel momento l’uomo e, riscattato con i cinque sicli, esprimeva in sé il riscatto che avrebbe avuto l’uomo; Egli era il Redentore che doveva riscattarlo ma, offrendosi a Dio con la veste dei nostri peccati, rappresentava, innanzi a Lui, l’uomo peccatore, e lo segnava simbolicamente nel prezzo del riscatto che Egli stesso gli avrebbe dato con le sue piaghe e la sua morte.
Il santo vecchio Simeone
Il grande mistero che si compiva sarebbe sfuggito a tutti, se un santo vecchio, chiamato Simeone, non l’avesse svelato per ispirazione divina. Egli era decrepito, giusto e timorato di Dio, cioè, secondo il testo greco, santo e contenzioso osservatore di tutto ciò che riguardava la religione. Aveva passato la vita aspettando la consolazione d’Israele, ossia il Redentore, ed aveva pregato intensamente perché il tempo della sua venuta fosse abbreviato. Ora, nelle sue preghiere aveva avuto dallo Spirito Santo, per ispirazione interna, la rassicurazione che non sarebbe morto senza vedere il Messia. Essendo egli molto vecchio, la rassicurazione equivaleva ad un annuncio dell’imminente compimento delle promesse divine.
Nel giorno nel quale Gesù fu presentato al tempio Simeone sentì una di quelle ispirazioni interne alle quali è difficile resistere: avvertì una profonda gioia nell’anima, un senso di raccoglimento e, nel medesimo tempo, un’espansione di cuore che gli faceva volgere il pensiero a Dio, pregando con facilità, con impeto d’amore e con la sicurezza di essere esaudito. Sono infatti questi i sentimenti che comprendono un’anima circonfusa da una luce speciale dello Spirito Santo. Era attratto verso il tempio e si sentiva un vigore particolare in tutta la persona che lo spingeva come se fosse stato sorretto. Uscì in fretta, andò alla casa di Dio e vi trovò Maria, Giuseppe e il Bambino divino.
Fu una visione per Lui: l’umiltà e il candore della Madre Immacolata erano come aureola di luce intorno al Bambino che aveva tra le braccia; il raccoglimento e la semplicità di san Giuseppe erano come profumo di fiori che lo adornavano; egli capì subito il mistero dell’Infante divino, e domandò, in grazia, di prenderlo fra le braccia. Lo prese e si sentì tutto vivificare dalla grazia; il cuore gli ardeva nel petto e lo Spirito Santo gli effondeva nella mente una grande luce di verità. Volse gli occhi al cielo e, sostenendo il Bambino, esclamò: Ora lascia che se ne vada in pace il tuo servo, o Signore, secondo la tua parola, perché gli occhi miei hanno visto la tua salvezza, da te preparata al cospetto di tutti i popoli, luce per illuminare le nazioni, e gloria del popolo tuo Israele. Parlò tutto d’un fiato, senza interrompersi e senza posare, come san Zaccaria nel suo cantico; le idee erano in lui non una riflessione ma una gran luce, e fluivano da lui come un fascio di splendori che niente poteva arrestare.
L’accento ispirato col quale Simeone parlava era così solenne che Maria e Giuseppe rimasero meravigliati delle cose che si dicevano di Gesù. Non si meravigliarono che Simeone le avesse dette – come spiegano alcuni interpreti –, ma si stupirono di ciò che egli diceva del Bambino, come dice esplicitamente il Sacro Testo. Essi avevano una fede immensamente più grande di quella di Simeone, e conoscevano più profondamente quello che egli diceva; ma è proprio della fede il godere della luce che conferma la verità, e l’ammirarne di più l’armonia nei riflessi che essa spande d’intorno. Maria e Giuseppe vivevano più ardentemente di quello che credevano, poiché la conferma che ne dava Simeone era per la loro mente una luce viva e per il cuore una fiamma d’amore.
Simeone era vecchio, e come tale sentiva un senso di paternità per quelli che erano giovani, e un’espansione di bontà verso di loro. Vedendo Maria e Giuseppe in un grande raccoglimento d’amore, ne fu maggiormente intenerito, e li benedisse con l’effusione affettuosa di un vecchio pieno di bontà. Preso poi da una nuova ispirazione, si rivolse a Maria e le disse in tono solenne, parlando di Gesù: Ecco che questi è posto come rovina e come risurrezione di molti in Israele, e per segno di contraddizione e la tua stessa anima sarà trapassata da una spada, e così verranno svelati i pensieri di molti cuori.
In poche parole aveva tracciato il cammino doloroso del Redentore e quello di sua Madre: in Israele, molti gli avrebbero creduto e si sarebbero salvati, ma molti l’avrebbero rinnegato e si sarebbero perduti; Egli sarebbe stato segno di contraddizione delle autorità costituite e per le anime prive di rettitudine; l’anima di Maria, poi, sarebbe stata trapassata da una spada di amarissimo dolore nelle contraddizioni del Figlio e nella sua dolorosa morte.
Le contraddizioni opposte al Redentore sarebbero derivate da malanimo, e perciò avrebbero svelato la malignità di quelli che le avrebbero opposte.
Così avvenne a Gesù e così avviene in ogni tempo alla sua Chiesa, Corpo mistico nel quale continua la sua opera salvifica e la sua Passione: quelli che non seguono la verità si perdono, e traggono motivo di dannazione da quello stesso che dovrebbe salvarli.
La Chiesa è segno di perenne contraddizione da parte degli empi di tutti i secoli, e l’anima sua è trapassata dalla spada del dolore morale in mezzo alle persecuzioni violente e sanguinose. È così che si manifestano i pensieri di molti, e si rivelano le loro intenzioni.
Esulta Anna, una santa donna del tempio
Mentre Simeone si estasiava di gioia, tenendo nelle braccia Gesù Bambino, sopraggiunse una santa donna chiamata Anna, vecchia di ottantaquattro anni che stava nel tempio giorno e notte che abitava, cioè, in qualche stanza annessa al tempio, prestava i suoi servigi, e si tratteneva in continue preghiere e digiuni, implorando il compimento delle divine promesse. Questa donna, rimasta vedova dopo sette anni di matrimonio era rimasta vedova fino a ottantaquattro anni e, come può rilevarsi dal contesto, si era data ad un santo apostolato fra le anime che frequentavano il tempio, mantenendo acceso in loro il desiderio della venuta del Messia. Nel Sacro Testo è detto, infatti, che ella, dopo averlo visto Bambino, parlava di Lui a tutti quelli che aspettavano la redenzione d’Israele; dunque, aveva relazioni di apostolato con le anime più rette, e parlava loro dei disegni di Dio. Era chiamata la profetessa proprio per questo, e raccoglieva le confidenze di quelli che più erano oppressi dalle pene della vita, incoraggiandoli con la speranza dell’imminente redenzione.
Come Simeone, anche Anna si sentì tratta al tempio da un’ispirazione interiore e, poiché aveva familiarità con le misteriose operazioni di Dio, sentì subito nel cuore un impeto di gioia che la fece erompere in benedizioni e lodi al Signore che aveva mandato il Redentore.
Era misterioso e commovente che due vecchi avanzatissimi negli anni rendessero testimonianza al nato Messia; essi rappresentavano l’antico patto che confermava la verità di ciò che si era compiuto.
Il piccolo Infante era una visione divina, poiché era Dio, e l’opera che veniva a compiere era diretta all’eterna beatitudine e felicità di quelli che vi avrebbero creduto e si sarebbero salvati. Con quel modo delicato col quale Dio dispone tutto con sapienza, si può dire che, nella soave scena della presentazione al tempio, fosse quasi scolpita l’epigrafe vivente di quello che avveniva: Il Verbo di Dio è disceso dal cielo fatto obbediente alle sue creature. Dio ha esaudito il sospiro dei popoli, ed ha effuso la misericordia e la grazia. Vedete nel piccolo Infante il Signore medesimo che viene a ridonare agli uomini la pace e la beatitudine eterna. Ecco il Salvatore, Gesù, ecco la Signora del mondo, Maria che avvicina le anime alla vita, ecco il popolo nuovo che si accresce, Giuseppe, e come vigoroso rampollo germina e si dilata. Si compiono le antiche promesse, i Profeti e la Legge, lodate il Signore!
Questa non è una fantasia più o meno ingegnosa, poiché Dio, attraverso gli eventi della nostra piccola terra, scrive sempre le pagine scultoree delle sue meraviglie e della sua gloria, e le piccole creature che passano, attraverso i secoli fugaci che s’incalzano, sono come granelli d’arena nei quali rifulgono, in un modo o in un altro, come riflessi di sole, i disegni di Dio.
Nel Cielo saremo stupiti di vedere un’armonia stupenda in tutto il groviglio delle vicende umane, e una mirabile affermazione della gloria di Dio anche in quello che ci sembra rovinoso. Curviamo la fronte, adoriamo, preghiamo e, invece di turbarci negli eventi del mondo, attendiamo fiduciosi la rivelazione della gloria di Dio.
È questa la sintesi d’una giornata veramente cristiana. Rechiamoci anche noi, ogni giorno, al tempio di Dio, offriamo Gesù al Padre per le mani della Chiesa, presentiamolo come nostro dono, facciamoci circoncidere nel cuore dal suo amore, facciamoci purificare dalla sua misericordia, e viviamo nell’aspettazione del regno di Dio. Non concepiamo la vita come una corsa di folli, o come una bolgia di crudele disperazione; la vita è preparazione alla vita eterna, è compimento della divina, amorosissima volontà di Dio in noi, ed è riposo nel suo amore nell’attesa della risurrezione. È un Benedictus, un Magnificat e un Nunc dimittis; quando, invece, si deforma nel peccato e nella trasgressione della divina Legge è una maledizione, una disperazione ed una morte eterna. Oh! Dio ci liberi dallo spirito del mondo, e ci faccia raccogliere, amando, i tesori che la sua misericordia ci ha donati nella redenzione!
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo 

sabato 25 gennaio 2014

L'elezione dei primi apostoli

Commento al Vangelo – III Domenica del T. O. 2014 A (Mt 4,12-23)
L’elezione dei primi apostoli

Dopo aver subito la prova nel deserto, Gesù Cristo cominciò la sua vita di apostolato. Giovanni era stato messo in prigione da Erode Antipa, a causa di Erodiade, e per questo vi era nella Giudea un grande fermento, data la stima che il popolo aveva del Battista. Il Testo dice che Gesù aveva udito che Giovanni era stato messo in carcere, proprio per indicare il fermento popolare che spargeva la notizia in ogni parte. Non volendo, per delicatezza di carità verso san Giovanni, prendere il suo posto in luoghi che risuonavano ancora della predicazione di lui, si ritirò nella Galilea e, licenziatosi da Maria Santissima che abitava ancora a Nazaret, andò ad abitare a Cafarnao, città a quei tempi abbastanza importante per il commercio, situata sulla riva occidentale del lago di Genesaret. L’apostolato che vi esercitò dovette essere così grande da far ricordare la profezia di Isaia (9,1-2) nella quale era annunciata la voce del Messia, risonante ai confini della terra di Zabulon e di Néftali, sulla strada del mare di Genesaret, ad oriente del Giordano, cioè nella Perea, e fino alla parte della Galilea confinante con la Siria e con la Fenicia, chiamata Galilea delle genti perché abitata da molti pagani.
Quei popoli giacevano nelle tenebre dell’errore e del peccato, e la voce di Gesù era per loro una grande luce, perché annunciava il regno di Dio e il vicino compimento della redenzione, esortandoli a far penitenza dei loro peccati.
Gesù Cristo era ancora solo, ma l’affluenza medesima del popolo che a Lui accorreva, attratto dalla sua parola e dai suoi prodigi, esigeva che Egli fosse aiutato nel suo ministero, e perciò cominciò a chiamare i primi apostoli.
Non si rivolse ai grandi della terra, non scelse uomini di scienza e di prestigio, ma poveri e ignoranti pescatori, semplici e schietti, come sono quelli che esercitano questo mestiere. Li chiamò non solo con la voce ma con la grazia interiore, ed essi, benché intenti al loro mestiere, lasciarono tutto e lo seguirono. Gesù Cristo scelse il momento opportuno per chiamarli, utilizzando le loro disposizioni interne naturali. Erano due coppie di fratelli: Simone, chiamato poi Pietro, e Andrea suo fratello, Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo; tutti e quattro avevano seguito il Battista (cf Gv 1,35ss) ed erano stati presenti al battesimo del Redentore, imparando dal loro Maestro a riconoscerlo Messia. Imprigionato Giovanni, erano ritornati al loro mestiere, certamente scoraggiati, e l’invito di Gesù li trovò perciò più disposti a seguirlo.
Il Sacro Testo sintetizza l’apostolato di Gesù Cristo, dicendo che Egli andava per tutta la Galilea, insegnando nelle sinagoghe che erano edifici rettangolari dove il popolo si riuniva per pregare e per leggere i Libri Santi; andava predicando la nuova Legge e sanava le malattie di quanti venivano a Lui presentati; scacciava satana dagli ossessi; curava i lunatici, ossia gli epilettici, chiamati così per l’influenza che, secondo la comune credenza, esercitavano sui loro eccessi le fasi lunari, e risanava i paralitici. La fama di questi prodigi si sparse fin nella Siria, e gran turba di popolo cominciò a seguirlo dalla Galilea, dalle dieci città poste al di là del Giordano, chiamate perciò Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea, e dalla Perea, all’oriente del Giordano.
Giovanni fu messo in prigione, e sembrò una sventura, poiché si soffocava una voce potente di rinnovazione in mezzo al popolo. Eppure, proprio allora, Gesù intensificò il suo apostolato di verità e di carità. Il sacrificio non è mai infecondo nelle vie di Dio, e dall’immolazione nasce sempre un maggior bene in mezzo alle anime.
Dalla regione più nobile, Gesù si ritirò in quella più umile della Galilea, per ricercare le anime semplici, perché è più facile che le parole veramente grandi siano ricevute dagli umili: i cosiddetti grandi del mondo, in realtà, sono materiati di miserie, e sono sordi alle voci della verità.

Per la nostra vita spirituale
La predicazione di Gesù Cristo, come quella di san Giovanni, cominciò con un’esortazione alla penitenza e un annuncio del regno di Dio, i due fondamenti dell’ascensione di un’anima: purificarsi, umiliandosi innanzi a Dio, e aspirare a Lui solo, facendolo regnare nel cuore e nella vita.
Il Redentore chiama i suoi primi apostoli, e sceglie quattro pescatori. Oh, come Dio deride l’orgoglio umano, e come ferma i suoi occhi sugli umili! Doveva rinnovare il mondo orgoglioso e sceglie pochi rozzi pescatori! Chi non avrebbe creduto che avesse dovuto far appello ai grandi e ai potenti?
I poveri pescatori ascoltarono immediatamente la sua voce e lasciarono tutto; lezione grande per noi quando siamo chiamati dalla grazia ad una vita più perfetta. Non basta rispondere fiaccamente all’invito di Dio, bisogna troncare ogni vincolo che ci unisce al mondo, e incamminarsi risolutamente per la nuova via. Bisogna abbandonare le reti cioè tutto quello che ci stringe nelle maglie della natura e degli attacchi terreni, bisogna uscire dalla mobilità della vita mondana, come da un mare in tempesta, e prendere terra con ferme risoluzioni nelle vie di Dio che sono agli antipodi di quelle del mondo. Il distacco generoso da tutto ciò che è terreno ci fa fare voli nelle vie di Dio e ci fa seguire Gesù, liberandoci dal languore dell’anima, dalle insidie di satana e dalle nostre infermità spirituali.
Molti chiamano gli uomini alla loro sequela, specialmente oggi che abbondano i falsi profeti; ascoltiamo solo l’invito di Gesù Cristo, e siamogli fedeli sino alla morte, rinnegando per suo amore noi stessi.
Potrebbe sembrare quasi un’anormalità rinnegarci, dato che certi doni di natura ce li ha dati Dio stesso; ma, rinnegandoci, non perdiamo quei doni: li trasformiamo e li eleviamo in una sfera immensamente più grande.
Dio mi ha dato l’intelletto perché io gliene facessi un olocausto nella fede; quando rinuncio alla mia povera ragione e credo, l’intelletto non rimane vuoto, ma ripieno della luce e della verità divina.
Dio mi ha dato la volontà perché io gliene facessi un olocausto nella Legge; la mia rinuncia la rende liberamente attiva nelle grandi e sapienti disposizioni della divina volontà.
Dio mi ha dato le forze fisiche ed ha formato il mio corpo di fragile carne, perché io gliene facessi un olocausto nella mortificazione; la mia rinuncia non diminuisce la carne, la trasumana e la rende angelicata, elevandola fino ai confini dello spirito.
Dio mi ha dato la vita perché io gliene facessi un’offerta nella medesima morte corporale, nella quale la vita si consuma per trasformarsi in vita eterna e in risurrezione gloriosa.
Dio mi chiama alla sua sequela e io lascio le reti che stringono la mia povera e limitata natura, lascio la mia fragilità, e mi slancio verso di Lui per trovare la vita.
Non è una perdita, è un guadagno, e se i pescatori di pesci, rinunciando alle reti e alle barche, divennero pescatori di uomini, noi, rinunciando a noi stessi, diventiamo ricercatori di tesori eterni, e ci eleviamo ad una perfezione arcana. Gesù Cristo medesimo ci mostra che cosa valga una rinuncia e quali frutti produca; Egli non volle servirsi della sua potenza per provvedersi miracolosamente di cibo, come avrebbe preteso satana: volle abbandonarsi al Padre, e il Padre gli mandò gli angeli per servirlo; più tardi immolò completamente se stesso nella più profonda umiliazione, e fu costituito Re dell’universo.
La rinuncia è guadagno; è la liberazione di ciò che impaccia l’anima; è lo slancio pieno della libertà, della ragione e della volontà nelle altezze cui tendono; è il pieno respiro del nostro essere nell'atmosfera celeste; è vuotarsi per essere riempiti, l’impoverirsi per essere arricchiti, morire per vivere.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 18 gennaio 2014

Anche noi siamo testimoni di Cristo

Commento al Vangelo – II Domenica del T. O. 2014 A (Gv 1,29-34)
Anche noi siamo testimoni di Cristo

        Giovanni sulle rive del Giordano, dava il battesimo della penitenza per rendere testimonianza a Gesù Cristo e preparare le anime al suo regno. È necessario approfondire questo tratto provvidenziale della sua vita e ricavarne le conseguenze.
        L’anima peccatrice ha un fitto velo innanzi alla mente che le impedisce di vedere la verità, e il velo le è tirato dall’orgoglio. Sembrerebbe incredibile, eppure è vero: più l’anima si degrada e più s’inorgoglisce, presume di sé, reagisce al bene e rifiuta la verità. È un fatto che può controllarsi ogni momento, e che ci fa vedere di quale natura è il nostro orgoglio maledetto. I superuomini da strapazzo sono tutti avviliti da particolari miserie che tolgono loro la vista interiore, e li rendono ripugnantemente presuntuosi.
        L’anima non può vedere se non si umilia; è come il miope che, per affissare lontano, deve impiccolire e socchiudere gli occhi, affinché i raggi giungano a fuoco sulla rètina. Il battesimo di san Giovanni era un atto di umiliazione, e produceva, nell’anima, uno stato salutare di impiccolimento che le rendeva meno difficile l’ascolto dell’annuncio dell’imminente redenzione, e più facile seguire, un giorno, il Redentore riconosciuto.
        L’anima andava a sottomettersi al messaggero di Dio, si riconosceva peccatrice, anelava alla giustificazione, riceveva il battesimo d’acqua, e capiva che ci voleva ben altro per ottenere la pace completa della giustizia. Si suscitava in lei il desiderio della rinascita, sentiva ripugnanza al peccato, se ne voleva liberare, ed era disposta a correre a Colui che Giovanni di proposito, e con profonda ragione, chiamò Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Il fiume stesso al quale accorrevano le turbe aveva qualche cosa di mistico, nel nome e nei ricordi storici che orientavano l’anima verso Dio in una salutare umiliazione, e in una piena fiducia.
        Giordano, fiume del giudizio che mostra o ricaccia il giudizio, discesa, ricordava il giudizio di Dio che mostra la verità e ricaccia il falso giudizio della nostra mente, facendo discendere l’anima nelle profondità della coscienza per giudicarsi ed umiliarsi.
        Le sue acque avevano qualcosa che ricordava il fluire del tempo, poiché passavano, passavano senza posa.
        Esse si arrestarono solo quando il popolo pellegrino dovette attraversare il letto del fiume, e il ricordo di questo grande miracolo risuscitava nell’anima il concetto della potenza e della misericordia di Dio. Le promesse fatte dal Signore ai patriarchi rivivevano in quel ricordo e in quel concetto, e il popolo sentiva più vivo il desiderio del Redentore.
        Giovanni rendeva testimonianza principalmente con la sua vita al Redentore. La sua parola sarebbe stata vana senza la vita santa e penitente che conduceva. Battezzando, egli faceva quasi fluire con l’acqua il fascino del suo esempio e l’unzione della sua virtù, e suscitava nelle anime il desiderio del bene, umiliandone salutarmente l’orgoglio.
        Anche noi dobbiamo rendere testimonianza a Gesù, ed essere, in certo modo, precursori della grazia di Dio nelle anime. Situati sulle rive vertiginose del tempo, discendiamo nelle profondità della nostra coscienza, giudicandoci per quello che siamo, e ricacciando da noi i falsi giudizi del mondo.
        Il giudizio della coscienza che si umilia e si pente dei suoi peccati è come il battesimo d’acqua della penitenza interiore che prepara al Battesimo di Spirito Santo della grazia sacramentale. L’anima prima si esamina e si giudica, poi corre dal Redentore, Agnello di Dio e, fatta pura dalla sua misericordia, diventa sua testimonianza innanzi agli altri, ai quali dona la prima luce riflessa di verità, perché discernano lo stato della loro coscienza ed anelino a Dio.
        Dobbiamo riconoscere umilmente che spesso noi siamo falsi testimoni del Signore con la nostra vita senza luce di verità e senza calore salutare di bene. Non mostriamo né fede viva né amore vero al Signore e, con tanti stolti giudizi sulla sua provvidenza e sulla sua giustizia, lo riguardiamo e lo facciamo riguardare in una luce falsa.
        Chi verrà dopo di me – diceva san Giovanni –, è più di me perché era prima di me; noi praticamente riguardiamo Dio come inferiore a noi, e osiamo giudicarlo col nostro inetto e falsissimo giudizio, invece di adorarlo profondamente, e curvare gli altri alla sua adorazione col nostro esempio. Eppure se pensassimo che dalla sua pienezza noi riceviamo grazia su grazia, e se pensassimo alla grazia e alla verità che ci vengono per Gesù Cristo, dovremmo essere in ogni tempo e in ogni circostanza come inni viventi della sua magnificenza e della sua gloria! Noi, anzi, dolorosamente, rendiamo orgogliosa testimonianza di noi stessi a scapito di Dio, proprio all’opposto di quello che fece san Giovanni.
        Quando i sacerdoti e i leviti, mostrando di averlo in grande considerazione, gli domandarono: Tu chi sei?, Egli, lungi dal rispondere con parole che potevano conciliargli la stima, rispose recisamente che non era né il Cristo né Elia né il profeta. Rispose negando, tanto era profonda la sua umiltà e la sua familiarità col proprio nulla. Non sono – ecco la risposta spontanea del suo cuore –, non sono, sono un nulla di fronte al Redentore, e sono solo una voce che grida per la sua gloria.
        Noi, all’opposto, abbiamo sul labbro sempre il nostro io, e ci crediamo sapienti, profeti, infallibili, forti, invincibili, esaltati sugli altri.
        Dovremmo dire:
        io non sono il Cristo,
        non ho unzione di grazia, sono un povero peccatore;
        non sono Elia, cioè non sono né signoreforte, perché sono fragile e vile nelle mie potenze;
        non sono il profeta, ossia uno spirito superiore;
        sono un povero stolto senza luce di sapienza e senza fiamma di vera carità.
        San Giovanni, strettamente parlando, non fece un atto di umiltà nel confessare che non era il Cristo; se avesse voluto profittare dell’interrogazione dei sacerdoti e dei leviti per usurpare un titolo che non gli competeva, sarebbe stato un mentitore; la prontezza, però, con la quale proclamò la verità, e l’orrore che aveva di poter essere scambiato per il Cristo rivelano la sua profonda umiltà.
        Noi non facciamo nulla di eccezionale nel proclamarci miserabili innanzi a Dio, ma facciamo un atto di giustizia che non deve farci insuperbire, e che deve farci riconoscere per quello che siamo e dobbiamo essere: voci di glorificazione sua in ogni atto della nostra vita e nel deserto del mondo. Questo nostro dovere deve comprenderci tutti, e deve farci temere di disonorare il Signore innanzi al mondo scellerato che lo rinnega e l’offende. Il maledetto rispetto umano potrebbe farci tergiversare innanzi agli altri che ci interrogano con gli sguardi maligni, con parole pungenti o con indegni inviti al male:
        Chi sei tu? Sei tu cristiano?
        Allora dobbiamo confessare e non negare che siamo di Dio che gli crediamo, lo onoriamo, lo amiamo, e che a nessun costo vogliamo offenderlo. E, se si ha l’ardire di parlar male di Dio, invece di mostrarci titubanti, dobbiamo proclamare la sapienza e la gloria, confessando che non siamo degni neppure di nominarlo, ad imitazione di san Giovanni che si proclamò indegno di sciogliere il legaccio dei calzari di Gesù.
         San Giovanni rese direttamente testimonianza a Gesù Cristo, additandolo alle turbe come Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, ossia additandolo come Redentore, riconoscendolo vero Dio, e confermando la sua testimonianza con quella dello Spirito Santo. Non basta a noi rendere testimonianza a Dio; dobbiamo renderla anche al Redentore, all’Agnello di Dio, partecipando ai grandi doni che Egli ci fa nella Chiesa, con i santi Sacramenti e specialmente col Sacrificio e col Pane eucaristico. La Chiesa stessa ci invita a rendergli questa testimonianza, poiché dispensando il cibo celeste ripete le parole del Precursore alle turbe: Ecce Agnus Dei, ecce qui tollis peccata mundi. Essere cristiani e non partecipare alla vita di Gesù Cristo che giova? Quale testimonianza può rendere al Redentore un’anima senza redenzione che si mostra nuovamente pagana e si degrada miseramente nel male? Siamo dunque voci che gridano nel deserto del mondo, voci di fede, di amore e di vita soprannaturale che invitino le genti al trono di Gesù Cristo, e le facciano vivere del suo dolcissimo amore.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 4 gennaio 2014

I Magi, l’adorazione del nato Redentore

Commento al Vangelo Epifania del Signore 2014 A

I Magi, l’adorazione del nato Redentore
        Quando nacque Gesù Cristo, regnava nella Giudea Erode, chiamato il Grande, si direbbe per una storica ironia, perché se fece molti lavori pubblici, fu un crudelissimo tiranno, e ottenne il regno a furia d’intrighi col senato romano. L’evangelista fa notare intenzionalmente che regnava Erode, un Idumeo straniero che rappresentava per di più l’autorità dei Romani, per far notare che Gesù Cristo, secondo la profezia di Giacobbe (cf Gn 49,10), era nato quando lo scettro regale era stato tolto a Giuda. Erode era padre di quell’Erode, tetrarca della Galilea che fece poi decapitare il Battista e schernì Gesù Cristo nella sua Passione. Alla sua morte, infatti, il regno venne diviso dai Romani in quattro tetrarchie e dato ai suoi figli; terminò così anche quella parvenza di regno che egli era riuscito a conquistare.
        Gesù Cristo nacque a Betlemme di Giuda, chiamata anche Efrata, piccola borgata situata a circa due ore di cammino a sud di Gerusalemme. Vi era un’altra Betlemme situata nella tribù di Zabulon in Galilea, e l’evangelista aggiunge al nome della città la regione cui apparteneva, per mostrare che il Redentore era nato nella città di Davide come suo discendente, e aveva compiuto, con la sua nascita, la profezia di Michea, ricordata ad Erode stesso dai principi dei sacerdoti.
        Non può dirsi con precisione da quanto tempo era nato il Redentore, quando alcuni sapienti dell’oriente, chiamati perciò con parola generica Magi, si recarono a Gerusalemme per adorare il nato Re, essendo stati chiamati alla sua culla da un astro fulgentissimo che era apparso nel cielo.
        Questi Magi studiavano astrologia, e non ignoravano la profezia di Balaam (cf Nm 24,17), con la quale si annunciava l’apparizione di una nuova stella in Giacobbe alla nascita del promesso Messia. All’apparizione della stella che era come una meteora luminosa, si sentirono internamente ispirati ad andare a Gerusalemme per far ricerca del nato Re, e intrapresero il lungo viaggio. Essi venivano probabilmente dall’Arabia e, secondo la comune tradizione, erano tre, sapienti e principi, tenuti in grande considerazione nel loro paese. La stella quasi li invitava al viaggio, perché si librava nell’atmosfera come un segno che indicava la direzione del cammino da intraprendere, e mostrava di muoversi in quella direzione. Non era dunque un astro che aveva un moto circolare, non poteva essere un’illusione, non poteva essere un segno confondibile con un fenomeno sidereo qualunque: era un segno celeste, una chiamata di Dio.
        La fede dei Magi fu grande, perché il viaggio non era facile, e fu grande soprannaturalmente, perché essi non avrebbero avuto interesse ad andare a conoscere un neonato re, se non avessero sentito e creduto che quel Re era il Salvatore promesso. Era la primizia dei pagani che il Signore chiamava alla fede – come dice la Chiesa –, era la rappresentanza del mondo che veniva a rendere omaggio all’Uomo Dio, e veniva a scuotere un po’ l’indifferenza con la quale era stato ricevuto in terra che pur lo aveva aspettato.
        È evidente dalla Tradizione e dal medesimo contesto del Vangelo che la stella li accompagnò durante il viaggio, e che si eclissò forse quando entrarono nella terra d’Israele.
        Dio che è infinita economia e non compie opere superflue, fece eclissare il segno straordinario dove era possibile essere guidati dai lumi naturali di chi stava al pubblico potere. Potrebbe anche supporsi che le nubi avessero eclissato la meteora e che essa rimanesse solo occultata nell’atmosfera. Comunque sia, i Magi, non sapendo dove andare, si rivolsero al re Erode, come a colui che avrebbe dovuto essere informato della nascita dell’atteso Messia. Con la semplicità che caratterizzava i popoli orientali, essi domandarono dove fosse nato il re dei Giudei, avendo visto la sua stella in oriente. Erode che aveva consumato tanti delitti per avere e conservare il regno, fu costernato a questa notizia, perché sapeva benissimo che gli Ebrei aspettavano un liberatore, e che da tutti si diceva prossimo l’evento. Dissimulò, pertanto, il suo turbamento e, nel suo crudele animo, fece già il piano di sbarazzarsi del nato Re, uccidendolo. Chiamò i capi delle classi sacerdotali e i dottori della Legge, e domandò loro con insistenza dove sarebbe dovuto nascere il Cristo. La sua domanda suscitò un turbamento in tutta Gerusalemme, perché la carovana degli stranieri che vi erano giunti, l’annuncio del compimento delle promesse, e forse soprattutto il timore della crudeltà del tiranno, sconvolto dall’annuncio della nascita del re aspettato, faceva temere al popolo qualche brutta sorpresa. L’ingratitudine umana, poi, non ha limiti, dolorosamente; il popolo si era adattato al regime di oppressione e, come tutti i popoli decaduti, preferiva rimanere supinamente oppresso, anziché venire in urto con chi lo dominava.
        Il Vangelo dice espressamente che Erode si turbò e con lui tutta Gerusalemme; non fu dunque un moto di commozione per l’annuncio del nato Re, ma un timore grande di nuove oppressioni da parte del tiranno, e di complicazioni penose che rese il popolo solidale col perfido monarca.
        Il prestigio dei Magi non doveva essere indifferente, se Erode prese in tanta considerazione la loro domanda, e la stimò così vera, da radunare il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, per sapere da loro la risposta che avrebbe dovuto dare. Si sapeva che le profezie riguardanti il Redentore erano determinate, e questo non poteva ignorarlo lo stesso Erode; non era dunque difficile rispondere ai Magi, facendo capo alle Scritture. Il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, infatti, fu unanime nell’affermare che il Redentore doveva nascere a Betlemme di Giuda, secondo la profezia di Michea.
        L’evangelista non cita letteralmente la profezia, ma il senso che dà è preciso. Michea dice che Betlemme è piccola fra le mille città di Giuda ma, nascendo da essa il Redentore, è grande; san Matteo dice nel medesimo senso che essa non è la minima tra le città principali di Giuda, perché da essa esce il condottiero che deve reggere il popolo d’Israele.
        Avuta la risposta, Erode chiamò segretamente a sé i Magi, perché volle evitare che il popolo li accompagnasse e andasse dal nato Messia, e s’informò minutamente del tempo nel quale era loro comparsa la stella. La risposta dei sacerdoti lo aveva anche di più insospettito e preoccupato, perché essa aveva un grande valore innanzi al popolo, e avrebbe potuto provocare una sommossa contro la sua usurpata autorità. Astuto com’era, finse di volersi recare anch’egli ad adorare il nato Re, e mandò i Magi a Betlemme perché l’avessero ricercato, e gli avessero riferito minutamente intorno al luogo dove si trovava. Voleva saperlo per poi farlo uccidere, e s’informò del tempo della comparsa della stella perché, al suo animo crudele, abituato alle stragi, già balenava l’idea di non ucciderlo direttamente attirandosi l’odiosità popolare, ma di coinvolgerlo in una strage comune.
        Appena udita la risposta del re, i Magi partirono, ed ecco che la stella, visto nell’oriente ed eclissata ai loro sguardi, riapparve nel cielo, con immensa gioia del loro animo, indicò la via da percorrere e si fermò sulla grotta dov’era ricoverato Gesù; è probabile, infatti, che la Vergine Santissima fosse stata costretta a rimanere in quella grotta, continuando l’affluenza dei forestieri a Betlemme per il censimento. Forse la dolcissima Mamma si fermò perché Gerusalemme era poco distante da Betlemme, ed attese il compimento dei giorni legali per presentare al tempio il Bambino; forse fu disposizione di Dio che il Verbo Incarnato rimanesse ancora in quella povertà estrema, per manifestarsi così ai pagani. Il fatto certo è che Maria stava ancora a Betlemme all’arrivo dei Magi, e si trovò sola col Bambinello, essendo andato san Giuseppe o a lavorare o a disbrigare faccende.
        I Magi non videro nulla di straordinario, ma videro ciò che era immensamente straordinario da ferire l’anima d’amore: videro Maria col suo Bambino divino e furono talmente colpiti dalla santità della Madre e dalla maestà del Figlio che si prostrarono e lo adorarono, non a mo’ di saluto, perché non avrebbero potuto salutare un infante, ma lo adorarono come Re e come Dio, e gli offrirono doni, come soleva farsi ai re, e doni particolari che si addicevano al Redentore: l’oro, l’incenso e la mirra. Con l’oro lo riconobbero Re, con l’incenso lo confessarono Dio, con la mirra riconobbero la sua condizione di Vittima.
         Innanzi a Gesù Cristo e a Maria Santissima si sentirono infiammati d’amore, provarono una felicità mai sentita nella loro vita e, avvertiti in sogno di non ritornare da Erode, temendo di essere vigilati dal tiranno, se ne ritornarono per un’altra strada, segretamente, al loro paese.
Padre Dolindo Ruotolo