sabato 29 giugno 2013

Gesù viaggia verso Gerusalemme

Commento al Vangelo della XIII Domenica del TO C 2013 (Lc 9,51-62)
Don Dolindo Ruotolo
Gesù viaggia verso Gerusalemme
        Avvicinandosi il tempo dell’assunzione di Gesù al cielo dopo la Passione e Morte, Egli si mostrò risoluto di andare a Gerusalemme. Sapeva bene che in quella città sarebbe stato condannato a morte, e poiché l’amor suo lo spronava a dare la vita per la salvezza di tutti, vi andava risoluto, cioè pronto ad accettare gli aspri tormenti che lo aspettavano. Siamo agli ultimi sette mesi della sua vita, ed Egli, dopo aver evangelizzato la Galilea, iniziava il viaggio verso Gerusalemme, per predicare la buona novella nella Perea e nella Giudea, e compiere la sua missione sul Calvario.

I Samaritani rifiutano di ospitare Gesù
        Avendo con sé non solo gli apostoli ma numerosi discepoli, Egli spedì avanti alcuni incaricati per preparare a tutti l’alloggio e il vitto e per disporre il popolo a riceverlo con frutto.
        La via più breve per andare a Gerusalemme era quella che attraversava la Samaria, regione sommamente ostile ai Giudei, specialmente quando si recavano al tempio per adorarvi il Signore. I Samaritani, infatti, avevano anch’essi edificato un tempio sul Garizim, rivale di quello di Gerusalemme e pretendevano che là vi si dovesse adorare Dio invece che nella santa città. Quando sapevano che un Galileo o un Giudeo si recava al tempio, gli mostravano tale ostilità da costringerlo o a desistere o a cambiare strada, facendo un cammino più lungo attraverso la Perea.
        È questa la ragione per la quale, quando i messi di Gesù entrarono in una città della Samaria per preparargli l’alloggio, i Samaritani non vollero riceverli e li scacciarono.
        Giacomo e Giovanni ne furono indignati, e avrebbero voluto invocare il fuoco dal cielo su quell’ingrata città. Essi sul Tabor avevano visto Gesù nella gloria, e con Gesù anche Mosè ed Elia; il ricordo della Maestà del Maestro provocava sdegno contro quelli che lo rigettavano, e il ricordo di Elia che, aveva chiamato il fuoco dal cielo contro i suoi nemici, faceva venire loro il desiderio d’imitare il suo gesto e di punire i Samaritani.
        Ma Gesù li redarguì severamente, dicendo: Non sapete di quale, spirito siete. Il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le anime ma a salvarle. Essi credevano di parlare per zelo, e invece quei pensieri di severa giustizia venivano loro da satana e dalla natura; essi non sapevano discernere lo spirito che in quel momento li animava. Il rifiuto che ebbero fu sgarbato, li disgustò, li offese, e il loro desiderio di giustizia era un sottile e subcosciente desiderio di vendetta. Volevano mostrare ai Samaritani non solo la superiorità del divino Maestro, ma anche la loro autorità; immaginavano che un segno spettacoloso avesse dovuto umiliarli, e far loro capire la loro inferiorità; c’era in quel desiderio di vendetta anche l’ostilità che sentivano in particolare contro i Samaritani, stimandoli scomunicati e maledetti.
        Ma Gesù non era andato nella Samaria per perderla; vi si era recato per salvarvi le anime, a Lui carissime, e non voleva diffondervi che misericordia e perdono; compatì quei poveretti che lo rigettarono e se ne andò in un altro villaggio.

Gesù non ci vuole a con la forza

        Egli condannò, in tal modo, tutte le irruenze del falso zelo, e col suo esempio c’insegnò a cercare le anime con grande mansuetudine e bontà. Le irruenze a che giovano? Provocano solo la reazione e una maggiore ostinazione di volontà nel male. Il Signore non ci vuole a sé con la forza, ma con l’amore; se a volte ricorre al castigo salutare, lo fa solo per trarre a sé le anime che hanno ancora una possibilità di convertirsi e di amarlo. I flagelli pubblici hanno sempre un carattere di misericordia, e sono l’ultimo assalto del suo amore alle anime ostinate nel male, sono l’ultima purificazione per quelle che sono sante. Lo zelo impetuoso, in realtà, sorge sempre dalla natura, ha sempre un carattere d’ira, di vendetta o di ritorsione e, lungi dal salvare, può perdere più presto le anime.

Come seguire Gesù nella vocazione religiosa
         Mentre Gesù camminava, uno gli disse di volerlo seguire dovunque fosse andato. Era un giovane o un uomo che, entusiasmato dalle sue parole, non voleva perderne una e voleva seguirlo, presumendo di eleggersi da sé come suo discepolo, per un sentimento tutto naturale. Ma la vocazione all’apostolato non può nascere dalla natura, comportando sacrifici e rinunce che non possono farsi senza una grazia particolare, e perciò Gesù gli disse: Le volpi hanno le tane, gli uccelli dell’aria i nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove riposare il capo. Se voleva seguirlo, doveva essere pronto ad una vita di privazione e di povertà, alle quali, evidentemente non doveva sentirsi disposto intimamente, pur credendo di avere ferma volontà di seguirlo.
        Non si va all’apostolato o alla vita religiosa per entusiasmo naturale o per vedute umane, ma ci si va per divina chiamata e rinnegandosi; e Gesù, per mostrarlo meglio, si rivolse ad un altro, e gli disse: Seguimi. Era un’anima che aveva dovuto sentire spesso l’impulso interiore della grazia, ma vi aveva opposto difficoltà, non sentendosi il coraggio di abbracciare una vita randagia, fatta tutta di rinunce e di prove; era però un’anima desiderosa della perfezione che aveva bisogno di una spinta di grazia per seguire la sua vocazione, e per questo Gesù decisamente lo chiamò: Seguimi. Egli oppose ancora una difficoltà: aveva il padre vecchio e voleva prima chiudergli gli occhi e seppellirlo; ma Gesù gli replicò: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti, ma tu va’ e annuncia il regno di Dio.
        Quell’uomo forse doveva avere in casa persone ostili al Signore e morte alla grazia; ora, se egli avesse frapposto indugio alla propria vocazione, come l’avrebbe potuta custodire? L’atto di pietà che voleva fare verso suo padre potevano farlo i suoi parenti, e non era necessario che lo facesse lui, con pericolo della vocazione e con danno dell’apostolato. Aveva avuto molte grazie, aveva ascoltato la parola della vita, poteva trasmetterla agli altri, e poteva impedire questo bene per compiere un atto di pietà che avrebbero compiuto i suoi familiari? Per essi, morti alla grazia, sarebbe stato almeno un merito e un’opera buona; per lui, chiamato ad una vita santa di apostolato, sarebbe stato un ostacolo; era dunque conveniente che i morti alla grazia facessero questo atto di virtù naturale e che egli, rinato alla grazia, annunciasse il regno di Dio.
        Alle recise parole di Gesù, un altro che era stato chiamato già, com’è evidente dal contesto e che sentì in quell’esortazione il dovere di seguire completamente il Signore, gli domandò almeno il permesso di salutare quelli di casa. Ma andare a salutarli per lui sarebbe stato lo stesso che farsi dissuadere, poiché l’ambiente della sua famiglia doveva essergli ostile, e Gesù che lo sapeva e prevedeva quello che sarebbe avvenuto, glielo avvisò, dicendogli in altri termini: Guarda bene che tu, andandovi, non mi sarai più fedele, e sarai come uno che mette prima mano all’aratro per lavorare, ma poi si scoraggia e lascia a metà il suo solco. Ti volgerai indietro, cioè penserai alle comodità lasciate, alla libertà di casa tua, alla tranquillità che potrai avervi rinnegandomi, e finirai per cedere alla natura e per essere infedele.
         Sono ammonimenti preziosi per la vocazione allo stato ecclesiastico o a quello religioso: chi vi è guidato non dalla chiamata di Dio ma dall’entusiasmo di un momento o da visuali più o meno poetiche, non pensa ai sacrifici che deve abbracciare, e quando li incontra finisce per conturbarsi, vi si rifiuta, ritorna al mondo con lo spirito sconvolto o rimane in una falsa vocazione con lo spirito disperato.
        È necessario, perciò, farsi chiamare dal Signore, implorare da Lui la grande grazia della vocazione, e abbracciarla per solo suo amore, nello spirito del sacrificio più completo. Chi è chiamato da Dio, può trovare difficoltà ad obbedire, nella stessa tenerezza del proprio cuore, e con la scusa o della pietà verso i propri cari, o delle convenienze umane, può rendersi infedele.
        Per essere tutti di Dio non si può guardare la naturale affezione del cuore: è indispensabile, anzi, anche rinnegarla esternamente e in tutto ciò che ha di naturale o di terreno, perché i parenti spesso non intendono né le vie di Dio né gli interessi della sua gloria.
        Chi abbraccia lo stato matrimoniale non fa lo stesso per amore di una creatura? La segue, si distacca, piangendo dai propri cari, ama quella creatura più di tutti, e se prevede che qualcuno voglia allontanargliela, lo fugge.
        Chi ha mai tacciato questo di inumanità o di esagerazione? E per Dio non si può fare almeno lo stesso?
        I parenti, poi, non sono eterni sulla terra, passano, ed è anche giusto e sapiente badare prima di tutto ai loro e ai nostri interessi eterni; lasciarli per amore di Dio significa renderli ricchi di un merito grande, perché un figlio o una figlia consacrati a Dio sono un grande titolo di salvezza eterna per i genitori e per i parenti, e significa provvedere al proprio imprescindibile bene eterno.
         È più bello donarsi a Dio, quando Egli ci chiama, donarsi rinunciando a tutto per amor suo, e ritrovarci poi nell’eternità, tutti insieme, in un imperituro godimento.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 22 giugno 2013

Tu sei il Cristo di Dio

Commento al Vangelo della XII Domenica del TO C 2013 (Lc 9,18-24)

Tu sei il Cristo di Dio
        Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, san Matteo e san Marco dicono che Gesù si appartò su di un monte per pregare, ingiungendo ai suoi di andare in barca all’altra riva. Nel mezzo del lago, gli apostoli furono sorpresi dalla tempesta, e Gesù li raggiunse camminando sulle acque. San Matteo narra in particolare l’episodio di san Pietro che, al comando del Maestro, camminò anch’egli sulle acque (cf Mt 14,22ss; Mc 6,46ss). Approdarono poi a Genesaret, dove Gesù operò molti miracoli, e di là si trasferì nei pressi di Tiro e di Sidone, dove avvenne l’episodio della Cananea (cf Mt 15,22ss; Mc 7,25ss).
        Ritornato in Galilea, Gesù vi guarì molti infermi, e in particolare un sordo-muto (cf Mc 7,32ss). La folla nuovamente lo circondò, e Gesù l’alimentò con una seconda moltiplicazione, facendo bastare sovrabbondantemente a circa quattromila persone sette pani e pochi pesciolini (cf Mt 15,32-39; Mc 8,1-10). Dopo questa moltiplicazione, avvenne una disputa con i farisei e i sadducei (cf Mt 16,1-4; Mc 8,11-13). Tornato a Betsaisa, Gesù vi guarì un cieco, sputandogli sugli occhi (cf Mc 8,22-26), e andato con i suoi nei pressi di Cesarea di Filippo, domandò loro che cosa dicessero di Lui gli uomini.
        San Luca non ricorda tutti questi avvenimenti e dalla prima moltiplicazione dei pani passa subito a parlare della domanda fatta da Gesù ai suoi apostoli sulle voci che correvano di Lui. A molti sembra inesplicabile questa lacuna di san Luca, e suppongono che sia andato perduto qualche foglio del suo manoscritto; ma è evidente che l’evangelista, avendo raccolto da altri le notizie dei fatti che narra, non ebbe particolari informazioni su quegli avvenimenti, o le ebbe frammentarie e pensò di non inserirle nel suo libro. Del resto, gli evangelisti non raccontano tutto quello che avvenne nella vita di Gesù, e non c’è da meravigliarsi della lacuna di san Luca. Si potrebbe anche supporre che Gesù non abbia domandato una sola volta agli apostoli che cosa si dicesse di Lui e che, dopo la prima moltiplicazione, appartatosi con loro in preghiera sul monte sul quale si era recato proprio per questo, abbia fatto quella domanda per risuscitare in loro la fede su quello che Egli era veramente.
        A noi questo sembra più probabile anche dal punto di vista psicologico: Gesù, infatti, aveva raccolto gli apostoli dopo la missione da essi compiuta, per farli rifocillare e riposare, e principalmente per dar loro, nel raccoglimento della preghiera, un maggiore sentimento di umiltà, ed evitare che avessero potuto gloriarsi di quello che avevano operato. Raccoltasi sul monte la turba, Egli non poté badare ai suoi apostoli; ma, licenziatala dopo il grande miracolo, li riunì in preghiera e domandò loro che cosa dicevano le turbe di Lui.
        È evidente dal contesto e anche dagli altri Vangeli che gli apostoli avevano capito poco o niente del miracolo della moltiplicazione dei pani, e Gesù, con quella domanda, volle richiamare la loro attenzione su quello che Egli era. Essi, infatti, non avevano ancora in Lui un pieno abbandono e una piena fede, si preoccupavano eccessivamente delle cose temporali, pensavano alla propria esaltazione, e gareggiavano fra loro chi fosse il più grande, perché non riflettevano che Egli era il Figlio di Dio.
Perché Gesù vieta ai suoi apostoli di rivelare la sua identità divina
        Alla domanda di Gesù, gli apostoli risposero riferendo le varie opinioni del popolo: chi diceva che Egli era Giovanni Battista, chi Elia, e chi affermava che era qualcuno degli antichi profeti risorto. E voi – soggiunse Gesù –, chi dite che io sia?
        Simon Pietro rispose subito per tutti: Il Cristo di Dio. La sua fede era piena, ed egli, nell’esuberanza del suo amore, parlò in nome di tutti, anticipando, senza pensarlo, ma per divina disposizione, i giorni del suo primato, nei quali avrebbe illuminato tutta la Chiesa con la sua infallibile fede.
        Era la verità, ma Gesù ingiunse severamente ai suoi apostoli di non dirla a nessuno, soggiungendo che era necessaria la sua Passione e Morte, e poi la sua risurrezione.
        A prima vista sembrerebbe che Gesù abbia voluto di proposito essere sconosciuto ai suoi nemici, per rendere possibile la sua Passione e Morte, e sembrerebbe anche che essi non avessero colpa di non averlo riconosciuto, dato che Egli non voleva manifestarsi per quel che era. Gesù Cristo, invece, conosceva il cattivo animo dei suoi nemici e sapeva che una confessione esplicita e prematura della sua Divinità, fatta dai suoi apostoli, li avrebbe maggiormente aizzati contro di loro e contro di Lui, rendendoli più colpevoli. Egli doveva patire ed essere riprovato; questa era una necessità conseguente al suo disegno d’amore e all’utilizzazione che voleva fare della stessa perversità dei suoi nemici, ma non dava loro il pretesto per farlo, e nella sua misericordia li attendeva a salutare ravvedimento con l’evidenza dei fatti che compiva e voleva compiere.
        Questo ci fa intendere l’ammirabile pazienza di Dio con i peccatori: Egli sa quello che faranno e non manca di dar loro tutti gli aiuti per operare il bene; sa che ne abuseranno, e li dà loro in modo da ridurre al minimo la responsabilità della coscienza. Si nasconde non per impedire che rinsaviscano, ma per renderli meno colpevoli.
        Egli, poi, sa che i suoi eletti ricaveranno tesori di meriti dalle mani dei perfidi e, pur di arricchirli per la ricompensa eterna, non ha ritegno di apparire Egli ingiusto e di dar mano lunga ai peccatori. Il suo divino gioco si vedrà subito, del resto; i pochi secoli della storia del mondo sono meno che attimi innanzi a Lui, e la sua grande carità, giustizia e misericordia verranno presto giustificate.

A noi Dio domanda: E voi chi dite che io sia?

        Ci sono oggi quelli che credono Gesù persino malefico – è terribile, è terribile! –, e lo combattono più che non si faccia con un nemico, e Dio domanda, con l’impeto del suo amore, alla nostra fede: E voi chi dite che io sia? Che cosa risponderemo noi? Oseremo ancora mormorare di Lui, o rimanere titubanti sulla sua infinita Realtà, sulla sua sapienza e sul suo amore? Oseremo ancora giudicarlo alla stregua delle suggestioni di satana o a quelle del nostro maledetto orgoglio?
        Rispondiamo con l’impeto dell’amore: Tu sei la Verità, la Sapienza e l’Amore per essenza; Tu sei l’Eterno, l’Infinito, l’onnipotente Padre, Figlio e Spirito Santo.
        Tu sei Potenza, Provvidenza e Carità, e compi tutto con forza, con soavità e con amore, o Santissima Trinità!
        Che cosa dice di te il mio intelletto? Ti credo!
        Che cosa dice la mia volontà? Ti obbedisco!
        Che cosa dice il mio cuore? Ti amo!
        Che cosa dico di te nelle oscurità della vita? Ti adoro!
        Che cosa dico nei dolori? Ti ringrazio e ti amo!
        Che cosa dico nelle tenebre e nelle angustie? Confido in te!
        Che cosa dico quando mi chiami al compimento della tua volontà? Adsum! Ecce Ancilla Domini fiat mihi secundum verbum tuum.
        Che cosa dico quando la vita mi si rende tribolata? Sono peccatore, merito mille volte di più, ti offro tutto in riparazione!
        Che cosa dirò nella morte quando tutto mi sfuggirà? Ecce venio ad te quem amavi, quem quaesivi, quem semper optavi, ecco vengo a te che ho amato che ho desiderato che ho sempre voluto!
        Voglio che la mia vita sia tutta un atto di fede, di speranza e di amore, voglio renderti testimonianza di verità, di sapienza e di carità, anche a costo di agonizzare; voglio essere geloso della tua gloria e difenderla contro tutto e contro tutti.
        Non è uscita mai, dal mio labbro, una parola di lamento su te, e col tuo aiuto non uscirà mai, anche se queste labbra mi si marcissero, o mio Dio; e se satana mi tenta, non farò mai affiorare dal mio spirito le sue tentazioni ma le soffocherò nella fede e nell’amore, perché il loro lezzo non ammorbi gli altri.
        Voglio portare scritto, sulla mia fronte coraggiosa: Dio è mia gloria; sul mio intelletto: Dio è mia luce; sul mio cuore: Dio è mio amore!
        Voglio deridere tutto ciò che non viene da Lui che non è per Lui che non è con Lui; voglio aborrirlo, anche se avesse le parvenze del bello, del vero e del buono, perché Tu solo, o Dio, sei Bellezza, Verità e Bontà!
        Un libro che abbia una sola ombra contro la sua gloria per me è più fetido d’un sepolcro e più ripugnante d’un arto consunto dalla lebbra.
        Un oggetto che è macchiato di obbrobrio, perché contro la sua volontà e contro la sua Legge è per me più abominevole d’un demonio.
        Una conoscenza che non mi porti a conoscerlo e ad amarlo è per me più tenebrosa di un abisso!
        Dio, Dio mio che cosa dirò di te, io, piccola tua creatura? Farò del mio intelletto un timpano di luce per osannare alla tua eterna verità; farò del mio cuore un cembalo d’amore, per cantarti amore; farò del mio corpo un’arpa a dieci corde, intonate ai tuoi comandi, per cantarti tutta la mia fedeltà!
        Che cosa ti dirò io, creato dalla tua onnipotenza, mondato dalla tua misericordia, e vivificato dal tuo amore? Ti dirò che sono tuo che canto le tue misericordie in eterno e che corro a te come cervo alla fonte!
        Oh, non mi dite che su di una parola del Vangelo io mi dilungo, poiché non è mai eccessiva la protesta dell’amore tra le voci folli che corrono nel mondo su Dio!
        Ponderate quel che dicono gli uomini di Dio, e vedete se non erompe, se non deve erompere dal nostro cuore, percosso come la roccia del deserto, un fiume d’amore, un devastante fiume che tenti trascinare nell’abisso tutte le brutture dell’ingratitudine umana.
        Oh, come potrebbe essere eccessiva la testimonianza resa all’infinito?
        Si può imporre un freno al cuore che geme, o un laccio all’impeto dell’amore ferito? Ed io gemo, o mio Dio, perché la tua gloria è manomessa dai vilissimi vermi umani, e il mio povero amore è ferito dalle ingiurie che ti si rivolgono! Perché non mi dai le ali, perché non mi muti in un turbine, perché non divento una fiamma, perché non volo, turbinando là dove è rinnegato il tuo Nome, e perché non consumo col mio amore quello che si oppone al tuo Amore?

Domandami ancora, mio Dio: E tu, cosa dici di me?

        Domandamelo ancora, mio Dio: «Che cosa tu dici di me?». Domandamelo, perché non mi stanco di dirtelo: Tu sei carità!
        Che cosa dico di te? Ti risponda tutto l’essere mio fatto vittima d’amore; ti risponda con le armonie del dolore, erompente dalla mia fragilità come scroscio d’amore: “Tu sei degno d’ogni amore, Tu solo!”.
        Che cosa io dico di te? Ti risponda per me la mia sorella morte, spegnendo la mia fiamma, crepitante tra le angustie dell’agonia: “Sei vita!”.
        Che cosa dico di te? Ti risponda per me dal mio sepolcro la putredine che dissolverà il mio corpo: “Tutto invecchia come panno che si consuma, e Tu sei l’immutabile!”.
        Che cosa io dico di te? Ti risponda per me l’armonia dell’eterna gloria, nella quale spero che ti loderà l’anima mia in eterno: Santo, Santo, Santo, sei Tu, Dio della gloria, Padre, Figlio e Spirito Santo, Potenza, Sapienza e Amore… O Santissima Trinità! 
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 15 giugno 2013

Il tenero spettacolo della peccatrice penitente ai piedi di Gesù

Commento al Vangelo della XI Domenica del TO C 2013 (Lc 7,36-8,3)

Il tenero spettacolo della peccatrice
penitente ai piedi di Gesù
        Uno dei farisei, Simone, volle mostrare a Gesù di essere cordiale e generoso, e lo pregò che andasse a mangiare con lui. Sperava forse di ragionare con Lui e confutargli tante sue idee; aveva forse un segreto desiderio di scrutarlo, stimandolo un illuso. Il non avergli fatte le cortesie rituali dovute agli ospiti ce lo fa supporre; se l’avesse invitato per aver l’onore di ospitarlo, lo avrebbe trattato con cordialità e con onore. È probabile pure che avesse avuto qualche beneficio da Gesù, e che, per una convenienza umana, l’avesse invitato per disobbligarsi; questo può rilevarsi dalla parabola dei due creditori che il Redentore gli raccontò.
        Gesù accettò l’invito non tanto per il fariseo, quanto perché la sua misericordia aspettava una povera peccatrice e voleva darle modo di rintracciarlo comodamente.
        Gli orientali solevano lasciare aperte a tutti le porte d’un banchetto, perché si potesse curiosare sui convitati; Simone, quindi, seguì questo uso, anche perché molti ricercavano Gesù.
        Una donna – identificata in Maria Maddalena dai migliori interpreti –, peccatrice nella città, cioè peccatrice pubblica, appena seppe che Gesù era a tavola, presa da un grande pentimento delle sue colpe e da un grande amore soprannaturale, entrò nella sala e si gettò ai piedi di Gesù.
        Gli antichi mangiavano su divani, coricati sul lato sinistro, e con i piedi che sporgevano indietro, di modo che fu facile alla donna genuflettersi e abbracciare i piedi di Gesù. Essi erano nudi, perché a tavola si lasciavano i sandali per non imbrattare i divani.
        Era una povera peccatrice, traviata più dall’ardente suo cuore che da una profonda degenerazione; aveva ascoltato Gesù, aveva assistito forse al miracolo del giovane risuscitato, e aveva sentito nel cuore un profondo rammarico delle sue colpe. Il volto di Gesù l’aveva conquisa con un amore purissimo che tutta la trasfigurava, e aveva sperimentato e controllato, in questo nuovo amore, tutta l’abiezione della sua vita.
        Era stata ella a Nain un’insidiatrice del giovane, morto prematuramente? Aveva sentito, in quella morte, il primo rimorso cocente del proprio peccato, vedendo piangere la desolata madre? Aveva visto, nel miracolo di quella risurrezione, la possibilità per lei di risorgere dalle sue colpe? Si può anche supporre, perché pare certo che ella era una peccatrice pubblica proprio a Nain.
        Entrò nella casa del fariseo senza curarsi di nessuno, tutta presa da rimorsi e da angustie, portando con sé un vasetto di prezioso unguento; genufletté, si abbracciò ai piedi Gesù e, a quel divino contatto, sentì tanto dolcissimo pentimento a tanto purissimo amore che cominciò a piangere, a piangere e, come facevano le donne supplicanti sulle soglie del tempio che le bagnavano di lacrime e le asciugavano con i capelli, ella discioltasi la chioma, sentendo in quel Corpo divino un mistero più arcano di un tempio, cominciò ad asciugare i piedi divini con i suoi capelli e ad ungerli con l’unguento.
        Nelle lacrime, espandeva il suo pentimento, nell’unguento manifestava il suo amore, e l’amore la rinnovava tutta, perché attraeva in lei la misericordia di Dio. Fu un momento dolcissimo: ella si liquefaceva di pentimento e d’amore, e si espandeva il Cuore di Gesù in una tenerezza infinita.
        Egli le si comunicava nella misericordia e nella purezza, ed ella, in quella comunione, sentiva che cos’era il suo Signore. Aveva tutta l’esperienza dei contatti umani, sapeva bene le tormentose fiamme che accendono nei sensi, conosceva il lezzo della carne e controllava che cosa mirabile e divina era il Corpo di Gesù.
        Quale vita le si trasfuse nell’anima, e con quale fede ella sperò il perdono di tutte le sue colpe! Sentì che Gesù era la fonte della misericordia, e non si mosse dai suoi piedi senza aver ricevuto la remissione. Le sue lacrime erano una confessione fatta a Lui, i suoi singulti erano una riparazione pubblica, e il suo cuore si spezzava d’amore e di pena. Sentì che Gesù era Dio che l’offeso dai suoi peccati era Lui, e che la misericordia poteva venirgli solo dalla sua assoluzione.
        Pianse, pianse ancora; la tenerezza di Gesù per lei da Lei avvertita nella comunione speciale del suo Corpo divino, le fece intendere l’amore che Egli portava alle anime, e pianse per quelle che ella aveva scandalizzate. Furono le sue più cocenti lacrime.
        Come una mamma, carezzata dalle morbide mani del suo piccino, s’intenerisce, e quel soave contatto d’amore tutta la commuove, così Gesù, alle lacrime della donna e al contatto dei capelli di lei, espressione di adorazione e di amore s’intenerì e mostrò, dal suo volto luminosamente divino, la misericordia che lo commoveva.
        Era soavissimo, dolcissimo, bellissimo e, negli occhi suoi cerulei, sfavillava la grazia e rifulgeva la carità. Era assorto nel grande mistero della rigenerazione e pensava al gran dono che voleva fare all’umanità del suo Corpo e del suo Sangue come redenzione e come Cibo di vita. Si comunicava per la prima volta in quel modo speciale ad un’anima, ed era quello un’anticipazione del banchetto della vita.
        Fluiva da Lui una virtù arcana, non per risanare un corpo ma un’anima, e dava le primizie dell’amore del suo Cuore adorabile.
        Il fariseo non poté minimamente scandalizzarsi che Gesù permettesse alla donna di toccarlo, tanta era la luce di divina purezza che traspariva da Lui; si scandalizzò, anzi, che la sua santità potesse sopportare quel contatto e giudicò subito che Egli non poteva essere un profeta, non accorgendosi che quella donna era una peccatrice. Questa circostanza ci fa vedere quale stima avesse dell’immacolato candore di Lui, nonostante che, come fariseo, fosse sempre sospettoso.
        Gesù Cristo mostrò a Simone che era un profeta, rispondendo subito con una parabola al suo pensiero, e facendogli intendere che Egli conosceva i cuori e li scrutava. Gli propose una questione e gliela propose quasi lusingandolo nella sua saggezza, reclamando da lui un parere. Fu un atto di delicatezza divina, perché volle riabilitare ai suoi occhi la povera donna, costringendolo a dargliene quasi il fondamento.
        Un creditore – disse –, aveva due debitori; uno gli doveva cinquecento denari e un altro cinquanta. Non avendo essi di che pagare, condonò il debito ad entrambi. Chi, dunque, lo amerà di più? E Simone rispose che, per gratitudine, doveva amarlo colui al quale era stato condonato di più. Gesù disse al fariseo, quasi facendogli un plauso: Hai giudicato bene. Poi gli manifestò in tono di amicizia quello che lui non aveva fatto nel riceverlo in casa, e lo contrappose a quello che gli aveva fatto la donna.
        Era uso onorare gli ospiti, prima di tutto facendo loro lavare i piedi, o lavandoli personalmente, perché impolverati. Dopo la lavanda si dava loro il bacio di pace e di amicizia e si ungevano con olio profumato i loro capelli e la barba. Simone non aveva fatto nulla di tutto ciò, mentre la donna gli aveva lavato i piedi con le lacrime, li aveva asciugati con i capelli, e li aveva ripetutamente baciati, cospargendoli con l’unguento.
        Con delicatezza divina, Gesù non volle essere severo verso Simone, attribuendo i mancati uffici di ospitalità a scortesia, ma li attribuì solo ad un debito minore di riconoscenza che egli aveva verso di Lui. La donna, invece, aveva avuto un beneficio immenso, cioè il perdono di tutte le sue colpe, e perciò era stata così piena di amorosa gratitudine. Indirettamente e con la stessa divina signorilità, Gesù avvertì Simone che egli aveva ricavato poco frutto dalla sua visita, e per questo aveva amato poco. La presenza di Gesù che avrebbe potuto rinnovargli il cuore, appena appena gli aveva tolto qualche difetto e qualche ruggine dall’anima. Aveva amato poco perché aveva raccolto poco.
        Questa verità, Gesù gliela disse attribuendo quasi a sé il poco che aveva avuto, per non mortificarlo innanzi agli altri. Lo giustificò nei mancati uffici di ospitalità, lo riprese con estrema delicatezza del poco frutto che aveva ricavato dalla sua visita, e manifestò il grande frutto che ne aveva tratto la peccatrice. Logicamente non trattò della fondamentale questione che il fariseo si era proposta tra sé, cioè come permettesse ad una peccatrice di toccarlo, perché ella era già rigenerata; perciò, rivolto a lei, disse in tono d’amore onnipotente: Ti sono rimessi i peccati.
        Quest’ultima espressione di misericordia ci fa intendere con quanta umiltà la peccatrice avesse accolto la discussione che si faceva su di lei. Lungi dal giustificarsi o dallo scusarsi, ella doveva convenire, con le lacrime e con i gemiti che era una grande peccatrice e, poiché ella stessa si esponeva al disprezzo dei convitati, Gesù volle riabilitarla, dicendole: Ti sono rimessi i peccati. Glieli aveva già perdonati, ma con queste parole le diede la certezza dell’assoluzione.
        Parlò con tanta divina maestà e con tale accento di verità che i convitati non poterono dubitare che le avesse realmente perdonato i peccati, e perciò dissero stupefatti: Chi è costui che rimette anche i peccati? E Gesù, ancora una volta, confermò alla donna la misericordia che le aveva fatta, dicendole: La tua fede ti ha fatta salva, vattene in pace. Non l’aveva salvata una fede sterile né le era bastato credere per essere giustificata; aveva confessato i peccati piangendo e ne aveva ricevuto formalmente l’assoluzione da Gesù. Gli atti d’amore poi che gli aveva fatto, erano stati la sua penitenza riparatrice. Questo è un argomento perentorio contro i poveri protestanti che negano la confessione, dicendo che basta credere per essere giustificati.
Noi peccatori e la misericordia di Dio
        La soavissima scena della povera peccatrice deve farci aprire il cuore alla penitenza e all’amore. Siamo peccatori, ma non dobbiamo mai diffidare della divina misericordia e dobbiamo implorarla ai piedi del confessore che rappresenta Gesù Cristo. Nella Chiesa, dov’Egli siede a mensa nel banchetto della vita, cerchiamo i suoi piedi, umiliandoci nel tribunale della penitenza; piangiamo i nostri peccati, serviamoci delle stesse cose che abbiamo nella vita, figurate dai capelli, per purificarci con la carità e profumiamo Gesù col prezioso unguento delle virtù contrarie ai peccati commessi. È questa la migliore penitenza che possiamo fare.
        Che cosa gioverebbe una semplice preghiera espiatoria, senza togliere dall’anima gli abiti dei vizi? Se si pecca di superbia, bisogna dare a Gesù profumi di umiltà, se d’impazienza, profumi di mansuetudine, se di avarizia, profumi di generosità, se d’impurità bisogna dargli profumi di gigli.
        Piangere, astergere, baciare, profumare: ecco gli atti di una vera penitenza; piangere col pentimento, astergere con la riparazione, baciare con l’amore, profumare con la virtù.
        Piangere innanzi agli altri e non soltanto nel proprio cuore, perché la penitenza è atto anche di riparazione esterna al male commesso; astergere i piedi di Gesù cioè i poveri – come spiegano i Padri –, riparando i peccati con la carità; baciare Gesù, confidando in Lui, perché la penitenza non è mai disgiunta dall’amore e, infine, profumare Gesù che siede a mensa, espandendo il cuore in Lui, Sacramentato.
        Il mondo abbonda dolorosamente di peccatrici pubbliche, non solo di quelle che sono vendute al peccato, ma di quelle che allettano al male ostentando l’impurità dell’anima e del loro corpo.
        Che cos’è la moda invereconda; che cosa sono le spiagge, i balli, e gli sports nei quali si baratta il decoro femminile, se non un meretricio di anime? Vanno in giro le peccatrici per attrarre gl’incauti nei lacci dei sensi, ma hanno un marchio d’infamia che le distingue; vanno in giro le mondane per attrarre le anime nelle degradazioni della loro eleganza e sono anche più funeste e pericolose. Le prime esigono il prezzo del loro peccato, le seconde si esibiscono senza prezzo, moltiplicando i peccati.
        Forse il peccato di pensiero e di desiderio è meno grave di un peccato consumato? Lo disse Gesù: Chi guarda una donna col desiderio di peccare ha commesso adulterio nel suo cuore.
        Quante peccatrici, che sono nelle città, hanno bisogno di andare ai piedi di Gesù e di ricorrere alla sua misericordia!
        Oh se si capisse questa grande verità! È raro trovare una mondana che non sia peccatrice nella città, poiché è raro che essa non macchi le anime con la sua procacità.
        Come può rimanere tranquilla, sapendo di avere acceso in altri fiamme di concupiscenza? Come può ostentare se stessa, invece di nascondersi? Con qual cuore può presentarsi al medesimo tempio di Dio indegnamente, quando dovrebbe andarvi solo per piangere i propri peccati?
        Si pecca con gli occhi: e piangano essi amaramente per essere purificati.
        Si pecca con le ostentazioni del lusso: e servano a lenire le pene dei poverelli.
        Si pecca attraendo coi belletti e coi profumi: se ne faccia rinuncia a Gesù per amore.
        Piangiamo i nostri peccati, poiché nulla è più soave e dolce di questo pianto, e imploriamo la misericordia di Gesù, perché dica anche a noi la consolante parola: Ti sono rimessi i peccati.
La donna cooperatrice del regno di Dio
        Presso gli Ebrei, benché la donna non fosse ridotta allo stato obbrobrioso al quale l’aveva degradata il paganesimo, tuttavia si trovava in una condizione d’inferiorità che, con gli abusi e le sopraffazioni degli uomini poco fedeli alla Legge, poco differiva da quello pagano. Gesù Cristo la riabilitò in modo mirabile, nascendo da Maria Vergine e formando di Lei un capolavoro stupendo di grazia e di santità, ma non si contentò solo di questa mirabile elevazione che formò di una donna la Corredentrice e la Madre degli uomini; volle servirsi delle donne come cooperatrici dell’apostolato.
        Le donne spesso soccorrevano i rabbini, provvedendoli del necessario alla vita, ma non osavano seguirli e mostrarsi in pubblico; Gesù Cristo, invece, permise che alcune pie donne lo seguissero nell’apostolato, e formò di esse come le antesignane delle innumerevoli schiere che nella sua Chiesa dovevano cooperare all’evangelizzazione del mondo. Possiamo dirlo con sicura verità: fu il primo gruppo di Azione Cattolica femminile.

Le pie donne al seguito di Gesù

        Gesù Cristo volle le donne alla sua sequela, non tanto per avere un aiuto nelle necessità imprescindibili della vita terrena, alla quale Egli si era sottomesso, quanto per formare il primo gruppo di cooperazione nell’apostolato.
        Le pie donne che lo seguirono, furono attratte a Lui dai benefici spirituali o corporali che avevano ricevuto, e per gratitudine misero a sua disposizione le loro sostanze; ma fu la grazia divina che principalmente le attrasse e il Signore fece loro il più gran dono chiamandole a sé.
        Non furono molte, ma in cambio furono fedeli fino al Calvario e, benché la loro fede fosse crollata, rimase in loro la fedeltà della compassione fino al sepolcro del Maestro divino, ed ebbero per prime l’annuncio della risurrezione.
        Gli apostoli persero la fede e fuggirono, le pie donne la persero senza fuggire, e la compassione fu come il terreno nel quale la grazia poté risuscitarla.
         Il Sacro Testo enumera alcune di queste pie donne: Maria Maddalena, la peccatrice, dalla quale Gesù aveva fatto uscire sette demoni, quando l’aveva liberata dal peccato; Giovanna, moglie di Cusa, intendente e tesoriere di Erode, probabilmente colui al quale Gesù guarì il figlio, e che credé perciò in Lui con tutta la sua famiglia (cf Gv 4,53); Susanna, della quale non abbiamo notizie, e molte altre. Maria Maddalena, riabilitata dal suo amore verso il Redentore, prima nel pio gruppo, doveva dar coraggio nei secoli a tutte le povere donne traviate, e mostrare loro come la sincera penitenza può trasformare l’anima in creatura nuova.

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 8 giugno 2013

Il figlio della vedova di Nain

Commento al Vangelo della X Domenica del TO C 2013 (Lc 7,11-17)

Il figlio della vedova di Nain
       Gesù Cristo da Cafarnao si avviò verso la città di Nain, distante da Cafarnao una giornata di viaggio, per continuare la sua missione, insieme con i suoi discepoli e accompagnato da una gran turba di popolo.
       Alle porte della città, nel luogo più affollato dove si trattavano gli affari, veniva portato alla sepoltura un giovane, figlio unico di una madre vedova. La madre, priva del suo unico sostegno, piangeva desolatamente. Gesù le si accostò pieno di compassione e le disse con un tono di rassicurazione: Non piangere. Egli si commosse non solo per il dolore di quella povera donna, ma anche perché vide in lei l’immagine di Maria Santissima che in un giorno non lontano l’avrebbe pianto morto sulla croce. Psicologicamente, infatti, la compassione è viva quando il dolore altrui ha riflessi ed echi nel nostro cuore; ora, Gesù aveva continuamente presente la sua Passione e i dolori che avrebbe sofferto la sua Madre divina; quella madre addolorata non poteva non richiamargli il pensiero di Maria.
       Dire alla donna: non piangere, era lo stesso che prometterle il suo intervento miracoloso e confortarla efficacemente. Egli, in quel momento stesso, con la sua onnipotenza, troncava la causa del dolore di quella desolata madre e, avvicinatosi alla bara, la toccò, ingiungendo, con quel gesto, ai becchini, di fermarsi. Rivolto poi al cadavere disse in tono di comando: Giovanetto, io ti dico, alzati. E subito il morto si alzò e comincio a parlare.
       Fu un momento impressionante. Tutti erano testimoni che quel giovane era veramente morto e siccome andava allo scoperto sulla bara, tutti videro in un istante rianimarsi quella vita. Nelle parole di Gesù: Giovinetto, io ti dico, alzati, si sentì l’onnipotenza che le pronunciava, come nelle parole del morto si sentì l’eco del mistero d’oltretomba, di modo che tutti furono presi da grande timore. Che cosa abbia detto il giovane non lo sappiamo, ma forse emise un’esclamazione di stupore, vedendosi sulla bara e chiamò a gran voce la madre. Per questo Gesù, facendogli coraggio e non osando nessuno avvicinarsi al morto risorto, lo liberò dalle bende che lo avvolgevano e lo rese a sua madre.
       Il timore che invase tutti li sforzò a glorificare Dio e a riconoscere che un grande profeta si era loro manifestato, e il Signore aveva visitato il suo popolo. Non confessarono apertamente che Gesù era il Messia promesso, ma molti dovettero pensarlo, perché il miracolo era stato grande e impressionante.

La risurrezione. I giovani morti alla grazia

       Quel giovane era un’immagine viva di quelli che, trascinati dalle passioni, muoiono miseramente alla grazia e sono portati verso la morte eterna.
       Immobili, incapaci di operare soprannaturalmente, corrotti nelle loro potenze e nei loro affetti, sono pianti dalla Chiesa che, quale madre desolata, li segue nella loro rovina per vivificarli almeno con le sue lacrime e le sue preghiere. Col suo pianto sconsolato, Ella invoca Gesù e reclama il suo intervento, perché li arresti sulle vie della perdizione e li ridoni alla vita. Non si risorge dalla morte spirituale senza l’intervento di Gesù, poiché Egli solo può, con un tocco di grazia, arrestare il cammino verso la morte e ridonare la vita.
       Quante esequie vediamo noi per le vie del mondo e non ce ne accorgiamo!
       Spesso il movimento che vi vediamo è agitazione di funerali, poiché le anime che vi partecipano sono morte alla grazia, e la vita, in realtà, le porta verso l’eterna corruzione.
        Dovremmo piangere amaramente, e invece ridiamo indifferenti, dovremmo cooperare con lo zelo ad arrestare quella corsa alla perdizione, e invece tante volte vi cooperiamo! Oggi specialmente, quante insidie uccidono l’anima dei giovani, e quanti di questi fiori immaturi sono già recisi dalla pianta viva e sono gettati nel fango per marcirvi! Preghiamo per la gioventù, arrestiamola in nome di Dio col nostro apostolato sulle vie del male e restituiamola alla Chiesa, l’unica che ha il diritto di guidarla, l’unica che sa piangere sulle sue miserie, reclamando per essa, da Gesù, la misericordia e la vita.
Padre Dolindo Ruotolo