venerdì 26 settembre 2014

I due figlioli e i cattivi vignaioli


Commento al Vangelo della XXVI Domenica TO 2014 A (Mt 21,28-32)

I due figlioli e i cattivi vignaioli
I principi dei sacerdoti, cioè i capi delle 24 famiglie sacerdotali, e gli anziani del popolo, cioè i membri del sinedrio appartenenti al popolo, erano sommamente adirati nel vedere che Gesù insegnava, sembrando loro un arbitrio, e perciò gli si avvicinarono, domandandogli con quale potestà compiva quel ministero. Non glielo chiedevano per indagare, ma per dirgli, con quell’espressione, che egli usurpava un potere che non aveva. Gesù Cristo non avrebbe potuto rispondere loro che insegnava per propria divina autorità, perché essi ne avrebbero preso motivo per tacciarlo di bestemmia; non poteva venire a discussione con loro, perché erano mal prevenuti; Egli allora, per convincerli che erano mossi da malafede, disse che voleva prima da loro una risposta precisa sulla natura del battesimo di san Giovanni. Se avessero agito per vero zelo non sarebbero dovuti ricorrere a sotterfugi, ma dire apertamente la verità; essi, invece, risposero che non sapevano da dove provenisse il battesimo di san Giovanni, e Gesù, di rimando, disse che neppure Egli avrebbe detto loro con quale potestà operava.
Con delicata carità, volle richiamare la loro attenzione sulle vere disposizioni della loro coscienza, e su quelle della sinagoga, e volle indirettamente rispondere alla loro domanda; perciò propose le parabole dei due figlioli e dei cattivi vignaioli. Essi si mostravano così zelanti dell’osservanza della Legge, ma a parole soltanto; in pratica non ne facevano nulla, mentre i peccatori e le meretrici, trasgressori della Legge, ascoltavano la Parola di Dio, si pentivano, riparavano le loro pessime azioni, e praticamente operavano il bene più di quelli che se ne mostravano zelanti.
Giovanni venne da parte di Dio a richiamare i peccatori alla conversione, e ci riuscì, mentre essi, pur protestandosi fedeli, rifiutarono di credergli, rinnegando così le medesime Scritture che lo avevano annunciato. Si erano meravigliati che Egli insegnasse senza la loro autorità, ma avevano dimenticato che in ogni tempo Dio aveva mandato profeti straordinari, con autorità ricevute da Lui immediatamente?
Egli, allora, aveva inviato lo stesso suo Figlio e, invece di congiurare contro di Lui, avrebbero dovuto ascoltarlo e riverirlo più di qualunque profeta. In realtà, anch’essi seguivano l’esempio dei loro padri che avevano perseguitato i profeti, e già si accingevano a cacciare fuori di Gerusalemme Lui stesso e ad ucciderlo. Perciò sarebbero stati puniti come vignaioli infedeli, sarebbero stati privati dei benefici divini, mentre Egli, posto come pietra angolare del regno di Dio, sarebbe passato ai pagani, fondando la Chiesa sulla ferma roccia, incrollabile edificio della nuova alleanza.
Gesù Cristo parlò severamente ai suoi oppositori, perché essi non cercavano la verità, e difatti, a conclusione dei suoi discorsi, cercarono di mettergli le mani addosso. È vero che essi si trovavano di fronte a un fatto nuovo e singolare che in quel caso appariva loro come l’arbitrio di un uomo, ma si trovavano anche innanzi ad argomenti di verità luminosissimi che avrebbero potuto e dovuto approfondire. Noi, troppo abituati a vedere anime false o illuse, potremmo quasi trovare giustificata l’opposizione degli scribi, dei farisei e dei sacerdoti; se vedessimo oggi un profeta forse lo lapideremmo anche noi, e forse lo lapidiamo realmente; ma non dobbiamo dimenticare che Gesù Cristo era Dio, e che, conversando con Lui, avendo solo un po’ di rettitudine e d’umiltà, sarebbe stato impossibile non scorgere l’immensa luce che da Lui emanava, e non sentirsi conquisi dal suo ineffabile amore.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 20 settembre 2014

Gli operai del regno di Dio

    Commento al Vangelo della XXV Domenica TO 2014 C (Mt 20,1-16)

Gli operai del regno di Dio
Gesù Cristo, parlando della mercede che avrebbero avuto i suoi fedeli seguaci, aveva detto che molti dei primi sarebbero stati gli ultimi, e molti degli ultimi i primi (19,30). Queste parole erano indirettamente la risposta a quella certa presunzione che aveva avuto san Pietro, domandando quale premio sarebbe spettato loro per aver lasciato tutto. San Pietro aveva parlato in quel modo per sconsideratezza, e Gesù, nella sua dolcezza, non lo aveva rimproverato, anzi gli aveva risposto secondo il suo desiderio; Egli, però, non poteva far passare senza una rettifica quella pretesa di avanzare un diritto di fronte alle elargizioni della grazia e, con una parabola, spiegò anche meglio come i primi potevano essere gli ultimi e gli ultimi – i quali, senza pretendere nulla, si rimettono con umiltà alla generosità del Signore –, potevano diventare i primi. Egli, così, rivelava un segreto dell’economia della grazia che è sempre misericordia, e della nostra corrispondenza che ha per fondamento l’umiltà e il servire al Signore per amore.
In tutte le parabole, Gesù Cristo utilizzava o un fatto realmente successo o le circostanze degli usi locali, in modo da presentarli con i caratteri psicologici di un fatto reale, e renderne più completa l’applicazione che voleva farne.
La parabola che raccontò per mostrare che gli ultimi sarebbero stati i primi e i primi gli ultimi forse ebbe come fondamento la scena reale di operai che attendevano lavoro su una delle piazze per le quali Egli passò.
Anticamente, infatti, gli operai si trattenevano in piazza con gli arnesi del loro mestiere, e si offrivano pronti a chi li avesse reclutati, dopo aver pattuito il prezzo della giornata. Gesù, nel vedere quell’assembramento, o riferendosi all’uso che vigeva, rivolto ai suoi cari, disse: Il regno dei cieli è simile ad un padre di famiglia, il quale uscì di buon mattino per assoldare lavoratori per la sua vigna. Trovò sulla piazza i primi che vi si erano radunati e, pattuita con essi la mercede di un denaro, cioè di circa 78 centesimi, li mandò nella sua vigna. La paga, per quei tempi, era normale e poteva dirsi anche vistosa. Non bastandogli ancora gli operai reclutati, uscì verso l’ora terza, cioè alle nove, per chiamare altri e, trovatili disoccupati, promise loro una giusta mercede, e li mandò nella sua vigna. Lo stesso fece all’ora sesta e nona, cioè alle dodici e alle tre. È evidente, dal contesto della parabola, che il padrone reclutò gli altri operai anche per un sentimento di misericordia, vedendoli disoccupati, e perciò verso l’undicesima ora, cioè un’ora prima del tramonto, ritornò in piazza e, visti degli operai che oziavano perché nessuno li aveva chiamati, li mandò nella sua vigna a fare almeno l’ultima ora di lavoro.
Venuta la sera, il padrone ordinò al suo fattore di pagare gli operai, cominciando dagli ultimi, e dando loro un denaro. Egli volle, in tal modo, aiutarli nella loro povertà, e supplire, con la sua generosità, al lavoro che essi non avevano potuto fare per non essere stati chiamati in tempo. I primi venuti si aspettavano una paga maggiore, ma ebbero anch’essi un denaro, secondo il patto stabilito. Ricevutolo, cominciarono a mormorare contro il padrone e lo tacciarono d’ingiustizia verso di loro, mentre egli era stato solo misericordioso verso gli altri. Ascoltando quelle mormorazioni, il padrone si rivolse a uno che forse parlava a nome di tutti, e gli fece riflettere che non aveva ragione di lamentarsi, avendo avuto quello che gli spettava né doveva essere cattivo solo perché il padrone era buono.
Gesù chiuse la parabola dicendo: Così gli ultimi saranno i primi, e i primi gli ultimi, poiché molti sono i chiamati ma pochi gli eletti. Queste ultime parole: molti sono i chiamati ma pochi gli eletti, mancano nei codici più antichi, e si trovano in altri. Alcuni credono che formino la conclusione di un’altra parabola (22,14) e che qui siano spostate; esse, invece, formano la chiusa logica del pensiero altissimo che Gesù intese dire nella parabola, come subito vedremo.
È evidente, infatti che la moralità del racconto del Redentore sta in quelle parole: Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi, e che l’accenno ai chiamati e agli eletti si riferisce al pensiero del Redentore che nella parabola esponeva l’ordine della divina provvidenza e della divina grazia nell’elezione delle anime.
    
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 13 settembre 2014

Gesù annuncia a Nicodemo il suo regno

 

 Commento al Vangelo della XXIV Domenica TO 2014 A (Gv 3,13-17)

Gesù annuncia a Nicodemo il suo regno

Il discorso di Gesù Cristo a noi appare oscuro e arduo, senza una spiegazione, ma per Nicodemo era luminoso, perché la luce del Signore gli penetrava l’anima e la illuminava. Per noi il discorso è come una lampada che ha bisogno di essere accesa per essere scorta nei suoi particolari; per Nicodemo era una lampada fulgentissima.
Avviene in piccolo anche a noi che comprendiamo o intuiamo perfettamente quello che un valoroso declamatore ci dice, e lo intuiamo, diremmo, non tanto per le parole o attraverso i gesti che fa, quanto perché riflette nel gesto e nelle parole quello di cui egli vive intimamente.
L’attore veramente geniale è tale perché, vivendo di ciò che dice, lo riflette fuori di sé, quasi in una proiezione spirituale; l’attore, al contrario che si sforza di parlare e gesticolare macchinalmente, come trova scritto o come gli viene suggerito, non riesce a formare in noi con le sue parole un’immagine viva. Chi percepisce intensamente, per esempio, le movenze di una tigre, e la imita col gesto, la fa quasi vedere perché nel gesto proietta quasi l’immagine che ha nella fantasia.
Questa è una riflessione di grandissima importanza, ed è una meschina analogia che ci fa intendere quale sublime e magnifica luce dovette inondare Nicodemo mentre Gesù gli parlava. Il Redentore non gli proiettava solo nell’anima, per così dire, un’immagine concepita nella fantasia, come può fare un oratore o un attore, ma gli proiettava la luce infinita della sua divinità e la luce soavissima della sua umanità. Per questo non c’è da stupirsi che Nicodemo diventasse fin d’allora suo discepolo, e gli fosse fedele anche nella tragedia del Calvario, curando la sepoltura del suo Corpo divino, perché non fosse profanato dai nemici.
Stavano di fronte Gesù e Nicodemo, e questi, al rimprovero fatto da Lui all’incredulità umana, dovette avere un sentimento di rammarico per la propria diffidenza e, all’accenno di Lui alle cose celesti, dovette sentire un desiderio di conoscerle e scrutarle, perché spirava dal volto di Gesù qualcosa di arcano che faceva intuire l’arcano splendore dei cieli eterni. Nicodemo, al vedere in quel volto divino riflessa la luce celeste, dovette dire fra sé: Che cosa vi sarà nel regno eterno? E chi è colui al quale io parlo? Non gli sembrava in quel momento solo il Messia promesso, ma qualcosa d’immensamente più grande; egli, però, non giungeva ancora a capire che il Messia era Dio stesso, l’eterno Verbo Incarnato, e non intendeva ancora l’economia della redenzione; la sua fede stava ai confini della verità ma non li aveva ancora oltrepassati.
Gesù Cristo lo illuminò solo con un lampo di luce, in modo da gettare in lui il germe della verità senza forzarne la mente; il germe sarebbe, a suo tempo, spuntato. Se gli avesse detto, in quel momento, apertamente: «Io sono il Figlio sostanziale di Dio», Nicodemo si sarebbe smarrito; perciò, rispondendo all’intimo desiderio che aveva avuto di conoscere le cose celesti, soggiunse: Nessuno è salito in cielo e, secondo il testo greco che usa il passato, nessuno è stato in cielo all’infuori di colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo che sta nel cielo. Delle cose celesti ed eterne che non si svolgono su questa terra, voleva dirgli, può parlartene solo Colui che è stato nel cielo ab eterno, è disceso dal cielo, facendosi uomo, e sta nel cielo perché non cessa di essere Dio.
Non disse altro Gesù, su questo grande argomento, ma Nicodemo sentì nell’anima sua lo splendore della luce divina, poiché chi gli parlava era proprio il Verbo eterno disceso dal cielo, il Verbo Incarnato per la salvezza di tutti. Questo era il concetto vero che doveva avere del Messia. Il Messia non era un profeta, e tanto meno un principe politico; era, invece, il Verbo di Dio Incarnato, vero Dio e vero uomo, esaltato non su di un trono di gloria, ma su di un patibolo d’immolazione per salvare le anime e dare loro la vita eterna.
Gesù Cristo, per gettare nell’anima di Nicodemo anche il germe di questa verità, gli ricordò il simbolo e la figura più ardua della redenzione, cioè i

l serpente di bronzo elevato da Mosè nel deserto per ordine di Dio, quando i figli d’Israele furono, per castigo, aggrediti da velenosi serpenti che li mordevano (cf Nm 21,9). Essi, allora, elevavano gli occhi al serpente elevato su una specie di croce e, contemplando solo la figura di Colui che doveva immolarsi per tutti, erano guariti.
Il Verbo Incarnato sarebbe stato elevato non su di un trono, come pensavano allora i dottori della Legge, ma su di un patibolo, ammantato della veste del colpevole, immagine sanguinosa degli uomini peccatori, come il serpente di bronzo era immagine dei serpenti velenosi che mordevano gli Ebrei. Il mondo tutto, bruciato dalle piaghe del peccato, doveva volgere lo sguardo alla Vittima divina, doveva credere, incorporarsi a Lei, operare per Lei il bene, arricchirsi di meriti, e conseguire la vita eterna. Era questa l’economia della redenzione.
Nicodemo, come dottore della Legge, non ignorava certo l’episodio ricordatogli da Gesù, ma per l’interna luce che Egli gli comunicava nell’anima si sentì come in un mondo nuovo, capì il mistero di quella figura profetica, e ne fu sorpreso, ne godette, come gode chi vede risplendere la verità da poche parole semplici, e tacque pieno di ammirazione. Le parole dei profeti riguardanti l’immolazione del Redentore risuonarono nel suo cuore; guardò Gesù con grande compassione, intuendo che voleva immolarsi, e lo amò intensamente perché sentì, in quelle parole che gli aveva detto, tutto l’amore che lo comprendeva. Gesù, infatti, parlando velatamente del suo sacrificio, manifestò, dal volto, una tenerezza infinita che avvolse Nicodemo come in un calore di misericordia e lo conquise. Egli, però, aveva un concetto severo di Dio, non immaginava tanta misericordia in tanta grandezza, non pensava che l’esigenza della sua giustizia potesse armonizzarsi con la sua pietà; perciò Gesù, rispondendo al suo pensiero, soggiunse che la redenzione era frutto dell’infinito amore di Dio, di un amore che era giunto fino a fargli donare il suo Figlio Unigenito, per dare la vita eterna a quanti avrebbero creduto in lui, riconoscendolo, accettandone la dottrina e praticandone i precetti. 
Padre Dolindo Ruotolo 

sabato 6 settembre 2014

La correzione, la preghiera e la misericordia

Commento al Vangelo della XXIII Domenica TO 2014 A (Mt 18,15-20)

La correzione, la preghiera e la misericordia
Avendo parlato dell’importanza di evitare gli scandali, Gesù parla della necessità di eliminarli dalla sua Chiesa che è l’arca di salvezza per tutte le anime, esortandoci alla correzione fraterna scambievole. Se uno ha mancato contro di te – cioè se ha commesso un’azione che ti dispiace perché scandalosa, offendendoti in ciò che ti dev’essere più caro di qualunque tesoro, cioè la gloria di Dio –, tu va’ e riprendilo fra te e lui solo. Cerca cioè di fargli capire il male che ha fatto, ed esortalo ad emendarsi.
Se lo scandaloso non ascolta la correzione, è necessario fargli parlare anche da altri, affinché l’autorità di una o più persone lo convinca, come si fa in un giudizio legale. Se neppure così si emenda, bisogna avvertirne l’autorità della Chiesa, affinché provveda con le sue esortazioni o con le sue sanzioni. Se non ascolta neppure la Chiesa, allora questa lo recide da se stessa, e lo scandaloso dev’essere evitato come un pagano senza fede o come un peccatore pericoloso per gli altri. Gesù ci avverte che ciò che legherà la Chiesa sarà legato nel Cielo, e ciò che scioglierà sarà sciolto nel Cielo, e quindi non è da prendersi alla leggera una sentenza da essa pronunciata. Questo è l’estremo rimedio contro gli scandalosi.
Ma Gesù non vuole che si giunga a questo che in estrema necessità perché si può vincere un’ostinata volontà con la preghiera in comune e con la misericordia; per questo ci dice che la preghiera ispirata dalla carità è ascoltata dal Cielo, e che Egli stesso, Redentore delle anime, sta in mezzo a quelli che si uniscono nel suo Nome per salvarle. Gesù Cristo, dicendo questo, parlava anche dell’efficacia di qualunque preghiera fatta in comune, ma direttamente intendeva parlare della preghiera fatta per gli scandalosi, volendo, con questo, insinuare maggiormente la necessità di usare misericordia. Perciò san Pietro, come capo già eletto della Chiesa, e come colui al quale dovevano far capo le cause dei fedeli, accostatosi a Gesù gli domandò fino a quante volte dovesse perdonare un peccato, e subito, credendo di proporre un limite di generosità, domandò se doveva farlo fino a sette volte. Ma Gesù gli disse: Fino a settanta volte sette, cioè quasi senza confini, perché la misericordia usata verso i peccatori attrae la misericordia di Dio verso la Chiesa e i suoi membri, avendo tutti dei debiti più o meno gravi, innanzi al cospetto divino
Don Dolindo Ruotolo