sabato 29 agosto 2015

La pietà falsa e la vera devozione

Commento al Vangelo della XXII Domenica TO 2015 B (Mc 7,1-8.14-15.21-23)

La pietà falsa e la vera devozione
Alcuni scribi e farisei, venuti da Gerusalemme per spiare ciò che operava Gesù, notarono con grande loro scandalo, che alcuni dei suoi discepoli non si lavavano le mani prima di mangiare. L’evangelista, scrivendo per i popoli pagani, spiega minutamente la ragione di questo scandalo, e nota che gli scribi e farisei avevano l’uso di lavarsi spesso, e di lavare anche gli oggetti di maggior uso, perché credevano, così, di mantenersi puri. Quando tornavano poi dal mercato, facevano addirittura un bagno, non sapendo discernere i contatti legalmente immondi che avevano potuto avere nel trattare con tanta gente.
Se fosse stato un desiderio di semplice pulizia – benché allora non si conoscessero ancora i microbi e le infezioni che possono portare –, non sarebbe stato un male; ma essi attribuivano a quelle lavande il potere di purificarsi spiritualmente, e credevano di aver fatto tutto, innanzi a Dio, con quelle abluzioni.
Facevano man bassa della Legge autentica di Dio, e si mostravano scrupolosissimi nelle tradizioni e negli usi introdotti dagli uomini.
In questo stava la loro ipocrisia quando si scandalizzarono dei discepoli di Gesù, e in questo soprattutto il pericolo della loro anima, lontana dalla vera salvezza; per questo Gesù Cristo li trattò severamente. In realtà sembra un po’ penoso che Colui che era tutto bontà e misericordia sia stato aspro con gli scribi e farisei, ma Egli non poteva scuoterli diversamente, e la sua stessa misericordia esigeva la severità.

Perché Gesù risponde duramente agli scribi e farisei
Quando una porta è aperta anche per uno spiraglio, nessuno la percuote o la sfascia, ma ognuno cerca di far leva per finire di aprirla; quando invece è chiusa e sbarrata, non è possibile farla cadere che con la forza.
Non c’è una porta più ermeticamente chiusa quanto quella di un’anima tutta presa dai suoi pensieri, e ostinata nelle concezioni della sua ragione e nelle resistenze della sua volontà; qualunque luce è vana per chi chiude gli occhi, e qualunque voce è inutile per chi chiude gli orecchi; allora non rimane che tentare la demolizione dell’orgoglio, vero sbarramento dell’anima alla verità e al bene.
L’orgoglio non si mina lusingandolo ma smascherandolo, perché la sua forza sta proprio nel celarsi sotto l’aspetto di pietà, di carità, di bontà e di santità; solo facendo saltare, per così dire, con la mina, questo baluardo terribile, si può aprire una breccia alla grazia conquistatrice.
Il tentativo di persuasione placida ottiene l’effetto opposto: ingagliardisce l’orgoglio e moltiplica la resistenza.
È necessario demolire con l’esplosione della verità, e poi insinuarsi nell’anima con la persuasione; è necessario prima trasportare l’anima fuori dal miraggio delle sue illusioni, e poi illuminarla.
Se il male non si smaschera, è sempre una postema purulenta che infetta tutta la vita. Chi ha avuto occasione di curare la santificazione di anime orgogliose ed egocentriche, o di teste dure e tenaci nelle loro persuasioni, sa quanto è arduo insinuarsi in loro con la dolcezza e vincerle.
L’orgoglio è brutale e abbrutisce; capovolge e interpreta in mala parte ogni atto di bontà; ha bisogno, in certi momenti, di trovarsi isolato di fronte alla verità, e coperto quasi di obbrobrio innanzi alla sua luce. Solo allora batte in ritirata per la stessa ripugnanza che sente all’umiliazione, e può trovarsi felicemente fuori della sua cerchia, nella pacifica zona dell’umiltà. La dolcezza è sempre utile, ma quando non trova l’acido nel cuore; l’acidità dell’orgoglio può anche mutarla in veleno. Questa norma vale soprattutto per chi sta a capo, per chi tratta con anime suddite, per le quali l’orgoglio rappresenta la ribellione, e quindi il disordine pieno e disastroso.
Riguardo agli scribi e farisei c’è molto di più: Gesù Cristo era Dio vero e Giudice eterno, ed era venuto per inaugurare, con piena autorità, il suo regno d’amore; Egli doveva perciò, prima di tutto, smascherare e giudicare quelli che ostacolavano il compimento del disegno di Dio in mala fede. Egli li giudicava, e poiché essi erano rei del peccato contro lo Spirito Santo, li smascherava, affinché il loro prestigio non avesse impedito la conversione delle anime semplici. Gesù Cristo, in altri termini, conoscendo da Dio i cuori degli uomini, parlava con severità a quelli che volevano perdersi ad ogni costo, affinché non avessero trascinato altri nella perdizione.
Era consono, alla sua giustizia e bontà, che Egli non dovesse usare verso i perversi ostinati e ribelli una carità che sarebbe stata mancanza di carità verso i deboli e le anime semplici. Gli scribi e farisei rifuggivano da ogni vera discussione, irrompevano con la malignità o con la violenza, ed erano spiritualmente folli.
Con un folle non si può usare una bontà che lo renderebbe più furioso. Gesù Cristo, poi, non irrompeva per ira, come sarebbe potuto apparire, ma per dolore; vedere quegli infelici così freddamente ostinati era per il suo Cuore un tormento inaudito, e il suo grido era grido di amore materno ferito.
Quando non si riesce a salvare chi precipita, si grida, si vorrebbe quasi con l’impeto del dolore fermarlo sull’abisso, e il grido è l’indice della volontà di salvare. Gesù Cristo, venuto a salvare tutti, elevava la voce contro gli scribi e farisei proprio per salvarli; sapeva bene di non riuscirvi, data la loro ostinata e libera volontà, ma il suo amore non poteva rimanere indifferente innanzi alla loro rovina.
Non si deve pensare, però, che Gesù abbia solo apostrofato severamente quegli ipocriti; Egli li strinse in un ragionamento così logico che non potevano sfuggirne e, pur parlando con giusta severità, aprì loro il cuore con mille industrie di misericordia, a noi sconosciute. Il dolore del suo Cuore era per loro come una corrente di vita e, se l’avessero voluto, avrebbero riconosciuto, nelle sue parole, il suo amore.
Ma non lo vollero; svalutarono ciò che operava il Maestro divino, e lo svalutarono alla triste luce dei loro tenebrosi pensieri; vollero diventare essi i giudici, mentre dovevano essere i giudicati, e disprezzarono la misericordia diventando spietati.

Tutto ciò che entra nell’uomo dall’esterno non può contaminarlo
Queste parole di Gesù Cristo sono spesso citate a sproposito da quelli che rifiutano ogni legge di astinenza o di digiuno imposta dalla Chiesa, e credono di giustificare così la loro gola e la loro ribellione.
Eppure il Signore non volle minimamente intaccare la Legge, ma solo dimostrare, contro gli scribi e farisei, che la scrupolosità esterna, in certi casi introdotti dagli uomini, non giovava a nulla, e non poteva santificare la creatura. Gesù parlò di ciò che è fuori dell’uomo, cioè di ciò che non ha relazione alcuna con l’anima, il che non poteva valere per le astinenze e i digiuni comandati dalla legittima autorità, ordinati al bene dell’anima.
Nessuna legge di digiuno prescrive il modo esterno di mangiare o di bere, e questo cerimoniale di igiene o di galateo è fuori del dominio dell’anima, e non le aggiunge o le toglie nulla, a meno che non abbia relazione con la carità; ma non è indifferente all’anima il digiunare, perché questo la rende disciplinata spiritualmente, ammansisce in lei le pretese delle passioni, l’abitua al dominio di se stessa, e le dà la gioia di notare in sé un progresso spirituale.
Se non fosse così, Gesù Cristo non ci avrebbe dato Egli stesso l’esempio digiunando 40 giorni nel deserto, e non avrebbe suscitato, con particolari aiuti di grazia, i grandi santi penitenti. Ciò che entra nell’uomo indifferentemente segue il corso delle leggi digestive, e non può influire sull’anima; gli scribi e farisei, invece, credevano che mangiare senza lavarsi le mani fosse causa di una vera macchia nell’anima, quasi che il cibo potesse direttamente influire su di essa.
Macchia l’uomo ciò che viene dal cuore, cioè la cattiva volontà, il ribellarsi alla Legge, il disobbedire; chi mangia con le mani non lavate non ha alcuna cattiva volontà, ma chi tradisce la Legge dell’astinenza e del digiuno ha la pessima volontà di fare il proprio comodo e quindi, in questo caso, è precisamente dal cuore cattivo che viene la sua trasgressione, macchiandogli l’anima.
Ma chi sono quelli che si mostrano noncuranti della Legge del digiuno, ostentando un’immunizzazione assoluta contro le macchie interne? Sono precisamente quelli che sono macchiati di ogni delitto, o che bevono con facilità il peccato, a somiglianza degli scribi e dei farisei. La loro coscienza, facile al peccato, dimostra esaurientemente con quale spirito parlano, e li accusa; chi veramente è buono sente rimorso di mangiare un cibo proibito, e non adduce vani pretesti per trasgredire la Legge.
Gesù Cristo si mostrò un po’ severo nel rispondere all’interrogazione fattagli dagli apostoli, perché essi s’erano impressionati dal rimprovero dei farisei, e avevano creduto per poco che Egli fosse un po’ troppo largo di coscienza.
La loro domanda non era fatta per aver luce, ma piuttosto per richiamare l’attenzione del Maestro su un dovere del quale sembrava non tenesse il conto dovuto; fu per questa doppiezza che Gesù, addolorato, rivolse loro la parola in modo severo; se essi avessero avuto fede in Lui, non avrebbero dovuto parlare in quel modo; forse Gesù, alludendo ai peccati che vengono dal cuore, volle richiamare la loro attenzione anche sulla doppiezza con la quale avevano parlato e al poco amore col quale l’avevano interrogato. Essi non volevano che Gesù transigesse sulla Legge, e il sospettare che lo facesse era già un diffidare della sua santità.

In questo stava la vera mancanza di discernimento degli apostoli; essi non capivano ancora che in Gesù tutto era santo, e non intendevano che il suo amore per il Padre e per le sue Leggi era superiore a qualunque loro concezione.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 22 agosto 2015

L’impressione del discorso di Gesù Cristo sui suoi discepoli

Commento al Vangelo della XXI Domenica TO 2015 B (Gv 6,60-69)

L’impressione del discorso di Gesù
Cristo sui suoi discepoli
Molti dei discepoli di Gesù Cristo, ascoltando il suo discorso, dissero fra loro stessi: Questo discorso è duro o, secondo il testo greco, è aspro, è crudele, e chi può ascoltarlo? Avrebbero dovuto dire semplicemente che era assurdo, avendolo preso in senso materiale di un corpo fatto in pezzi e dato a mangiare, e di un sangue bevuto nell’uccidere il corpo, ma era tanto l’accento di verità delle parole di Gesù che non poterono dirlo.
Essi inconsciamente sentivano che era vero e, non intendendone il senso, lo dichiaravano duro, aspro, crudele. Gesù Cristo, conoscendo i loro pensieri e le loro mormorazioni, disse: Voi vi scandalizzate di quello che vi ho detto? E se vedrete salire il Figlio dell’uomo dov’era prima? Lo spirito è quello che vivifica, la carne non giova a nulla; le parole che io vi dico sono spirito e vita. Egli rispondeva alla loro interpretazione antropofaga delle sue parole, e faceva notare che il suo corpo non aveva bisogno di essere diviso per darsi. Essi lo avrebbero visto salire dove era prima, cioè al cielo, e avrebbero osservato, ancora una volta, che quel corpo poteva sottrarsi alle leggi della materia ascendendo, mentre il suo peso l’avrebbe portato in basso.
Egli parlava del suo Corpo e del suo Sangue non come materia stretta dalle dimensioni, non come carne determinata dalla quantità, divisa in pezzi, ma come sostanza vivificata dall’anima e terminata dalla Persona divina.
Una carne divisa in pezzi e morta a che cosa poteva giovare? Tutt’al più a nutrire il corpo per un po’; ora questo nutrimento non sarebbe stato utile all’anima. Egli parlava di un cibo che doveva essere spirito e vita che doveva alimentare l’anima, non il corpo, e che doveva dare all’anima la vita soprannaturale del suo stesso spirito, la vita della glorificazione e dell’amore di Dio.
Voi non capite il mio discorso – soggiunse Gesù –, perché non credete; non credete che io sono veramente il Figlio di Dio, non credete che il mio Corpo e il mio Sangue sono divini e vivificano, non credete alla mia onnipotenza che può darvelo come cibo dell’anima. Mi riguardate come uomo, ed è logico che come uomo io non potrei darvi la carne e il sangue quale cibo dell’anima. Il Sacro Testo soggiunge che Gesù parlava così perché sapeva fin dal principio coloro che non credevano, e chi stesse per tradirlo. Questo ci fa capire che uno di quelli ai quali il discorso di Gesù fu più ripugnante, fu proprio Giuda.
Tutto rivolto ad aspirazioni terrene, e tutto teso col desiderio al guadagno materiale non poteva capire una promessa d’infinita carità, e ne mormorò. Fu il primo protestante che con gli altri giudicò duro e inaccettabile il cibo della vita che Gesù prometteva. I poveri protestanti che pretendono di trovare la loro origine nei primi secoli della Chiesa, possono andare un po’ oltre e fermarsi a Giuda e a quelli che protestarono contro la promessa dell’amore.
Questi sì, furono i loro precursori ma, dolorosamente, precursori che Gesù Cristo dichiarò rigettati dal Padre per il loro orgoglio, incapaci di andare a Lui, privi di fede perché privi di grazia e di amore.
Non si può andare da Gesù Cristo con le proprie forze: occorre la grazia di Dio, e le sue parole non possono intendersi col proprio criterio, ma con la luce di Dio che passa per Gesù Cristo stesso e ci raggiunge per la Chiesa. Rigettare l’Eucaristia, quindi, secondo le stesse parole di Gesù, significa non credere in Lui, tradirlo, ed essere già rigettati da Dio. È terribile! I protestanti dovrebbero riflettere per convertirsi sinceramente.

Dolorosamente l’incomprensione e
l’ingratitudine umana non si smentiscono mai!
Il discorso della promessa dell’Eucaristia avrebbe dovuto suscitare un delirio di entusiasmo da parte di tutti, se avessero ponderato il dono che era stato loro annunciato; ma dolorosamente l’incomprensione e l’ingratitudine umana non si smentiscono mai e, come tutta risposta, molti dei discepoli che seguivano Gesù se ne andarono e non lo seguirono più.
Se Gesù avesse parlato in senso figurato o simbolico avrebbe dovuto certamente dichiararsi per impedire agli altri discepoli di andarsene. Egli, invece, rivolto ai dodici apostoli, disse: Volete andarvene anche voi?
Il suo dolcissimo Cuore che pur li amava d’intensissimo amore, preferiva perderli anziché averli vicino senza fede nel dono più bello che voleva loro fare. Egli fece loro questa domanda perché in realtà la fede che avevano non era ancora piena, e volle suscitare nel loro cuore una salutare reazione.
San Pietro, infatti, nell’impeto del suo amore, prendendo la parola a nome di tutti disse: Signore, da chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio. Alla domanda recisa di Gesù, san Pietro rifletté di più che le parole che Egli aveva detto erano spirito e vita; il solo pensiero di poter abbandonare un Maestro così buono lo angustiò e, supponendo anche negli altri lo stesso sentimento, parlò pure in loro nome. Non avevano essi visto i miracoli da Lui compiuti? Non avevano ascoltato le sue profonde parole di vita?

Essi, dunque, avevano creduto per fede e conosciuto dalle opere che Egli era il Figlio di Dio e, pur non intendendo il discorso che aveva fatto, non avevano ragione di allontanarsi da Lui. San Pietro credé di parlare a nome di tutti, e protestò la loro fedeltà come una decisione da essi medesimi presa; ma Gesù lo corresse, esclamando: Non sono stato io che ho eletto voi dodici? Eppure uno di voi è un demonio. Egli soggiunge l’evangelista –, alludeva a Giuda figlio di Simone Iscariota, poiché questi stava per tradirlo, pur essendo uno dei Dodici. Io vi ho eletti – voleva dire Gesù –, e se rimanete fedeli è per mia misericordia; ma, nonostante questo, potreste pure abbandonarmi di vostra volontà, perché la mia grazia non vi forza. Tu, Pietro, parli in nome di tutti, ma non sai che c’è tra voi uno che è un demonio, e che non divide i tuoi sentimenti di fede. In tal modo, dolorosamente, Giuda fu presente alla promessa eucaristica e al suo compimento, rappresentanza tristissima di quelli che avrebbero disturbato nei secoli con la loro perfidia le divine espansioni dell’amore di Gesù Sacramentato. 
Don Dolindo Ruotolo

sabato 15 agosto 2015

Il nostro atteggiamento innanzi al dono di Gesù

Commento al Vangelo della XX Domenica TO 2015 B 
(Gv 6,51-58)


Il nostro atteggiamento innanzi al dono di Gesù

La promessa di Gesù Cristo per noi è una realtà, poiché lo abbiamo vivo e vero con noi. Il fuoco sacro del tempio che non si estingueva mai era una pallida figura di questa fiamma divina d’amore e di carità che si accese nell’Ultima Cena e non si è spenta mai più. Il pensiero d’avere Gesù con noi dovrebbe farci mutare in angeli adoranti, e dovrebbe rendere i sacerdoti serafini d’amore.
Invece, ahimè, è ancora notte nel nostro spirito, e dobbiamo fare quasi uno sforzo per non rinnegare il dono mirabile. Siamo come ciechi assiderati che stanno nei raggi del sole e non lo vedono, stanno esposti al suo calore e finché dura il gelo non se ne accorgono.
Da che deriva questa nostra insensibilità?
Seguiamo di nuovo il discorso di Gesù per scoprirne la causa, perché è di suprema importanza, per noi, porre un termine alla nostra ingratitudine.
Alla turba che lo cercava Gesù disse: Voi mi cercate perché avete mangiato i pani e ve ne siete saziati. Procuratevi non quel cibo che passa, ma quello che dura sino alla vita eterna. Noi cerchiamo tanto spesso Gesù per cercare il pane materiale, per ottenere grazie temporali, per avere un conforto, e non intendiamo che l’Eucaristia è un cibo ordinato alla vita eterna.
Dobbiamo dunque andare da Gesù per vivere soprannaturalmente in Lui e per Lui, per unirci a Lui, trasvolare la terra e andare verso il Cielo. Questo ci scopre i veli che nascondono il dono di Dio. I pensieri della terra ce lo nascondono, e quando non lo vediamo più possiamo dire con certezza che l’anima non è ancora orientata all’eternità.
È questa la ragione per la quale gli uomini specialmente, assillati dalla ricerca del pane materiale, ne vivono tanto lontani, quasi che fossero estranei alla mensa dell’amore.
Quello che fu la manna per gli Ebrei è l’Eucaristia per noi: sostenta la vita dell’esilio, e ci fa giungere alla meta. La nostra vita senza la comunione quotidiana è un deserto senza manna, è una vita da affamati e da assetati.
Questa è l’opera di Diodisse Gesù –, che voi crediate in Colui che Egli ha mandato. Bisogna credere veramente in Gesù Sacramentato, e rinnovare questa fede in Lui, ripetendogli spesso: Io credo in te vivo e vero in quest’Ostia d’amore, credo e t’adoro. È il Padre che ci attrae a Gesù, e Gesù ci accoglie per compiere la volontà del Padre; noi, dunque, andiamo a Dio compiendo la sua volontà nelle tribolazioni dell’esilio. Cerchiamo la sua gloria e il suo amore, ed Egli ci attrarrà a Gesù.
Gesù Cristo è il pane della vita, Egli alimenta e sostenta chi è vivo alla grazia, e impedisce che possa cadere nella morte. Il mondo è morto alla grazia perché è lontano da Gesù Eucaristia, e ne è lontano perché è morto; non vive che di carne, e l’impurità è ostacolo terribile all’intimità quotidiana con Gesù. È necessario purificarsi, e cercare non la soddisfazione di un momento, ma le gioie celesti.
Siamo esiliati, e tutto quello che possiamo raccogliere quaggiù non ci appartiene, è provvisorio, passa. Abbiamo solo un tesoro vero che ci appartiene, e che è come gemma venutaci dall’alto: il pane vivo disceso dal cielo. Questo è nostro, e questo ci alimenterà in eterno, svelandoci le meraviglie di Dio.
Ora, come potremo essere così stolti da attaccarci a quello che passa e non è nostro, e stare lontani dall’unica vera ricchezza che abbiamo nell’esilio? Quante volte insiste Gesù nel suo discorso che il suo Corpo e il suo Sangue ci donano la vita! Ora come possiamo noi rifiutarla, cercando la morte nelle misere cose della terra o, peggio, nel peccato? Quanti si ritirano da Gesù come i discepoli infedeli, perché sembra loro duro il rinunciare alla carne e al peccato! Che cosa terribile e spaventosa: rinunciare alla carne divina che dà la vita eterna, per non rinunciare alla carne del peccato che produce l’infelicità e la morte eterna! Dove compariranno quegli uomini che sono stati e sono lontani da Gesù, e che rifiutano l’unica vera e sublime felicità della vita, per non rifiutare i ceppi dell’infelicità?
È davvero impazzita l’umanità che affolla i ritrovi dove si perde la vita, e lascia deserto il tabernacolo dove la si trova e la si gode! Se si acquista familiarità con Gesù, e si orienta a Lui tutta l’anima, senza riserve, oh quanto è dolce conversare con Lui cuore a Cuore, nel placido silenzio che avvolge il tabernacolo!

Tu ci hai privilegiati, o Gesù, in una maniera mirabile; Tu sei con noi vivo e vero, Tu supplisci la nostra vita interiore, Tu sei nel tabernacolo rifulgente d’amore, e noi ti dimentichiamo, e tante volte riguardiamo come segreto di normale tranquillità stare lontano da te, o l’accomunarsi alle abitudini di quelli che non ti amano, o ti amano poco! Aprici gli occhi, non permettere più che siamo ingrati, castigaci se occorre, ma tienici fedeli all’amor tuo per sempre.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 8 agosto 2015

Il discorso garba poco agli Ebrei…

Commento al Vangelo della XIX Domenica TO 2015 B (Gv 6,41-51)

Il discorso garba poco agli Ebrei…
Gli Ebrei, alle parole di Gesù, rimasero increduli. Erano andati da Lui con la pretesa di vedere dei miracoli, e credevano di poter essi disporre del suo potere; non ammettevano altro che quello che passava per la loro testa, e avevano sempre la presunzione di dovere avere essi di diritto i doni del Signore, nel modo che a loro garbava; credevano quasi che il mondo si fermasse senza il loro volere. Per questo, Gesù aggiunse: Tutto ciò che il Padre mio mi dà, arriverà a me, ed io non respingerò chi viene a me, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato.
E voleva dire: la vostra mancanza di fede non distrugge il disegno di Dio, poiché il Signore, mandandomi in mezzo a voi, non ha ristretto l’opera mia a voi soltanto; Egli mi dona le anime di tutto il mondo, Egli le chiama, e quando esse vengono a me io non le caccio, benché non appartengano al vostro popolo. È questa la volontà del Padre mio, ed io la compio fedelmente: Egli vuole che io non perda tutti quelli che mi dona, ma li risusciti nell’ultimo giorno, e vuole che abbiano la vita in me e per me, credendo in me Io li accolgo, li alimento di me con un dono di fede, di pura fede, nel quale la vista, il tatto, il gusto s’ingannano, e nel quale si deve solo credere alla mia parola. Essi vengono, credono, si alimentano, vivono di me, risurrezione e vita, ed Io li risuscito dalla morte nell’ultimo giorno. Gesù, dunque, prima di annunciare e promettere formalmente il dono ineffabile dell’Eucaristia, ne pone i fondamenti e ne determina il carattere: Esso è la nuova manna del suo popolo peregrinante dall’esilio alla Patria; è Pane disceso dal cielo, è Lui stesso che è venuto in terra per alimentare le sue creature, per saziarle d’amore divino, e spegnere in loro la sete delle passioni disordinate. L’Eucaristia non è un dono ristretto alla sola nazione ebraica: è un Dono universale; dipende dalla volontà del Padre e non dal diritto di eredità; affratella tutti gli uomini senza distinzione di razza; li affratella perché Dio li chiama alla stessa fede nel Redentore, e questi li accoglie, li nutre, li santifica e, vincendo anche la morte corporale, li risuscita gloriosamente nell’ultimo giorno. Chi crede in Lui, cioè chi riceve il Pane della vita credendo che è Lui stesso vivo e vero, ha la vita eterna. Chi lo crede solo un simbolo, un segno, un pane comune e materiale, in realtà non crede in Lui, e perciò non ha la vita.
È evidente, dal contesto, che Gesù non parla della fede in Lui in un senso generale, e tanto meno parla della fede di semplice assentimento a Lui Salvatore, o di fiducia nei suoi meriti, senza curarsi delle opere buone; Egli parla del Pane di vita, dell’Eucaristia, e asserisce che chiunque vede il Figlio e crede in Lui ha la vita eterna; vede il Pane di vita, lo crede sostanzialmente il Figlio di Dio Incarnato, crede in Lui ivi presente, se ne ciba, ed ha la vita eterna.
Tutte le volte che Gesù in questo capitolo parla della fede in Lui, parla della fede nella sua reale presenza nel Pane di vita, e ogni volta che parla del Pane disceso dal cielo, parla di se stesso vivo e vero, fatto cibo delle anime. Non si può equivocare sulle sue parole né si può dare ad esse un senso simbolico che non hanno.
Gesù Cristo parlava in senso tanto reale, chiamandosi Pane vivo disceso dal cielo che il popolo cominciò a mormorare di Lui, dicendo: Non è forse costui Gesù, figlio di Giuseppe, di cui noi conosciamo il padre e la madre? Come dunque dice Costui: Io sono disceso dal cielo? San Giuseppe probabilmente era già morto quando Gesù cominciò la sua vita pubblica, ma il popolo l’aveva conosciuto, e l’aveva sempre creduto padre vero di Gesù, ignorando il mistero dell’Incarnazione per opera dello Spirito Santo. Credendo dunque di conoscerne il padre e la madre, si stupivano che Egli si chiamasse Pane vivo disceso dal cielo, e mormoravano di questa espressione, come chi ascolta una cosa ardua, non assurda. Era tale l’accento di verità che traspariva dalle parole di Gesù che essi non osavano direttamente tacciarlo di dire una cosa assurda, come sarebbe stato naturale, ma s’interrogavano a vicenda per cercare di interpretare quello che diceva.
Nel dire Gesù: Io sono il Pane vivo disceso dal cielo, faceva sentire che Egli era la Verità che era per donarsi come pane che questo pane doveva essere pane vivo, pane negli accidenti e vita nella sostanza, pane disceso dal cielo, perché era Lui stesso donato in cibo alle anime.

Gesù sapeva bene quanto
gli sarebbero stati ingrati gli uomini
In questo mirabile discorso eucaristico, Gesù fu di una recisione precisa, poiché l’amore del suo Cuore traboccava, ed Egli sapeva bene quanto gli sarebbe stato ingrato l’uomo. Non erano solo gli Ebrei i suoi oppositori, erano gli eretici di tutti i secoli, e specialmente i protestanti. Egli li vedeva con la sua divina prescienza, e poiché voleva darsi per amore, non tollerava che si fosse potuto dubitare di questo suo dono; preferiva che quelli che non volevano credergli se ne fossero andati, rinunciava alle anime loro, pur amandole infinitamente, ma non rinunciava ad essere esplicito e preciso in quello che voleva donare. Perciò, quando gli Ebrei cominciarono a mormorare perché s’era chiamato pane vivo disceso dal cielo, invece di rispondere alla loro obiezione, disse: Non mormorate fra voi; nessuno può venire a me se non lo attiri il Padre che mi ha mandato, ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno, e voleva dire: quello che io affermo può capirlo solo chi è attratto dal Padre mio, cioè chi ne riceve una grazia particolare, e questi avrà la vita gloriosa nell’ultimo giorno. Voi non l’intendete perché non siete attratti dal Padre mio, per colpa vostra. Non crediate poi che chiunque, a suo arbitrio, potrà prendere il Pane di vita che io prometto; sarà necessaria una speciale attrazione di grazia, e questa attrazione sarà data a chi sarà ammaestrato da Dio, secondo il detto dei profeti (cf Is 54,13), cioè sarà preparata da una diffusione più viva della divina Parola, della mia parola, e chi l’ascolterà con docilità e con fede verrà a me, Pane di vita. Non parlerà direttamente il Padre, perché Dio è invisibile all’uomo, eccetto a Colui che è da Dio, cioè all’Uomo-Dio, ma parlerà per me, e per quelli che io manderò. In conclusione – soggiunse Gesù con decisione che non ammetteva repliche –, qui non si tratta di discutere, perché il Pane di vita è un mistero di fede, chi crede in me vivo e vero nel Pane di vita, questi ha la vita eterna.
Gesù Cristo aveva presenti tutti i secoli, e guardava a quello nel quale il Pane di vita sarebbe stato distribuito e diffuso a piene mani, negli ultimi tempi, più prossimi alla fine del mondo e alla risurrezione dell’ultimo giorno. Egli stabilì formalmente che questa diffusione eucaristica non sarebbe stata frutto di arbitrio personale, ma frutto di attrattiva divina, e ne diede come contrassegno specifico una diffusione così viva della divina Parola nella Chiesa e nel mondo, da potersi dire col profeta: Sono tutti ammaestrati da Dio.
La luce della verità sarà così viva, da sembrare quasi di vedere Dio, benché Egli sia invisibile all’uomo mortale.
Noi assistiamo già al preludio di questo tempo di vivissima vita eucaristica, ne abbiamo raccolto il segreto, e cominciamo ad usufruirne, benché fra tante nostre ingratitudini.
Ecco, la Parola di Dio, chiara e luminosa per tutte le menti, si diffonde già e inonda la terra; ecco, non l’arbitrio ma l’attrazione del Padre celeste ci conduce a Gesù, Pane di vita, poiché è assurdo che si possa partecipare a questo Dono ineffabile senza una particolare attrazione di Dio. I Congressi eucaristici medesimi, caratteristica del nostro tempo e prima preparazione alla diffusione del regno dell’amore eucaristico, non sono una diffusione luminosa della Parola di Dio nelle discussioni e nelle prediche, e una divina attrazione per le anime che si cibano del Pane di vita?
Crescerà la diffusione della Parola luminosa di Dio, e crescerà la diffusione del Pane di vita, fino a porre termine all’ingratitudine umana che ha dimenticato il Dono ineffabile che ci fa vivere di Gesù Cristo, ci unisce in Lui in una sola famiglia e ci dona la pace nel fulgore della gloria di Dio per tutta la terra.
Stabiliti i fondamenti del dono ineffabile che voleva elargire agli uomini, Gesù Cristo ne parla più determinatamente, perché non si fosse potuto equivocare sulla sua reale natura, ed esclama: Io sono il Pane della vita; non della vita materiale ma di quella spirituale; e poiché gli Ebrei avrebbero desiderato vedere un prodigio come quello della manna nel deserto, Gesù mostra la superiorità del Pane della vita sulla manna, soggiungendo: I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono. Questo è il Pane disceso dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia. Io sono il Pane vivo che sono disceso dal cielo. Chi mangerà di questo Pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.
La manna era un cibo che sosteneva la vita del corpo, ma non liberava dalla morte; il Pane vivo disceso dal cielo, invece, sostiene una vita immortale, quella dell’anima, e la libera dalla morte eterna, salvandola per sempre nella felicità eterna; questo pane, poi, è la carne stessa del Redentore, quella che Egli darà per la vita del mondo sulla croce e che sarà data continuamente nel sacrificio dell’altare per la vita delle anime. Non si poteva, dunque, equivocare in nessun modo: Gesù parlava non di un simbolo della sua Carne ma della sua vera Carne, poiché Egli non la offrì simbolicamente ma veramente e sanguinosamente sulla croce. Gli Ebrei lo capirono perfettamente, e se ne stupirono discutendo fra loro e dicendo: Come mai può Costui darci da mangiare la sua carne? Se la divide fra noi muore, e allora come può chiamarsi più pane vivo? Come mai può darcela viva? Se le parole di Gesù non avessero avuto l’accento della verità, essi non avrebbero discusso animatamente fra loro, ma le avrebbero disprezzate come una pazzia; essi, invece, sentivano che erano vere e assolute, e ne discutevano perché ne avrebbero voluto una spiegazione.

Com’era possibile una spiegazione naturale?

Ma, in un mistero di fede e d’amore così grande, la spiegazione naturale non era possibile; Gesù Cristo esigeva solo la fede, poiché, mangiando il suo Corpo e bevendo il suo Sangue sotto le Specie del pane e del vino, si sarebbe capito il mistero dai suoi mirabili effetti, vivendone. D’altra parte, Egli non parlava per stabilire una discussione, possibilissima, ma sproporzionata alla mentalità di quelli che l’ascoltavano; il suo Cuore ardeva d’amore, e l’amore anelava solo a donarsi; non ammetteva la discussione, voleva essere ricevuto e, promettendo un tanto dono d’amore, voleva come risposta l’amore; perciò soggiunse, rivolgendosi agli Ebrei e a tutto il mondo: Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Egli non alludeva, come pretesero gli eretici, all’immolazione che avrebbe subito né voleva dire che se non l’avessero ucciso non avrebbero avuto la vita, perché sarebbe empio e assurdo supporre che un delitto spaventoso, quale la morte che gli avrebbero dato, un delitto punito da Dio, poi, con la distruzione della nazione, avesse potuto portare la vita eterna e la risurrezione gloriosa a quelli che l’avrebbero consumato. Perciò Gesù Cristo, per evitare che si fosse frainteso, e per confermare che Egli parlava del suo Corpo e del suo Sangue come di vero alimento di vita spirituale, replicò: La mia carne è veramente cibo e il mio Sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio Sangue rimane in me e io in lui. Con una sublime analogia, poi, mostrò in quale maniera chi mangiava della sua Carne e beveva del suo Sangue aveva la vita e rimaneva in Lui: Come il Padre che ha la vita in sé, ha inviato me, e io vivo per il Padre, così, chi mangia di me, vivrà anch’egli per me.

Padre Dolindo Ruotolo

sabato 1 agosto 2015

Gesù si annuncia Pane ella vita

Commento al Vangelo della XVIII Domenica TO 2015 B (Gv 6,24-35)

Gesù si annuncia Pane della vita
Fattosi giorno, cominciarono le ricerche di Gesù su per il monte. Il popolo, infatti, aveva notato la sera che sulla riva v’era una sola barca, e che in essa erano entrati i soli apostoli quando s’erano allontanati; Gesù dunque, pensavano tutti, doveva essere in quei dintorni. Essendo riuscite vane le ricerche, ridiscesero alla riva, dove frattanto erano giunte molte barche da Tiberiade, e saliti in esse si avviarono verso Cafarnao, dove supposero che Gesù fosse andato a loro insaputa. Infatti lo trovarono là e, sorpresi, gli domandarono: Maestro quando sei venuto qui?
Evidentemente non tutte le turbe erano riuscite a prender posto nelle barche, e quindi il numero di quelli che giunsero a Cafarnao fu ristretto. Attraversarono il lago i più audaci e i più entusiasmati dal miracolo che avevano visto, e per questo domandarono a Gesù quando e come era giunto in quel luogo, supponendo che fosse stato per un altro miracolo.
In questa domanda, psicologicamente e sottilmente si manifestava il loro spirito interessato, perché è spontaneo, in chi ha ricevuto un beneficio materiale e ne spera altri, interessarsi della persona che glielo ha fatto, ed avere per lei parole di complimento. In quella domanda: Quando sei venuto qui? C’era un senso di stupore, di premura, e anche di subcosciente adulazione, un sentimento tutto materiale e naturale che prescindeva da Gesù come vero Messia, e lo riguardava come uno capace di fare cose sorprendenti per iniziativa naturale.
Gesù rispose: Voi mi cercate non per i miracoli che avete visti, ma perché avete mangiato i pani e ve ne siete saziati. E voleva dire: Voi non mi cercate per i miracoli, vedendo in essi un segno chiaro della mia missione, ma perché vedete in essi solo un mezzo per avere dei benefici corporali. Considerate il miracolo più come un prestigio, come un segno di attitudine nel governare il popolo, come una manifestazione di genialità, anziché come un segno divino di un’opera divina di redenzione. Procuratevi non quel cibo che passa soggiunse Gesù –, ma quello che dura sino alla vita eterna, il quale sarà dato a voi dal Figlio dell’uomo, poiché in Lui impresse il suo sigillo il Padre Dio. Escludete da me che io sia venuto per occuparmi delle vostre necessità temporali; se vi ho nutriti non l’ho fatto per darvi un pane materiale, ma per attrarvi al Pane spirituale che dona la vita eterna. Il miracolo fatto non è stato l’inizio di una serie di benefici corporali, ma un segno e un sigillo di Dio Padre per confermare la mia missione redentrice.
Il popolo interpretò le sue parole come un rimprovero alla negligenza nell’osservanza dei riti legali, domandò che cosa dovesse fare per osservarli e compiere così le opere di Dio. Non capì che sorgeva un’era nuova di grazie che i riti e le figure si compivano nella Realtà, e che la Realtà di tutta la Legge era Gesù stesso, Salvatore del mondo. Non capì che, per compiere davvero le opere di Dio, bisognava riguardare Lui solo che in esse era annunciato e figurato e, poiché Egli era già venuto e stava con loro, bisognava credere in Lui come il mandato da Dio. La Legge, infatti, anche prima della venuta di Gesù Cristo, non aveva valore che per la fede nel futuro Messia; ora che il Mandato da Dio era venuto, la Legge doveva mutarsi tutta in un atto di fede in Lui.
Il popolo capì che Gesù lo esortava a credere in Lui e, con incoscienza pari all’ingratitudine, gli disse: Quale miracolo fai tu perché noi vediamo e crediamo? I nostri padri mangiarono la manna nel deserto, come sta scritto: diede loro a mangiare il pane del cielo. Non terminarono la frase, ma volevano dire: Tu che cosa ci dai di perenne nella nostra vita, come segno della tua missione? È stupefacente questa pretesa della turba! Non era essa andata con entusiasmo dietro a Gesù perché vedeva i miracoli che faceva per quelli che erano infermi? E non aveva il giorno prima mangiato un pane miracoloso, tanto da correre a Lui per proclamarlo re?
L’ingratitudine e l’incoscienza di quella gente giungeva dunque a tanto da reclamare miracoli quando ne aveva visti e ne vedeva tanti?
È evidente da questo che il popolo riguardava i miracoli visti solo da un punto di vista utilitario, e non li approfondiva per quello che significavano; per esso quei prodigi erano fatti da un uomo e da un profeta singolare, ma non giungeva a persuadersi profondamente che quel profeta fosse il Messia; l’entusiasmo suscitato da un prodigio era superficiale, e la fede del cuore era come un fiocco di neve primaverile che cadendo si liquefa.
Quando Gesù disse esplicitamente che si doveva credere in Lui come Colui che Dio aveva mandato, il popolo credé di trovarsi innanzi ad un fatto nuovo, ad un problema arduo, ad una proclamazione che non poteva accettare senza miracoli, fatti per dimostrarne la verità, sembrandogli che il Messia avesse dovuto mostrarsi almeno alla pari di Mosè, per condurre la nazione in una nuova via di gloria.
Anche in questa pretesa del popolo c’era una concezione tutta materiale del Messia, perché esso credeva che il Messia dovesse essere un condottiero come Mosè, e dovesse guidarlo con prodigi continui alla riscossa dal giogo romano, come Mosè aveva guidato i suoi padri alla riscossa dal giogo egiziano. Gesù Cristo rispose con profondità degna di Lui, mostrando in sé il compimento della grande figura profetica di Mosè e della manna, ed esclamò: In verità, in verità vi dico: non Mosè diede a voi il pane del cielo, ma il Padre mio dà a voi il vero pane del cielo. Poiché pane di Dio è Colui che è disceso dal cielo e dà la vita al mondo.
La manna che aveva dato Mosè non era il vero pane del cielo, ma ne era solo una figura; non era nutrimento dell’anima ma del corpo, non donava la vita eterna, ma sosteneva per poco quella temporale. Gesù Cristo era venuto dal cielo in terra per sostenere la vita spirituale di quanti avrebbero creduto in Lui, e per sostenerla incorporandoli a sé e diventando loro vita soprannaturale. In questo senso, Egli poteva chiamarsi loro pane, perché li nutriva con la parola della verità, e voleva diventare loro cibo vero col dono ineffabile dell’Eucaristia.
Adamo ed Eva erano stati nutriti dalla menzognera parola di satana, avevano colto e mangiato il frutto proibito, ed erano caduti nella morte spirituale ed in quella corporale; Gesù Cristo, novello Adamo, voleva nutrire i suoi nuovi figli con la parola di verità che doveva elevarli al Padre, e darsi come frutto di vita dall’albero della croce, dandosi come Vittima immolata e come Cibo di vera vita.
Sentendo parlare di pane di vita e di pane che dà la vita al mondo, il popolo che aveva fresco il ricordo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, prese la frase in senso tutto materiale, e credé che Gesù volesse rinnovare quel miracolo; perciò esclamò con premura: Signore dacci sempre un tal pane.
Il Redentore li disingannò subito, aggiungendo che il Pane di vita che voleva dare era Lui stesso, un pane che avrebbe saziato l’anima non il corpo, e che avrebbe estinto la sete della cupidigia e delle passioni con la prospettiva dei beni eterni, nella luce della fede; un pane che, essendo un mistero di fede, avrebbe nutrito l’anima con l’atto di fede più bello, quello di credere senza vedere. Voi poi – soggiunse Gesù –, avete visto i miracoli che ho fatti, e non mi credete, perché, come già vi ho detto, cercate il vostro benessere materiale; volete vedere per credere, e siete tanto lontani dal credere, perché il vedere non è più fede.
Gesù Cristo, dunque, come appare chiaramente dal contesto, chiamandosi Pane del cielo e cominciando a parlare dell’ineffabile Dono che voleva dare, vi mette come fondamento la fede, una fede che crede senza vedere, una fede non sostenuta dai miracoli esterni, ma piena e completa nel più grande miracolo di amore nascosto. Diremmo quasi che era la prova a cui Dio sottoponeva l’uomo nella nuova Legge.
Adamo ebbe come prova la proibizione di un frutto bellissimo, la cui privazione esigeva un atto pieno di fede alla Parola di Dio; quel frutto non manifestava, nel suo aspetto e nel suo gusto, nulla che fosse nocivo e mortale, anzi, era bello e dilettevole; eppure l’uomo, credendo a Dio, doveva privarsene.
Il Signore diede all’uomo redento e rigenerato la prova opposta: un frutto di vita e d’amore che non ha nessuna manifestazione esterna né di bellezza né di gusto, un frutto che dev’essere colto con un atto di fede piena nella parola del Redentore.

Adamo credé non a Dio ma alle apparenze del frutto, lo mangiò e cadde; l’anima nell’Eucaristia non crede alle apparenze ma alla parola di Gesù, crede e riceve la vita. La sua prova è quotidiana, il suo Eden è la Chiesa, il suo albero di vita è l’Eucaristia, il suo frutto è Gesù nascosto dai veli del pane e del vino.

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo