sabato 30 agosto 2014

Gesù Cristo rimprovera San Pietro.


Commento al Vangelo della XXII Domenica TO 2014 A (Mt 16,21-27)



Don Dolindo Ruotolo
Gesù Cristo rimprovera san Pietro
Dopo la confessione solenne che san Pietro fece della divinità di Gesù Cristo sarebbe sembrato logico che quella grande verità fosse stata divulgata in mezzo al popolo; invece il Redentore comandò ai suoi discepoli di non dire a nessuno che Egli era il Cristo. Il dirlo avrebbe attratto su di loro l’ira degli scribi e dei farisei, la quale, cogliendoli ancora impreparati, li avrebbe travolti. D’altra parte, essi, in quel momento, avrebbero travisato la verità, aspettando, come tutti gli Ebrei, il regno trionfante del Messia e avrebbero potuto provocare un movimento politico nel popolo, per far proclamare re temporale il Redentore. Gesù Cristo volle prepararli a concezioni diametralmente opposte a quelle che essi avevano su di Lui, e cominciò a parlare loro della sua Passione e della sua futura risurrezione. Gli apostoli non badarono tanto all’annuncio della risurrezione, e si sgomentarono della profezia delle lotte e delle pene.
San Pietro, come capo proprio allora proclamato, credé di intervenire con autorità e, preso in disparte Gesù, cominciò a rimproverarlo del discorso fatto, e ad annunciargli, con una presuntuosa sicurezza, che ciò che Egli aveva detto non doveva avverarsi di Lui e non si sarebbe avverato.
Era lo stesso che voler sconvolgere i piani della Provvidenza; era lo stesso che voler impedire la redenzione; quelle parole erano una tentazione. Satana indusse Pietro a pronunciarle, quasi per vendicarsi della confessione solenne che aveva fatta della divinità del Redentore, e per questo Gesù lo chiamò satana e lo scacciò lontano da sé.
Il suo amore fu immenso nell’annunciare la sua Passione, poiché non vedeva l’ora di dare la vita per noi, e le parole inconsiderate di san Pietro gli ferirono il Cuore, acceso d’infinita carità.

La via della croce
Non c’era da illudersi con aspirazioni terrene, non c’era d’aspettare un trionfo politico; Egli doveva e voleva immolarsi, e chi avrebbe voluto seguirlo doveva andargli dietro caricato di croce, dopo aver rinnegato se stesso, la propria volontà e le proprie aspirazioni. Non c’era altra via di salvezza e chi avesse voluto salvare la propria vita, cioè conservare le sue false gioie e le sue illusioni, avrebbe perso la vera, la nuova vita che Egli veniva a dare alle anime. Egli non veniva a restaurare un regno terreno né valori materiali, ma veniva a restaurare il regno dello spirito e i valori soprannaturali. Che cosa, infatti, avrebbe portato di bene all’anima una restaurazione temporale? Anche se avesse portato la prosperità che cosa sarebbe stata questa piccola prosperità, di fronte ai supremi ed eterni interessi dell’anima?
La vita passa e viene il giorno nel quale si deve rendere conto di tutto al Giudice eterno; allora nulla varranno onori, ricchezze e piaceri, poiché nulla può darsi in cambio dell’anima.
Nel giorno del Giudizio, Gesù Cristo verrà nella gloria del Padre suo, cioè nel fulgore della sua divinità, e renderà a ciascuno quello che avrà meritato; il merito non potrà computarsi con la misura che ha il mondo; tutto quello che fa grandi sulla terra sarà nullità in quel giorno, e perciò è conveniente rinnegare se stessi, prendere la croce e camminare in compagnia del Re divino verso la vita eterna.
Queste parole avrebbero potuto scoraggiare gli apostoli, e forse già si affacciava nel loro cuore una delusione nascosta. Avevano sospirato al regno glorioso del Messia, e sentivano parlare di abnegazione di croce; avevano sperato un’immediata proclamazione del Re, trionfatore dei nemici d’Israele, e sentivano parlare di dover perdere tutto per poter guadagnare un regno invisibile; il loro cuore stava per naufragare nel dubbio e perciò Gesù li confortò, annunciando vicino il suo regno, e dicendo che alcuni di quelli che erano presenti avrebbero visto la sua venuta, prima di morire.
Venuta di Dio nelle Scritture significa Giudizio di Dio e manifestazione della sua potenza (cf Is 3,14; 30,27; 66,15-18; Ab 3,3ss); Gesù, avendo parlato della croce e avendo accennato al Giudizio – suprema manifestazione della sua potenza –, predice una prima manifestazione di questo Giudizio nel castigo che avrebbe avuto Gerusalemme ingrata, castigo che sarebbe stato relativamente a breve scadenza e che alcuni di quelli che lo ascoltavano avrebbero visto. Allora il suo regno si sarebbe dilatato in tutto il mondo e la Chiesa si sarebbe affermata maggiormente. Con questa speranza, gli apostoli sentirono che si preparava qualcosa di grande in un prossimo futuro, e sentirono il coraggio di seguire ancora Gesù Cristo.

sabato 23 agosto 2014

La confessione della divinità di Gesù Cristo

Commento al Vangelo della XXI Domenica TO 2014 A (Mt 16,13-20)


La confessione della divinità di Gesù Cristo
Tra le incertezze che agitavano l’anima degli apostoli a causa della propaganda degli scribi e farisei Gesù volle diffondere un raggio di luce viva, inducendo i suoi cari a risvegliare in loro quella fede che era quasi attutita. Egli andò nei pressi di Cesarea di Filippo – città posta ai piedi dell’Ermon –, e in un momento di maggior pace e solitudine domandò loro che cosa dicessero di Lui gli uomini. Essi gli risposero, accennandogli le varie opinioni che si avevano di Lui. Questa esposizione doveva far riflettere loro che le varie opinioni non erano la verità, perché questa non poteva essere che una sola.
Subito dopo, illuminandosi di luce divina e fissando con uno sguardo arcano i suoi cari, domandò: E voi chi dite che io sia? All’opinione degli uomini bisognava opporre la parola della verità, ed Egli volle che la pronunciasse decisamente Pietro che doveva essere il maestro della verità, lui e i suoi successori, fino alla consumazione dei secoli.
Una luce interiore gliela rivelò ed egli, acceso d’un tratto d’amore, senza esitare, gridò con sicurezza assoluta: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
Fu un momento solenne, una definizione dogmatica che si scolpì nel fondamento stesso della Chiesa, una luce di verità che si accese per illuminare i secoli. Fu come il crisma che consacrò la voce del principe degli apostoli, la luce di una nuova beatitudine, quella della verità che non conosce ombre che è assoluta e immutabile, e perciò Gesù, rivolto a Pietro, lo chiamò beato per quella rivelazione che gli era venuta dall’Alto e che non gli era stata suggerita dalla carne e dal sangue, cioè dalla debolezza dell’umana natura e dell’umana ragione. Lo chiamò beato anche per quello che voleva annunciargli, e si potrebbe dire che Gesù stesso, con questa parola, abbia assegnato al primo Papa e ai suoi successori il titolo della loro dignità: la beatitudine, la santità. Il Papa è chiamato santità perché è il vicario del Santo dei santi, è custode della verità e del bene: i due capisaldi della santità; è Colui che ha come programma del suo regno la santità.


Il fondamento saldo della Chiesa:
«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»
Gesù, all’elogio fatto a san Pietro, fece seguire la promessa di un regno di nuovo genere, dicendogli: E io ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa.
In aramaico, la lingua usata da Gesù Cristo, non c’è differenza di genere tra il nome proprio Pietro e il nome comune pietra, ma l’uno e l’altro si esprimono con la parola kefas che significa rupe, macigno, perciò è chiarissimo, dal contesto medesimo, che Gesù volle esplicitamente riferirsi a san Pietro come a fondamento della sua Chiesa. Egli non additò se stesso – come dicono i protestanti –, perché questo gesto non risulta in nessun modo dal Testo e dal contesto, ma parlò a san Pietro proprio come al futuro fondamento saldissimo della Chiesa. Le sue parole, nella lingua nella quale furono pronunciate, equivalgono a questo: Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa; non parlò, dunque, di altri che di Pietro e, promettendogli di farlo capo e fondamento del suo regno, gli promise la forza di difesa soprannaturale, la giurisdizione giudiziaria e il potere della sanzione.
Pietro, dunque, doveva essere il capo della Chiesa non per onore, ma il capo difeso da invisibili eserciti, il capo che comanda e sanziona, e alla cui voce risponde il Cielo, cioè la potenza di Dio.


Il Papa, capo della Chiesa di Cristo
Gesù Cristo non poteva, in una maniera più completa e sintetica, annunciare e promettere la suprema autorità del Papa nella Chiesa.
Le porte dell’Inferno cioè le potenze infernali, non potranno prevalere contro la Chiesa che è il nuovo popolo di Dio, proprio perché essa avrà un unico capo e sarà sorretta dalla compagine dell’unità. Dire che le porte dell’Inferno non prevarranno è lo stesso che annunciare la guerra che le potenze infernali faranno alla Chiesa, e la sua vittoria in ogni tempo, fino alla consumazione dei secoli, poiché essa non potrà mai morire.
Come è ammirabile la luminosa laconicità delle parole di Gesù Cristo e come sintetizzano la natura e la storia della sua Chiesa e della potestà del Papa! D’allora ad oggi nessuno potrà negare che esse si siano avverate, e che tra il fluttuare delle vicende umane siano rimasti sempre incrollabili la Chiesa e il suo capo! Dopo la risurrezione, Gesù donò a san Pietro ciò che gli aveva promesso (cf Mt 16,18) e i poteri che gli diede, riguardando un’istituzione immortale, dovevano di necessità trasmettersi ai successori.
San Pietro, nominato sempre per primo in tutti i Vangeli, esercitò difatti la sua supremazia, come si vede chiaramente negli Atti degli Apostoli. Egli, dunque, è il capo incontrastato della vera Chiesa. Del resto, sarebbe assurdo pensare che Gesù Cristo avesse potuto istituire un organismo che è una vera società visibile, senza un capo visibile; se l’avesse fatto, avrebbe creato un regno diviso, destinato a perire come si dividono e periscono le sette che si distaccano dal vicario di Gesù Cristo.
Oggi che l’onda limacciosa dell’ateismo, e quindi della violenza, tenta cancellare dalla faccia della terra ogni culto e ogni idea di Dio, i poveri protestanti, invece di farsi seminatori di scandali e di discordie, devono sinceramente convertirsi al Signore e riunirsi alla sua Chiesa.
Se non lo fanno diventano – come già è avvenuto dove ferve la persecuzione contro la Chiesa –, i cooperatori degli scelleratissimi empi e i manutengoli dei loro tenebrosi disegni.
Niente può sostituirsi alla Chiesa e nessuno può soppiantare il suo augusto Capo; solo la Chiesa vive delle ammirabili ricchezze di Gesù Cristo, e solo il Papa le trasmette in essa, quasi cuore e cervello di quell’organismo meraviglioso.
Chi si apparta dalla sua autorità perisce come un organismo che ha i centri vitali paralizzati. La Chiesa e il Papa sono mirabili frutti della redenzione dai quali sbocciano tutti gli altri; chi li disprezza, raccoglie la zizzania, credendola grano, anzi raccoglie la rovina temporale ed eterna

Don Dolindo Ruotolo 


sabato 16 agosto 2014

La Cananea

Commento al Vangelo della XX Domenica TO 2014 A (Mt 15,21-28)



La Cananea

Gli scribi e farisei, nelle loro opposizion
i al Redentore, non si contentavano solo di parole, ma tentavano passare ai fatti e ordivano congiure contro di Lui, per liberarsene. Gesù Cristo, per impedire una recrudescenza del loro odio, si allontanò dalla pianura di Genesaret, dove si trovava, e passò nelle parti di Tiro e Sidone, cioè tra gente cananea. Egli annunciava così, con i fatti, che la parola della verità, rigettata dal popolo ebreo, sarebbe passata ai pagani; non andò in quei luoghi per evangelizzarvi il popolo, ma per indicare quello che sarebbe avvenuto in futuro e, conoscendo tutto, vi andò per mostrare con un esempio pratico agli apostoli, disorientati dalla propaganda farisaica che cosa significasse aver fede. È evidente dal contesto che Egli stesso attrasse a sé la povera Cananea che andò a supplicarlo per la figlia indemoniata; anzi può dirsi che sia andato esclusivamente per lei in quelle contrade, non avendovi operato altro.
La fama dei suoi miracoli si era sparsa in ogni luogo, e forse la Cananea aveva tante volte desiderato incontrarsi con Lui, per supplicarlo in favore della figlia. Forse aveva pregato con viva fede, credendolo il Messia; di fatto avvenne che, appena saputo della sua presenza, gli corse incontro, chiamandolo Figlio di Davide e Signore, e rivelandolo come Colui che doveva venire.
La sua preghiera fu semplicissima: ella espose il suo caso doloroso, e lasciò a Lui la cura di pensarci.
Pregò con fede nel chiamarlo Figlio di Davide, con umiltà nell’implorarne pietà e con fiducia, esponendogli il suo caso doloroso tra grida di suppliche. Gesù non le rispose nulla: sembrò insensibile a quell’angoscia materna, Egli che aveva un Cuore infinitamente tenero.
La donna non si scoraggiò ma continuò a gridare e gli apostoli, presi dalla compassione, lo supplicarono di accontentarla. Egli rispose che non era stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele.
Con queste parole non intese dire di non voler esaudire la preghiera di quella donna, ma volle mostrare agli apostoli, con una durezza che li addolorava, quanto era contrario alla carità la crudeltà di chi s’irrigidiva in una legge esteriore, senza tener conto del suo spirito.
Dal suo Cuore, però, partivano raggi di carità invisibili che colpirono la donna, la resero più ardita e la fecero avvicinare a Lui, implorando aiuto. Gesù rispose che non era bene prendere il pane dei figli per darlo ai cani. Chiamò cani i pagani, non perché il suo amore li stimasse tali, ma perché così li riguardavano gli scribi e i farisei.
Intenzionalmente volle far sentire agli apostoli, in un contrasto con una madre supplicante, quanto fosse ingiusto il disprezzo che gli Ebrei avevano dei pagani. Essi, vedendo quel disprezzo in confronto con Lui, Carità per essenza, ne distinguevano di più l’orrore. Egli, poi, dicendo una parola così dura alla povera Cananea, le fece sentire, contemporaneamente, con quale carità la riguardava; il suo Cuore divino la provava e le dava la grazia per resistere alla prova. La Cananea, infatti, rispose con maggiore fede che anche i cagnolini mangiavano le briciole che cadevano dalle mense dei loro padroni. Era indegna del pane dei figli, e come cagnolina voleva raccogliere solo una briciola di quella potenza taumaturga con la quale Egli colmava di benefici tanti poveri infelici. Questa era la più grande espressione di una fede umile e sincera, e Gesù, mutando d’un tratto atteggiamento, ed elogiando tanta fede, la esaudì e, a distanza, con una parola d’onnipotenza, le sanò la figlia.
La lezione era tutta rivolta agli apostoli titubanti; essi dovettero riconoscere che non avevano quella fede profonda che sa resistere alle prove; dovettero capire quanto superiore agli scribi e farisei era quell’umile donna che aveva nel cuore un tesoro di fede sul Messia, e si sentirono rinfrancati nello spirito. Gesù, poi, partito di là, e andato verso il mare di Galilea, cioè sulla riva orientale del lago di Genesaret, vi operò moltissimi strepitosi miracoli, confermando così la fede dei suoi apostoli.
Muti, ciechi, zoppi, storpi e molti altri infermi sperimentarono la sua potenza e ne furono consolati spiritualmente e corporalmente.
Quante volte, pregando, ci sembra che Gesù Cristo, la Madonna e i santi non ci ascoltino, e l’anima si disorienta, a volte, fino a sentir venir meno la fede! Quante volte, in questi momenti di tenebre, satana ci suggerisce che è vano pregare e ci getta in una cupa disperazione che è forse il tormento maggiore della vita! Eppure, in quei momenti di oscurità, proprio allora, dobbiamo intensificare la preghiera, perché la fede esca ingigantita dalla prova e ottenga grazie maggiori di quelle che ha richieste. Si può dire, con assoluta certezza, che nessuna preghiera è vana, e che quando non ci vediamo esauditi ci si prepara una consolazione più grande, temporale ed eterna. Non siamo degli abbandonati nel mondo, non siamo dei reietti: siamo figli del Padre celeste, ed Egli ci riserba il suo pane, cioè la ricchezza delle sue misericordie.

Padre Dolindo Ruotolo

sabato 9 agosto 2014

La tempesta del lago e Cristo Gesù

Commento al Vangelo della XIX Domenica TO 2014 A (Mt 14,22-33)

La tempesta del lago e Cristo Gesù

Al miracolo grandioso della moltiplicazione dei pani – come si rileva da san Giovanni (6,15) –, il popolo fu preso da tale entusiasmo che pensò di proclamare Re Gesù Cristo. L’idea di un Messia politicamente potente, radicata nella mente di tutti, e il pensiero di un re che avrebbe potuto provvedere alle necessità temporali della vita senza sforzo eccitarono il popolo a voler senza indugio inaugurare un regno di benessere materiale.
Il popolo, in quel momento, faceva capo agli apostoli che allora non erano immuni dal comune pregiudizio di un Messia glorioso, e perciò Gesù ordinò loro di passare all’altra riva del lago, mentre Egli licenziava le turbe. L’amor suo non poteva non rispondere agli atti di fiducia e di riconoscenza delle turbe, e chissà quante parole dolcissime dovette dire, e quante benedizioni dovette dare a ciascuno di quelli che gli tendevano le mani. Egli doveva anche sentire compassione per quella gente che si entusiasmava tanto per un beneficio temporale. Mai, come in quel momento, avevano avuto una manifestazione di fede più clamorosa, e mai questa fede era stata più meschina, tutta ristretta nelle cose fugaci della terra!
Licenziato il popolo, Gesù salì sopra un monte per pregare, mentre annottava; era la seconda sera. Gli apostoli erano lontani nel lago e, poiché il vento era contrario, la loro barca, sbattuta dai flutti, non riusciva ad approdare. Era la quarta vigilia della notte, cioè erano le tre del mattino.
Gli apostoli erano stati quasi tutta la notte alle prese con la tempesta, e forse avevano rivolto il pensiero a Gesù, per implorarne il soccorso. Gesù ascoltò il loro gemito e venne in loro soccorso, camminando sulle acque. Discendeva dal monte dove aveva pregato tutta la notte e, in quella sublimissima orazione il suo corpo attratto dall’estasi dell’anima, s’era fatto leggerissimo, molto più di quello che non avvenga nei santi, rapiti in alto. Scese dal monte, dunque, come in volo, e camminò sulle acque non rendendole solide con un miracolo, ma sorvolandovi sopra per l’altissima estasi della sua orazione. La sua andatura veloce, quasi come nube che passa, giustificò l’impressione degli apostoli che lo crederono un fantasma. Essi gridarono per lo spavento, ma Gesù li rassicurò, dicendo: Abbiate fiducia, sono io, non temete. Era distante dalla barca, com’è chiaro dal contesto, e forse il medesimo vento contrario sospingeva lontano il suo corpo, fatto leggero.

Lo slancio di san Pietro
Nell’impeto dell’amore, san Pietro gridò: Signore, se sei tu, comandami di venire da te sulle acque. Non voleva far saggio di un’acrobazia marina, in quel momento di angosciosa tempesta; gridò, per assicurarsi della verità; sentì che egli doveva confermare nella verità i suoi compagni. Gesù gli disse: Vieni. Pietro, a quella parola di comando che ordinava il mare ai suoi passi e ne formava per lui una via, si gettò dalla barca senza pensare più a quel che faceva. L’impeto dell’amore lo aveva tratto in estasi, e il suo corpo s’era fatto leggero come quello di Gesù. Dio non fa opere superflue, e negli stessi miracoli usa un’economia mirabile, utilizzando le cause seconde da Lui create. Non c’era bisogno di solidificare le acque, quando Gesù, attraendo l’anima di Pietro nel suo amore, poteva, con un’estasi, renderlo leggero. Il contesto medesimo ce lo fa arguire.
Nelle estasi, infatti, si sa che il corpo, elevato da terra, è così leggero che un soffio può farlo dondolare nello spazio. San Pietro, fatto leggero dall’amore, si slanciò ma, vedendosi investito dal vento e come travolto proprio per la sua leggerezza, temette, si concentrò in sé, uscì dall’estasi d’amore, ridiventò pesante, cominciò a sommergersi. Vedendosi in pericolo, gridò a Gesù: Salvami! E Gesù, stesa la mano, lo prese, lo rimproverò dolcemente della sua poca fede, e con lui salì nella barca. Subito il vento si quietò e gli apostoli, stupefatti, adorarono Gesù, confessandolo per vero Figlio di Dio. Approdarono così facilmente sul far del mattino alla terra di Genesar o Genesaret, dove concorse gran turba di ammalati che, al solo toccare il lembo della sua veste, furono sanati.

Allora Pietro riconosce il Signore
È Pietro che riconosce il Signore; è il Papa che in un atto di umile fiducia intende che non è un fantasma, cioè un frutto di pericolose fantasie l’opera dell’amore, e per primo si slancia verso Gesù, domandandogli il segno della verità nel poter Egli stesso superare la tempesta. Il Papa, benché con quell’esitazione gli darà quasi l’impressione di inabissarsi in un gorgo d’illusioni, farà conoscere la grande manifestazione dell’amore di Gesù, e allora la Chiesa approderà nel lido della pace, e i popoli infermi, al contatto con la sua vita, che è come l’inconsutile veste del Redentore, saranno risanati. Prima la moltiplicazione del Pane eucaristico, fatta dall’amore di Gesù, poi la tempesta spaventosa, poi il riconoscimento di Gesù da parte di san Pietro, e subito la tranquillità, il sereno, la guarigione delle infermità del mondo al contatto della Chiesa.
Gesù Cristo moltiplicò i pani, dandoli agli apostoli perché li avessero distribuiti al popolo; era logico che avesse fatto così, data la grande calca di gente. Nella Chiesa, Egli opera alla stessa maniera, moltiplicando il Pane eucaristico; lo dà col suo amore, e ne affida ai sacerdoti la distribuzione. Dopo la moltiplicazione del pane materiale, il popolo pensò di proclamare Re Gesù Cristo, ed Egli si appartò sul monte, solo; ma, dopo la moltiplicazione del Pane eucaristico, non si apparta, anzi si mostra e trionfa, perché allora è acclamato Re di tutte le genti. Nella tempesta, la Chiesa griderà a Lui ed Egli, sedatane la furia, approderà a Genesar, all’orto del Principe, cioè alle nazioni prima apostate da Lui, e le risanerà al contatto della sua vita eucaristica, attraverso le sante Specie che, quasi come vesti, lo avvolgono e lo nascondono.
Giovanni fu decapitato da Erode, sobillato da Erodiade; Erode ed Erodiade, rappresentanze della carne che insorge contro lo spirito e perde la testa.
Padre dolindo Ruotolo

sabato 2 agosto 2014

La misericordia e la potenza di Gesù Cristo nella moltiplicazione dei pani


Commento al Vangelo della XVIII Domenica TO 2014 A (Mt 14,13-21)

La misericordia e la potenza di Gesù
Cristo nella moltiplicazione dei pani

Erode aveva sentito parlare dei miracoli strepitosi che operava Gesù, e siccome, evidentemente, aveva ancora nell’animo il rimorso del delitto commesso – perché in fondo stimava Giovanni –, pensò che il Redentore fosse lo stesso Battista risuscitato da morte e dotato di un’arcana virtù. Quest’opinione correva anche sulla bocca del popolo e può credersi che Gesù, per evitare qualche dimostrazione, si sia ritirato in luogo appartato e deserto. Egli volle così togliere ad Erode e ad Erodiade ogni pretesto per impedirgli con la forza l’apostolato, e perciò, probabilmente, si ritirò sulla riva orientale del lago di Genesaret, nella tetrarchia di Filippo.
Il popolo, però, si accorse della direzione che prendeva la barca sulla quale Egli traghettava, e per terra, a piedi, raggiunse di corsa quel luogo, richiamando altra gente col suo stesso affollamento. Gesù, sceso dalla barca, si vide d’intorno una grande moltitudine, e in essa molti infermi; il suo cuore si commosse a quello spettacolo di fede, e guarì i loro infermi, annunciando poi la divina parola. La folla pendeva dal suo labbro, e non si curava della necessità di procacciarsi del cibo; quelle istruzioni di vita eterna la saziavano, e le ore si succedevano alle ore, senza stancare.
Gli Ebrei distinguevano due sere: la prima dalle ore tre alle sei dopo mezzogiorno, e la seconda dal tramonto del sole agli ultimi bagliori del crepuscolo. Si era già nella prima sera, e gli apostoli si preoccuparono di quella gente che, venuta da città e paesi anche lontani, non avrebbe potuto trovare da mangiare se fosse sopravvenuta la seconda sera; perciò si avvicinarono a Gesù e lo pregarono di congedare le turbe.
Il Redentore rispose che non avevano bisogno di andarsene, e che essi stessi avessero dato loro da mangiare. Egli provava la loro fede, e voleva costringerli a constatare il miracolo che stava per operare. Essi, infatti, poterono vedere che non avevano che cinque pani e due pesci, provvista assolutamente irrisoria per quel popolo di cinquemila uomini, oltre le donne e i fanciulli.
Gesù Cristo ordinò che gli venisse portata quella modestissima provvista, ed esortò il popolo a sedere sull’erba come in convito. Con questi due gesti cominciava a porre quasi il fondamento remoto del miracolo; ordinando quel poco cibo a quella turba immensa, Egli, onnipotente Signore, già comandava indirettamente a quel cibo di crescere, come, ordinando il granello al sostentamento degli uomini, gli dà la forza di crescere e moltiplicarsi nella terra. Quando istituì l’Eucaristia, dicendo sul pane: Questo è il mio corpo, lo transustanziò nel suo Corpo, non potendo la sostanza del pane reggere a quel comando di onnipotenza e, transustanziandolo, lo moltiplicò mirabilmente, saziando le turbe di tutti i secoli.
Presi i cinque pani e i due pesci, Gesù alzò gli occhi al cielo, per mostrare, con questo gesto, che operava per virtù divina; benedisse i pani e i pesci con la sua mano, per mostrare che Egli era la potenza divina che li moltiplicava; li spezzò per ordinare quel cibo alle turbe, e li diede ai discepoli, affinché essi li avessero dati alle turbe. Tutti mangiarono e furono saziati, e si raccolsero gli avanzi in dodici ceste piene. Dunque, non poté essere una suggestione, perché gli avanzi numerosi mostravano che il popolo aveva realmente mangiato.
Il miracolo si operò col crescere portentoso del pane e dei pesci a misura che erano spezzati, così come cresce il grano nella terra e, crescendo, si moltiplica. Nelle mani di Gesù quel cibo era come una semente, e aveva una forza germinativa immediata. Si può domandare solo se questa forza fu comunicata a un solo dei cinque pani o a tutti e cinque, cioè se Gesù spezzò prima i quattro pani integralmente e poi moltiplicò il quinto. Crediamo più probabile che li moltiplicò tutti e cinque, ordinandone ciascuno ad uno dei raggruppamenti di popolo, e così pure crediamo che sia avvenuto dei pesci.
Gesù guardava in quel momento un popolo più numeroso: il popolo delle cinque parti del mondo che, seguendolo, avrebbe avuto fame di Lui; distribuendo il pane, il suo Cuore amorosissimo pensava alla distribuzione eucaristica che avrebbe riempito la terra e, nei due pesci, guardava l’immagine di se stesso, immolato per saziarci e donarci la vita. Certo, fin dal primo secolo della Chiesa le pitture catacombali identificarono il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci col miracolo eucaristico; questo ci farebbe supporre che Gesù Cristo stesso abbia allora manifestato il desiderio di voler compiere un miracolo più grande, donandosi come Cibo. In quel momento donò il pane della sua benedizione; dopo nell’Ultima Cena, donò se stesso nel pane della benedizione.
Erode aveva dato la morte al Precursore, ed egli, allontanandosi dal luogo della morte, aveva alimentato la vita, e aveva, con ciò, promesso la Vita.
Erode aveva spento una vita santa ed egli, dando al popolo la vita, aveva annunciato, in un simbolo, quella vita mirabile che avrebbe data alle anime, come capo della nuova umanità.
Noi facciamo delle congetture, ma non si può dubitare che Gesù, nell’operare quel miracolo, abbia avuto altissimi fini d’amore. Egli nutrì il popolo con una potenza d’amore immenso, più che mamma che allatta il suo piccino, e la sua carità avvolse tutta quella moltitudine. Era una lezione profonda che confermava le sue parole: Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in sovrappiù; era un avviso ai popoli che il loro benessere materiale non viene dalle ideologie fallaci dei mestatori, ma dalla Chiesa che sola ne tutela le esigenze giuste e sobrie. Nella Chiesa vive e si dona Gesù, e solo seguendolo nelle altezze della fede si riceve quella benedizione che moltiplica quello che è necessario alla vita. 
Padre Dolindo Ruotolo