sabato 28 giugno 2014

La confessione della divinità di Gesù.

 Commento al Vangelo della XII Domenica del TO A 2014 (Mt 16,13-19)

La confessione della divinità di Gesù


Tra le incertezze che agitavano l’anima degli 

apostoli a causa della propaganda degli scribi e farisei Gesù volle diffondere un raggio di luce viva, inducendo i suoi cari a risvegliare in loro quella fede che era quasi attutita. Egli andò nei pressi di Cesarea di Filippo – città posta ai piedi dell’Ermon –, e in un momento di maggior pace e solitudine domandò loro che cosa dicessero di Lui gli uomini. Essi gli risposero, accennandogli le varie opinioni che si avevano di Lui. Questa esposizione doveva far riflettere loro che le varie opinioni non erano la verità, perché questa non poteva essere che una sola.
Subito dopo, illuminandosi di luce divina e fissando con uno sguardo arcano i suoi cari, domandò: E voi chi dite che io sia? All’opinione degli uomini bisognava opporre la parola della verità, ed Egli volle che la pronunciasse decisamente Pietro che doveva essere il maestro della verità, lui e i suoi successori, fino alla consumazione dei secoli.
Una luce interiore gliela rivelò ed egli, acceso d’un tratto d’amore, senza esitare, gridò con sicurezza assoluta: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
Fu un momento solenne, una definizione dogmatica che si scolpì nel fondamento stesso della Chiesa, una luce di verità che si accese per illuminare i secoli. Fu come il crisma che consacrò la voce del principe degli apostoli, la luce di una nuova beatitudine, quella della verità che non conosce ombre che è assoluta e immutabile, e perciò Gesù, rivolto a Pietro, lo chiamò beato per quella rivelazione che gli era venuta dall’Alto e che non gli era stata suggerita dalla carne e dal sangue, cioè dalla debolezza dell’umana natura e dell’umana ragione. Lo chiamò beato anche per quello che voleva annunciargli, e si potrebbe dire che Gesù stesso, con questa parola, abbia assegnato al primo Papa e ai suoi successori il titolo della loro dignità: la beatitudine, la santità. Il Papa è chiamato santità perché è il vicario del Santo dei santi, è custode della verità e del bene: i due capisaldi della santità; è Colui che ha come programma del suo regno la santità.
«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»
Gesù, all’elogio fatto a san Pietro, fece seguire la promessa di un regno di nuovo genere, dicendogli: E io ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa.
In aramaico, la lingua usata da Gesù Cristo, non c’è differenza di genere tra il nome proprio Pietro e il nome comune pietra, ma l’uno e l’altro si esprimono con la parola kefas che significa rupe, macigno, perciò è chiarissimo, dal contesto medesimo, che Gesù volle esplicitamente riferirsi a san Pietro come a fondamento della sua Chiesa. Egli non additò se stesso – come dicono i protestanti –, perché questo gesto non risulta in nessun modo dal Testo e dal contesto, ma parlò a san Pietro proprio come al futuro fondamento saldissimo della Chiesa. Le sue parole, nella lingua nella quale furono pronunciate, equivalgono a questo: Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa; non parlò, dunque, di altri che di Pietro e, promettendogli di farlo capo e fondamento del suo regno, gli promise la forza di difesa soprannaturale, la giurisdizione giudiziaria e il potere della sanzione.
Pietro, dunque, doveva essere il capo della Chiesa non per onore, ma il capo difeso da invisibili eserciti, il capo che comanda e sanziona, e alla cui voce risponde il Cielo, cioè la potenza di Dio.
Il Papa, capo della Chiesa di Cristo
Gesù Cristo non poteva, in una maniera più completa e sintetica, annunciare e promettere la suprema autorità del Papa nella Chiesa.
Le porte dell’Inferno cioè le potenze infernali, non potranno prevalere contro la Chiesa che è il nuovo popolo di Dio, proprio perché essa avrà un unico capo e sarà sorretta dalla compagine dell’unità. Dire che le porte dell’Inferno non prevarranno è lo stesso che annunciare la guerra che le potenze infernali faranno alla Chiesa, e la sua vittoria in ogni tempo, fino alla consumazione dei secoli.
Come è ammirabile la luminosa laconicità delle parole di Gesù Cristo e come sintetizzano la natura e la storia della sua Chiesa e della potestà del Papa! D’allora ad oggi nessuno potrà negare che esse si siano avverate, e che tra il fluttuare delle vicende umane siano rimasti sempre incrollabili la Chiesa e il suo capo! Dopo la risurrezione, Gesù donò a san Pietro ciò che gli aveva promesso (cf Mt 16,18) e i poteri che gli diede, riguardando un’istituzione immortale, dovevano di necessità trasmettersi ai successori.
San Pietro, nominato sempre per primo in tutti i Vangeli, esercitò difatti la sua supremazia, come si vede chiaramente negli Atti degli Apostoli. Egli, dunque, è il capo incontrastato della vera Chiesa. Del resto, sarebbe assurdo pensare che Gesù Cristo avesse potuto istituire un organismo che è una vera società visibile, senza un capo visibile; se l’avesse fatto, avrebbe creato un regno diviso, destinato a perire come si dividono e periscono le sette che si distaccano dal vicario di Gesù Cristo.
Oggi che l’onda limacciosa dell’ateismo, e quindi della violenza, tenta cancellare dalla faccia della terra ogni culto e ogni idea di Dio, i poveri protestanti, invece di farsi seminatori di scandali e di discordie, devono sinceramente convertirsi al Signore e riunirsi alla sua Chiesa.
Se non lo fanno diventano – come già è avvenuto dove ferve la persecuzione contro la Chiesa –, i cooperatori degli scelleratissimi empi e i manutengoli dei loro tenebrosi disegni.
Niente può sostituirsi alla Chiesa e nessuno può soppiantare il suo augusto Capo; solo la Chiesa vive delle ammirabili ricchezze di Gesù Cristo, e solo il Papa le trasmette in essa, quasi cuore e cervello di quell’organismo meraviglioso.
Chi si apparta dalla sua autorità perisce come un organismo che ha i centri vitali paralizzati. La Chiesa e il Papa sono mirabili frutti della redenzione dai quali sbocciano tutti gli altri; chi li disprezza, raccoglie la zizzania, credendola grano, anzi raccoglie la rovina temporale ed eterna. 
Don Dolindo Ruotolo 

sabato 21 giugno 2014

Io sono il Pane della vita

Commento al Vangelo: Corpus Domini 2014 A (Gv 6,51-58)

Io sono il Pane della vita
Stabiliti i fondamenti del dono ineffabile che voleva elargire agli uomini, Gesù Cristo ne parla più determinatamente, perché non si fosse potuto equivocare sulla sua reale natura, ed esclama: Io sono il Pane della vita; non della vita materiale ma di quella spirituale; e poiché gli Ebrei avrebbero desiderato vedere un prodigio come quello della manna nel deserto, Gesù mostra la superiorità del Pane della vita sulla manna, soggiungendo: I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono. Questo è il Pane disceso dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia. Io sono il Pane vivo che sono disceso dal cielo. Chi mangerà di questo Pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.
La manna era un cibo che sosteneva la vita del corpo, ma non liberava dalla morte; il Pane vivo disceso dal cielo, invece, sostiene una vita immortale, quella dell’anima, e la libera dalla morte eterna, salvandola per sempre nella felicità eterna; questo pane, poi, è la carne stessa del Redentore, quella che Egli darà per la vita del mondo sulla croce e che sarà data continuamente nel sacrificio dell’altare per la vita delle anime. Non si poteva, dunque, equivocare in nessun modo: Gesù parlava non di un simbolo della sua Carne ma della sua vera Carne, poiché Egli non la offrì simbolicamente ma veramente e sanguinosamente sulla croce. Gli Ebrei lo capirono perfettamente, e se ne stupirono discutendo fra loro e dicendo: Come mai può Costui darci da mangiare la sua carne? Se la divide fra noi muore, e allora come può chiamarsi più pane vivo? Come mai può darcela viva? Se le parole di Gesù non avessero avuto l’accento della verità, essi non avrebbero discusso animatamente fra loro, ma le avrebbero disprezzate come una pazzia; essi, invece, sentivano che erano vere e assolute, e ne discutevano perché ne avrebbero voluto una spiegazione.

Com’era possibile una spiegazione naturale?
Ma, in un mistero di fede e d’amore così grande, la spiegazione naturale non era possibile; Gesù Cristo esigeva solo la fede, poiché, mangiando il suo Corpo e bevendo il suo Sangue sotto le Specie del pane e del vino, si sarebbe capito il mistero dai suoi mirabili effetti, vivendone. D’altra parte, Egli non parlava per stabilire una discussione, possibilissima, ma sproporzionata alla mentalità di quelli che l’ascoltavano; il suo Cuore ardeva d’amore, e l’amore anelava solo a donarsi; non ammetteva la discussione, voleva essere ricevuto e, promettendo un tanto dono d’amore, voleva come risposta l’amore; perciò soggiunse, rivolgendosi agli Ebrei e a tutto il mondo: Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Egli non alludeva, come pretesero gli eretici, all’immolazione che avrebbe subito né voleva dire che se non l’avessero ucciso non avrebbero avuto la vita, perché sarebbe empio e assurdo supporre che un delitto spaventoso, quale la morte che gli avrebbero dato, un delitto punito da Dio, poi, con la distruzione della nazione, avesse potuto portare la vita eterna e la risurrezione gloriosa a quelli che l’avrebbero consumato. Perciò Gesù Cristo, per evitare che si fosse frainteso, e per confermare che Egli parlava del suo Corpo e del suo Sangue come di vero alimento di vita spirituale, replicò: La mia carne è veramente cibo e il mio Sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio Sangue rimane in me e io in lui. Con una sublime analogia, poi, mostrò in quale maniera chi mangiava della sua Carne e beveva del suo Sangue aveva la vita e rimaneva in Lui: Come il Padre che ha la vita in sé, ha inviato me, e io vivo per il Padre, così, chi mangia di me, vivrà anch’egli per me.

Quando la corrente elettrica percorre un filo…
È un mistero altissimo che bisogna approfondire, per cercare di apprezzarne la magnificenza: La carne di Gesù è veramente cibo dell’anima, e il suo Sangue è veramente bevanda. È la sublime glorificazione del Corpo e del Sangue assunti dalla Persona del Verbo, è la carne veramente umana e il sangue veramente umano, resi così santi, spirituali e vivificanti, da poter trasfondere la vita all’anima. La Persona divina che li termina, li trasforma in spirito e vita, pur rimanendo essi vera carne e vero sangue.
Quando la corrente elettrica percorre un filo e si comunica, rende il filo non più un metallo inerte, ma un trasmettitore immediato dell’energia elettrica che elettrizza, muove, accende, illumina. Quando una vasca di liquido per la galvanoplastica è percorsa ai due poli dalla corrente, l’oro che vi è contenuto si depone sul rozzo metallo che vi è immerso, rendendolo poi come una massa splendente d’oro.
Può dirsi, così per intenderci, che la Carne di Gesù, divina per l’unione ipostatica, alimentando il nostro corpo informato dall’anima, trasmette, attraverso di esso, la divina corrente della grazia, e che il Sangue, splendente per la vita divina che lo termina, investe l’anima, spirito limitato e poverello, e la riveste dei fulgori della divina santità, saturandola di vita soprannaturale.
Il nostro corpo influisce sull’anima, perché ne è strumento, e il sangue, portando con sé le miserie o le buone qualità dell’atavismo, la trascina, per così dire, nella sua corrente limpida o limacciosa, salutare o avvelenata.
Il sangue porta nelle membra e negli organi, strumenti e ambienti della vita dell’anima, i relitti della vita buona o cattiva che eredita, e l’anima è quasi naufraga tra questa impetuosa corrente che deposita sul suo percorso, nel cuore, nel cervello, nei nervi, negli organi i rifiuti o le ricchezze della vita, annebbiando o illuminando, deprimendo o elevando le potenze puramente spirituali che costituiscono la vita dell’anima: l’intelletto e la volontà.
Possiamo dirlo? È ardito ma è ancora una pallida idea di fronte alla realtà: il Corpo e il Sangue di Gesù, unendosi al nostro corpo e nostro al sangue per il contatto sacramentale, portano nell’anima l’atavismo divino della sua santità, del suo amore, dei suoi pensieri, della sua carità, della sua immolazione, della sua fortezza; l’anima è come innesto dell’olivastro sull’ulivo – come dice san Paolo –, vive nuovamente, a poco a poco si trasforma, rimane in Gesù perché vive di Lui, e Gesù rimane in lei perché domina placidamente e sostituisce insensibilmente la sua vita, mutandola in vita soprannaturale, glorificante Dio.
Abbiamo quasi – come dicono i Padri –, uno stesso corpo e uno stesso sangue con Lui, e siamo quasi trasformati in Lui.
L’analogia portata da Gesù ci fa capire questo grande e profondissimo mistero anche meglio di qualunque analogia umana: il Padre ha la vita in sé e, generando il Figlio ab aeterno gliela comunica, di modo che il Figlio vive per il Padre; è l’eterna comunione del Padre col Figlio che fa vivere il Figlio della vita del Padre. Comunicandogli la vita, il Padre lo genera, e il Figlio gli è consustanziale, Dio come il Padre. Nella stessa maniera – dice Gesù –, chi lo riceve sacramentato riceve la sua vita, è generato ad una nuova vita, vive in Lui e per Lui, ed è come un altro Gesù. Rimanendo in Lui tutto Gesù, è evidente che col Corpo c’è il Sangue e col Sangue il Corpo, come col Corpo e il Sangue c’è anche l’Anima e la Divinità; ossia chi riceve anche una Specie sola riceve il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità del Redentore.
Gesù Cristo, concludendo il suo mirabile discorso, soggiunse: Questo è il pane disceso dal cielo. Non come la manna che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno. Egli si chiamò pane disceso dal cielo, dunque, non in senso figurato, ma in senso proprio, tanto è vero che la vita eucaristica non è un simbolo, ma è una vita vera che si comunica sotto le specie del pane e del vino.
Gesù parla di un cibo che deve mangiarsi con i denti, secondo l’espressione del testo greco; quindi parla della comunione della sua vita alle anime attraverso il Cibo eucaristico. Egli dona un Cibo che non è, come la manna, sostentamento momentaneo della vita corporale, ma è sostentamento dell’anima, a cui dà la vita immortale, e la ricongiunge poi al corpo gloriosamente nell’ultimo giorno. Egli ci dona una vita deifica come la chiamano i Padri –, poiché ci fa vivere di Lui, vero uomo e vero Dio che riceve la vita dal Padre per la comunione della generazione eterna, termina la natura umana assunta e, comunicandosi a noi, ci dona la sua stessa vita.
Il dono che promette è ineffabile, divino, rifulgente d’amore; non può ammettere le interpretazioni stiracchiate che ne fanno i protestanti per negarlo; è il vero cibo di vita, è Lui stesso che vuol donarsi, e che veramente si donò poi nell’Ultima Cena.
Se fosse un simbolo che cosa potrebbe produrre?
E non sarebbe strano l’aver dato come simbolo e memoria della sua dolorosa morte un banchetto di pane e di vino?
Qual padre, morendo, darebbe ai suoi figli, come ricordo della morte, un pezzo di pane e una coppa di vino?
Ma non occorre discutere per capire l’assurdo dei protestanti; basta vedere la loro vita: lungi dal rimanere in Gesù essi se ne staccano sempre più, cadono miseramente nell’abisso della loro stolta e cieca ragione, diventano per necessità prima razionalisti che non ragionano, poi indifferenti che non hanno nessuna premura di vivere di un Redentore umanizzato e storicamente deformato, poi atei, perché il loro Cristo non li porta a Dio, non essendo più il Cristo Dio, e finalmente, vuoti di tutto, vanno riesumando i loro idoli, abbrutendosi nelle moderne eresie.
Noi lo vediamo nelle nazioni protestanti apostate dalla Chiesa; lo vediamo soprattutto nella Germania nazista, il cui processo di dissolvimento spirituale e morale è stato più rapido a causa del suo triste ed avvelenato patrimonio di falsa filosofia, informe massicciata di errori che l’ha divisa dagli ultimi raggi vivificanti del Pane della vita!
Padre Dolindo Ruotolo
 

sabato 14 giugno 2014

Commento al Vangelo: Santissima Trinità A 2014 (Gvv3,16-18)
Don Dolindo Ruotolo
La redenzione è misericordia di Dio
Nicodemo pensò allora ai pagani che opprimevano il popolo ebreo, pensò alle scelleratezze da essi commesse, e al giudizio terribile che meritavano, e dovette domandarsi internamente: Come si concilia questa misericordia universale col giudizio severo promesso agli empi nelle Sacre Scritture? Il suo spirito, abituato a considerare i pagani come una massa dannata, e il popolo ebreo come l’unico erede della promessa, abituato a concepire il Messia come un re terribile e inesorabile che doveva schiacciare e annientare i nemici d’Israele, non sapeva capire come potesse attuarsi la redenzione senza una condanna inesorabile del mondo. Fu un pensiero che gli dovette sorgere in mente come un lampo, e può arguirsi dalla risposta di Gesù: «Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per condannarlo, ma perché il mondo per mezzo di Lui sia salvato».
Il Giudizio severo ci sarà non contro le altre stirpi o nazioni, ma contro chi non crede in Lui; e non sarà neppure un giudizio fatto con apparati esterni di grandezza o di forza, poiché chi non crede nel Figlio di Dio, non usufruendo della sua misericordia, può dirsi già giudicato, perché rimane nel suo peccato e da se stesso si condanna, non avendo come risorgere ed avere la vita eterna.
Il Giudizio – soggiunge Gesù per stabilire definitivamente l’esclusione assoluta di ogni principio di razza o di nazionalismo dal concetto della redenzione –, non riguarda più la massa umana decaduta, perché la redenzione la rialza; riguarda gli uomini singolarmente che, avendo la luce, preferiscono le tenebre alla luce e operano il male. Gli ignoranti, e quelli che senza loro colpa non hanno la luce e operano naturalmente il bene, troveranno un giudizio di misericordia, i cui limiti li conosce Dio solo, ma quelli che facendo il male odiano la luce, e non vi si accostano, positivamente, per non sentire rimorso e non sentirsi rimproverare, saranno già giudicati, trovandosi fuori del regno di Dio. Chi opera secondo verità, cioè secondo la legge naturale posta da Dio nel cuore umano, si accosta alla luce appena la vede e non ne ha timore, perché cerca il bene, simile a colui che, operando onestamente, non teme, come i ladri, la luce del giorno e, anzi, ha piacere di essere visto nelle opere buone che fa.

La redenzione non è un trionfo politico…

È questa dunque la retta idea del Messia e l’economia della redenzione, espressa dal discorso di Gesù a Nicodemo: non si tratta di un trionfo politico esterno, riservato al solo popolo ebreo, ma di una rinascita spirituale nell’acqua del Battesimo e nello Spirito Santo, possibile a tutti gli uomini. Le idee di un diritto al regno di Dio conseguente alla generazione della carne e alla discendenza naturale dal popolo ebreo non reggono poiché il vero popolo eletto sarà quello formato dallo Spirito Santo per la grazia, sarà la Chiesa universale.
È questo ciò che hanno annunciato i profeti, ed è questo che annuncia Gesù, portando sulla terra, piena e completa la luce di Dio. Egli non è semplicemente un uomo eletto e privilegiato, è Colui che era in principio presso di Dio, è disceso in terra facendosi uomo, e non ha cessato di essere in cielo, essendo anche vero Dio. È disceso in terra per immolarsi ed essere innalzato sulla croce, e per salvare col suo sacrificio tutti gli uomini. Egli non limita il suo sacrificio ad alcuni soltanto, ma dà la pienezza della redenzione e dei meriti a tutti; tocca agli uomini usufruirne, credendo in Lui e incorporandosi a Lui nella sua Chiesa. Dio, invece di colpire il mondo con un giudizio ed una condanna inesorabile, com’esso meriterebbe, gli dà la massima testimonianza d’amore, donandogli il suo Figlio, e glielo dona perché sia salvato credendo in Lui, operando per Lui il bene e osservando i suoi precetti.
La redenzione, quindi, non è un giudizio di condanna ma un dono di misericordia; solo chi non l’accetta si condanna da se stesso.
Chi non conosce la redenzione senza sua colpa è già un redento poiché il Redentore ha salvato tutti ed ha pagato per tutti, virtualmente, il prezzo del riscatto. Se opera il bene, anche naturalmente, e vive secondo i dettami della legge naturale, appartiene all’anima della Chiesa e trova misericordia. Perisce chi, conoscendo la luce, preferisce ad essa le tenebre e vive da malvagio, odiando la luce per non lasciare la vita perversa che mena.
Come si vede, il discorso di Gesù non è involuto, è completo nella sua mirabile sintesi, degna della sua mente divina. Egli, poi, parlando, come abbiamo detto, lo illuminava della sua luce e penetrava profondamente l’anima di Nicodemo.
Il Sacro Testo non ci dice che cosa abbia detto Nicodemo in fine del discorso, ma questa medesima reticenza ci fa capire che rimase in silenzio profondo, tutto compreso della verità che lo illuminava. Per la prima volta da quando approfondiva la legge, aveva avuto un’idea chiara sul Messia e sulla sua divina Missione. L’anima sua ardeva in quel momento, poiché un mondo nuovo gli si era aperto davanti. Egli, allora, non seguì materialmente Gesù, ma gli rimase attaccato, e si propose di osservare attentamente come si sviluppasse la sua missione. Quando il sinedrio decise di far catturare Gesù e ucciderlo, egli insorse per difenderlo, protestando che, secondo la Legge, non lo si poteva condannare senza ascoltarlo (7,50-51). Era ancora impressionato dal discorso di quella notte, e sperava che il sinedrio, parlandogli direttamente, si sarebbe ricreduto sul suo conto.
Rimase sempre… di notte, è vero, non osando apertamente schierarsi per il Redentore, ma lo fece con animo retto, stimando che, come parte dell’autorità suprema, egli non poteva impegnare il proprio giudizio in un fatto che aveva tanti aspetti di innovazione religiosa. Credé di attendere in un prudente riserbo, e il Signore lo compatì, nella sua misericordia. Ma, quando seppe che Gesù era stato crocifisso, e lo vide pendente dalla croce, allora certamente si ricordò delle solenni parole ascoltate nella beata notte nella quale gli aveva parlato: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così è necessario che sia innalzato il Figlio dell’uomo, la sua fede si scosse, germinò, fiorì, e volle egli insieme a Giuseppe d’Arimatea togliere il Corpo divino dalla croce, diventando subito un seguace aperto del Maestro divino (19,39-41). Staccando il Corpo divino dalla croce, ne contemplò le piaghe e, commovendosi, si sdegnò contro il sinedrio che l’aveva così martoriato, ne contemplò la calma divina, ravvisò in quel volto l’amore col quale gli aveva parlato in quella notte e, staccandosi definitivamente dal sinedrio, si unì alla Chiesa nascente.

sabato 7 giugno 2014

Gesù Cristo appare agli apostoli.

Commento al Vangelo – Domenica di Pentecoste 2014 A (Gv 20,19-23)
Gesù Cristo appare agli apostoli

Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.
Essi erano in buona fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che parlavano della risurrezione e non ricordavano ciò che, in proposito, aveva detto loro Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente, ma s’erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro aspirazioni.
Il timore poi dei Giudei aveva fatto nascere in loro, quasi inconsciamente, il desiderio di sottrarsi, se fosse stato possibile, all’incanto e al fascino di ciò che in tre anni avevano visto e ascoltato.
La paura è sempre una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse: La pace sia con voi.
Nella sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di sbigottimento che si generò in loro a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate e il costato aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, e avessero constatato che quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.

Il Corpo risorto di Cristo
e le ombre penose della bellezza umana
Il momento fu solenne, ed è difficile, per noi, formarcene una pallida idea.
Il Corpo di Gesù, essendo risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano sottigliezza, per la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde radiofoniche e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà ostacoli insormontabili ai corpi. Il Corpo glorioso è come spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e tutto energia, e può attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio. Gesù Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli apostoli. Non irradiava luce quasi fosse un sole, come può arguirsi da apparizioni di esseri ultramondani, ma era Egli, come un corpo tutto splendente, luce placidissima che non abbagliava.
Pietro, Giacomo e Giovanni dovettero ricordare, allora, la scena della trasfigurazione che aveva qualche somiglianza con ciò che vedevano. Gesù, ritto in piedi, era mirabilmente bello: era Lui, ma immensamente più affascinante nella sua carne gloriosa. I capelli erano nel fulgore della luce come onde d’oro, la fronte e il volto erano candidi e rubicondi, fonte di gioia nella loro purissima bellezza; il corpo era mirabilmente intonato, senz’alcuno di quegli angoli oscuri che ha l’umana bellezza; maestoso, ma dolce e paterno, spirava amore da ogni parte, ed era come giglio fragrante schiuso in una valle brumosa, perché emanava da Lui quel tenue e soave profumo che spirava dalla carne gloriosa.
L’umana bellezza e l’umana carne, anche quando sono avvolte in un alone di purezza, hanno sempre qualche angolo oscuro e qualche lezzo di putrido, eccetto il caso nel quale siano interamente vivificate dallo Spirito Santo. È un’illusione pensare che una bellezza vivente o effigiata dal vero possa portarci a Dio, fissandola con uno sguardo di curiosa esplorazione; essa ha sempre dei corti circuiti che scaricano nella terra la corrente dell’amore divino che ferve nell’anima. Una sola bellezza può fissarsi e sentirsene vivificati, ed è quella che traluce dalla grazia di Dio; una sola bellezza può fissarsi e possedersi ed è quella di Dio. Qualunque altra bellezza accende sempre una passione nei sensi, dà un desiderio incosciente di possesso almeno ideale, è come vento che solleva le onde e suscita le tempeste, è come forza che devia da Dio la corrente del cuore.
Gesù, ritto nella sala, vestito non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima che elevava l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I discepoli, vedendo il Signore, gioirono. Era la gioia della vita piena che emanava da Colui che era la vita; era la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le ansie oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come faro luminoso, dal quale veniva tracciata la via del Cielo.
Gioirono i discepoli nella gioia della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella gioia, si estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è gioia più grande della purezza integrale: è una gioia che nasce dall’amore di Dio che si trasfonde nell’anima come luce di verità, come calore di carità, e come complesso di bontà. In noi c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia spirituale è sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere Gesù, si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una grande serenità, e dicendo: La pace sia con voi, li avvolse in quella pace che spira da Dio, Verità, Sapienza e Amore eterno.
Pace, tranquillità d’ordine, serena sicurezza, riposo d’amore nell’eterno Amore!

A chi rimetterete i peccati,
saranno rimessi…
Gioirono i discepoli, ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come il Padre ha mandato me così io mando voi.
Con delicatezza divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati. Pur ricevendosi una volta lo Spirito Santo – perché la sua comunicazione sacramentale imprime il carattere –, Gesù Cristo volle darlo più volte ai suoi prediletti, riserbandone loro una nuova pienezza nel giorno della Pentecoste. Si direbbe che sta nelle sue abitudini di misericordia e di amore moltiplicare e rinnovare i suoi doni a quelle anime che gli si danno con amore, ed hanno fiducia nella sua generosità.
Dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento. Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le disposizioni interiori che lo animano.
La Confessione dei peccati non è un’imposizione umiliante e penosa benché a primo aspetto sembri che sia così, e benché a volte abbia quasi questo sapore: è una concessione di misericordia, fonte di pace e di gioia grande per il povero peccatore. Sottoporre i propri peccati a chi rappresenta Dio significa mutare l’immondizia in concime, il concime in pianta, in fiore, in frutto di eterna vita. Confessarsi significa espandere l’anima propria, piangendo, nelle braccia amorose di Dio, e assicurarsi del suo perdono che è dolcissima gioia, pienezza di vita che fa sentire leggeri, leggeri, liberi dalle catene, tesi al volo verso le ricchezze eterne.
Con divina delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo. 
Padre Dolindo Ruotolo