sabato 22 febbraio 2014

Il dominio dell'anima su se stessa

Gesù beatitudiniCommento al Vangelo: VII Domenica del TO 2014 A (Mt 5,38-48)

Il dominio dell’anima su se stessa
L’uomo crede facilmente al dominio della forza brutale, e all’efficacia della reazione per imporre agli altri il rispetto, senza sottostare a prepotenze o a violenze. La forza, però, non conquide lo spirito, anzi lo inasprisce, e perciò, praticamente, chi crede di dominare è dominato, e chi crede di aver vinto è sconfitto. La reazione violenta non annienta la reazione ma la ingigantisce e, anche umanamente parlando, fa trovare l’aggredito in condizioni peggiori.
Il cristiano è sempre un aviatore dello spirito; non sta nella carlinga per rimanere a terra ma per volare: è sempre un conquistatore di ricchezze eterne, e non si cura troppo di ciò che è materiale; cammina come pellegrino e come apostolo, aspirando a conquistare il Cielo e a farlo conquistare agli altri; è membro vivo del Corpo mistico di Gesù Cristo e partecipa al suo Corpo e al suo Sangue eucaristico desiderando, a somiglianza del suo Maestro, d’immolarsi per gli altri e di abbracciare tutti nella carità. Tutto questo lo rende talmente superiore alle beghe meschine della vita presente che vi passa sopra come trionfatore. Gl’insegnamenti di Gesù Cristo mirano a questo scopo altissimo e, lungi dall’essere paradossali, guardano la vita per quel che è, senza illusioni irreali. Chi reagisce alla malvagità altrui per vincerla con la forza può essere sopraffatto, e si trova in condizioni più gravi; chi la disarma con la dolcezza e con la carità, la riduce all’impotenza non con le armi ma con lo spirito, e chi prega per i cattivi attira su di loro quelle grazie celesti che li migliorano. Gesù Cristo non parla della reazione della Legge né di quelle forze legali che debbono ristabilire l’ordine per mandato divino: parla delle relazioni private tra gli uomini, e del modo migliore per eliminare i contrasti e le dissensioni.
È spontaneo, nel nostro cuore, voler rendere male per male, perché ci urta l’ingiustizia e ci soddisfa la giustizia. La legge penale antica, sostituendosi alla reazione privata, aveva stabilito la cosiddetta pena del taglione, condannando il colpevole alla stessa sofferenza causata agli altri: Occhio per occhio, dente per dente (cf Es 21,24; Lv 24,20; Dt 19,21); con questo dava soddisfazione al colpito ingiustamente, senza pericolo di eccessi personali. Più tardi, per le false interpretazioni dei dottori Giudei, la Legge aveva dato luogo a vere vendette private, a danno della quiete pubblica. Gesù Cristo taglia il male nella radice, inculca la pazienza e la bontà che disarmano l’anima e riconducono la pace.
Non resistere al malvagio, cioè non venire con lui a contrasto, perché non lo vinci così e non ti rendi superiore a lui. Il contrasto è una diminuzione della propria dignità ed è una moltiplicazione delle ingiurie; tu, invece, passa sopra alle insolenze, e se uno ti percuote sulla guancia destra, presentagli anche l’altra. Presentala non tanto per essere percosso di nuovo, ma presentala nell’amorevolezza del compatimento e del perdono. Si schiaffeggia un volto che appare antipatico e provocante, e tu mostra subito l’altra faccia, quella che realmente sta in te: la bontà e la compassione. Se mostri questa guancia, cioè questo tuo aspetto benevolo, insospettato dal nemico, lo hai vinto e lo hai messo nella necessità di riflettere al suo atto brutale e di vergognarsene. Gesù Cristo non comanda letteralmente di farsi percuotere nell’altra guancia, come non comanda letteralmente di cavarsi l’occhio o recidersi la mano, ma comanda di mostrare l’altra guancia, dimostrando l’opposto di quello che appare al nemico e lo spinge a farsi violenza.
Questo è tanto vero che Egli stesso, nella Passione, percosso nella guancia, interrogò il malvagio servo per mostrargli che non aveva parlato male al sommo sacerdote, gli mostrò quindi l’altro aspetto della sua risposta, l’altra faccia della risposta che aveva provocato lo schiaffo. Nella Passione, Gesù che ci diede esempi ineffabili di pazienza e offrì le sue membra ai flagelli e alla croce, ci avrebbe dato certamente l’esempio di mostrare l’altra guancia se l’avesse inteso letteralmente. Gesù vuole che certe questioni si chiarifichino e che, invece di reagire con la forza e con le grida, si reagisca con l’evidenza della ragione in modo da troncare il dissidio nella radice. È un primo modo per conservare la pace.
Un altro modo è quello di accondiscendere per carità, mostrando la propria superiorità d’animo; così, a chi vuole chiamarti in giudizio e vuol litigare per toglierti la tunica, ossia l’abito aderente al corpo, cedigli anche il mantello.
Con questo parlare figurato, Gesù vuol insegnarci ad evitare le liti giudiziarie che conducono sempre a rovine e a perdite maggiori, anche quando si vincono. È più nobile cedere non per la forza, ma per carità e generosità; perciò Gesù Cristo non dice: Fatti togliere anche il mantello, ma: Cedigli anche il mantello, cioè mostrati generoso di tua volontà, e mostrati superiore ad una povera cosa terrena che non vale quanto la conservazione della pace e l’evitare le noie e i fastidi del giudizio.

Gesù non deprime ma eleva la dignità umana
Se uno volesse angariarti, per esempio forzandoti a camminare con lui mille passi, tu, invece di reagire, accondiscendi e vacci per altri due, mostrando così di non subire una violenza, ma di agire di tua volontà. Come si vede, Gesù Cristo non deprime ma eleva la dignità umana, perché sostituisce alla forza brutale quella dello spirito; alla reazione violenta la carità; all’asservimento del malvagio volere altrui, la libertà del proprio volere benefico. Chi accondiscende per carità e per amore di pace vola più in alto, sfugge alle strette della prepotenza, e rimane soprattutto nella sua pace interna che è preziosissimo tesoro. Questa nobile benevolenza che non lascia il tempo alla malvagità di sopraffare, dev’essere per tutti generosità di carità, specialmente nelle relazioni di vicinato: Da’ a chi ti domanda, e non rivolgere la faccia a chi vuole chiederti qualcosa in prestito.
Se si deve conservare, infatti, l’armonia con chi vorrebbe sopraffarci, prevenendo la prepotenza con la nobiltà d’animo, è molto più logico e conveniente conservarla con chi non ci vuol sopraffare ma ci domanda qualcosa o in dono o in prestito. Tutto questo che Gesù Cristo insegna è legge d’armonia tra le anime, e quindi riguarda prima quelle che ci sono più vicine, perché la carità è ordinata; inoltre, essendo legge d’armonia, non può obbligare dove produrrebbe la disarmonia. Sarebbe stolto venire ad un contrasto o ad una lite giudiziaria per non subire una sopraffazione, perché se ne subirebbe una maggiore, ma sarebbe ugualmente stolto farsi sfruttare dai malvagi, e dare in prestito senza criterio e ordine. È la stessa natura del dare e del prestare che ci dichiara il senso genuino delle parole di Gesù Cristo, poiché chi ti domanda per sfruttarti, non ti domanda, ma ti ruba, e chi ti chiede in prestito per non restituirti, non ti chiede in prestito ma in dono forzato, perché sta nella natura stessa del prestito la restituzione.

Del resto, l’interpretazione autentica del valore delle parole di Gesù Cristo la fa la Chiesa nella sua morale, ed è a questa che bisogna appellarsi, e da questa che bisogna farsi condurre. Se uno volesse interpretare le divine parole a modo proprio, e credersi obbligato a dare tutto ciò che si chiede, dilapidando magari la casa propria o venendo meno ai doveri che si hanno verso i più prossimi, errerebbe. La Chiesa determina, nelle sue leggi, quello che deve farsi praticamente, quello che è di consiglio e quello che è di precetto nelle parole del Signore e, seguendola, non c’è pericolo di errare.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 15 febbraio 2014

Legge antica e Legge nuova


Commento al Vangelo – VI Domenica del T.O. 2014 A (Mt 5,17-37)
Legge antica e Legge nuova

Di fronte ad un maestro che annuncia nuove dottrine, è profondamente psicologico che nella massa degli ascoltatori sorga un sentimento rivoluzionario che trascende le idee del maestro. Nasce nell’anima un desiderio di novità che l’agita, un’insofferenza al giogo che la fa aspirare ad una libertà senza confine, ed essa sogna nuovi orizzonti di felicità, spesso effimera.
Gesù Cristo, da Dio qual è, scrutò il cuore dei suoi ascoltatori, e prevenne nell’anima loro questa mossa della natura, affermando solennemente che Egli non veniva a sciogliere la Legge o i Profeti, ma veniva a portarli a compimento, che neppure un jota della Legge, o una virgola sola sarebbe stata mutata, ma essa sarebbe stata solo compiuta, e quindi sarebbero svanite da essa le figure e i simboli per dar luogo alla realtà, ben più grande di qualunque simbolo.
Chi si crederà autorizzato a violare anche il più piccolo precetto di Dio, con la scusa del nuovo ordine, invece di parteciparvi sarà l’ultimo nel regno dei cieli; con queste parole Gesù Cristo annuncia le vie della santità e non solo di una santità esterna, come quella degli scribi e dei farisei, ma di una santità interiore che tende alla perfezione dell’anima.
Egli, dunque, non propone una rivoluzione, ma promulga una legge di santità; non vuole abolire le pratiche esterne dei precetti di Dio ma vuole che siano accompagnate dalla vita interiore, non si contenta dell’osservanza dei precetti più gravi, ma vuole la perfezione.
Gesù e l’omicidio…
Gesù comincia a dare qualche esempio della giustizia che doveva essere santità interiore, a differenza della giustizia esteriore degli scribi e dei farisei e si richiama alla legge contro l’omicidio. Gli scribi e i farisei, gonfi del loro orgoglio, avevano in disprezzo gli altri: erano mormoratori, calunniatori, litigiosi, tenaci nell’odio e nell’invidia; credevano di essere irreprensibili solo perché si astenevano dal commettere omicidio. Andavano nel tempio in atteggiamenti d’ipocrita pietà e si gloriavano di portarvi l’offerta, senza pensare che, a volte, quella stessa oblazione era frutto di sopraffazioni e d’ingiustizie, senza pensare che, con l’offerta, portavano le maledizioni e le lacrime di quelli che essi avevano angariati.
Gesù alza la sua voce divina contro questa falsa santità che prescindeva completamente dalla carità e dalla giustizia, ed esclama che, se fino ad allora l’omicida era stimato degno d’essere condannato nel giudizio ossia nel tribunale di ventitré giudici che risiedeva in ogni città per le piccole cause –, d’ora innanzi chi si adirerà contro il proprio fratello, desiderandogli del male, sarà degno di essere condannato in giudizio, cioè commetterà una colpa reale, meritevole di pena, della quale Dio terrà conto nel suo Giudizio. Chi poi, nell’esplosione dell’ira, aggiunge il disprezzo, dicendo al suo fratello raca, ossia testa vuota, imbecille, sarà reo di una colpa maggiore, simile a quelle che si giudicavano nel sinedrio.
Il sinedrio era un tribunale di settanta membri che giudicava le colpe d’idolatria, il delitto del sommo sacerdote, ecc., e comminava le pene più infamanti. Chiamare imbecille nell’ira, il proprio fratello e disprezzarlo è dunque una colpa che offende Dio e copre l’anima d’infamia dinanzi al Signore che è Carità. Chi infine chiamerà il proprio fratello stolto, cioè secondo il significato ebraico, lo chiamerà scellerato, empio, maledetto da Dio, maledicendolo con ira e desiderandogli la maledizione di Dio, sarà condannato al fuoco della Geenna, cioè sarà colpevole di peccato mortale, passibile dell’Inferno.
Non c’è dunque da confondersi per le parole di Gesù Cristo né c’è da pensare che Egli parli per modo di dire; nella sua divina sapienza distingue le mancanze di carità che sono frutto d’ira e che possono indurre all’ira più grave, in mancanze veniali, più gravi e mortali. Quando si sente la responsabilità della carità, e si evita di ingiuriare il prossimo, non c’è pericolo che si possa trascendere in atti di violenza, e tanto meno nell’omicidio.
Gli scribi e farisei si contentavano di riprovare l’omicidio, cioè l’estremo atto esterno di violenza, Gesù Cristo, invece, condanna l’ira, la mancanza di carità e l’ingiuria, e vuole che, più che preoccuparsi dell’omicidio, bisogna pensare a comparire innanzi a Dio col cuore pieno di carità e in armonia con tutti; bisogna sfuggire le liti e accordarsi con i propri avversari, per evitare di avere dal giudice una condanna che serve poi a fomentare l’odio e le dissensioni; bisogna non solo stare in pace con tutti, ma togliere dal cuore altrui – per quanto è a noi possibile –, le ragioni del dissidio e dell’avversità. Gesù Cristo, infatti, non c’impone solo di riconciliarci con colui che avversiamo, ma di riconciliarci con chi ci avversa, con chi ha qualcosa contro di noi perché ha ricevuto da noi qualche torto o qualche ingiustizia. È logico che si debba lasciare il dono innanzi all’altare, e che, prima di offrirlo, si debba trovare la riconciliazione con il fratello al quale abbiamo fatto del male; è logico, per noi cristiani che non possiamo comunicarci se abbiamo coscienza di aver danneggiato o amareggiato ingiustamente un nostro fratello.
È chiaro che il precetto di Gesù Cristo non può riguardare quelli che ingiustamente ci avversano, e che stanno in astio contro di noi per la loro malignità.
In questi casi non siamo noi i colpevoli della mancanza di carità, e basterà cercare la riconciliazione, se è possibile, o almeno pregare per chi ci avversa, come si vedrà in seguito. Sta poi nello spirito del precetto del Signore evitare ogni causa di dissidio, e conservare sempre intatta la carità, anche a costo di un nostro sacrificio. Le liti non risultano mai di utilità, e l’ostinarsi nel dissidio può dar origine a spiacevoli conseguenze, passando così noi dalla ragione al torto. Al cuore ringhioso degli scribi e dei farisei, carichi di odio, Egli vuol sostituire il cuore placido e sereno del cristiano, pieno di rispetto per gli altri, di compatimento e di misericordia e, diciamo pure, saggio e serio nella vita che guarda le cose da adulto e non da fanciullo, che sa passare sopra alle stoltezze e conservare il bene della pace.
L’adulterio
Dall’omicidio, Gesù passa a parlare dell’adulterio, un altro peccato gravissimo, conseguenza di altri peccati. Non basta la legge che punisce l’adulterio: occorre la legge che ne evita le cause, e perciò il Redentore afferma che chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso il peccato nel suo cuore, benché non l’abbia materialmente consumato. L’atto esterno, infatti, è conseguenza del peccato interno e, quando si è vigilanti sui propri occhi e sui desideri che essi suscitano, non c’è pericolo di cadere. Bisogna quindi evitare le occasioni, ed essere attenti a troncare energicamente quello che può attrarci al male. Gesù Cristo usa delle espressioni energiche, proprio per indicare che, di fronte alla salvezza eterna, non ci si può indulgere in alcun modo con la natura.
Se una persona o un oggetto pericoloso ci fossero cari come l’occhio e la mano destra, non dovremmo esitare un momento solo a staccarcene, pur di evitare il peccato e la conseguente perdizione eterna. Non si può addurre, come scusa della propria ostinazione, la necessità e l’esigenza del cuore e della vita, perché, per salvarsi eternamente, bisogna avere il coraggio di recidere tutto quello che può farci cadere in peccato.
Tutto sta a non cedere alla natura, neppure per poco, soprattutto in quello che riguarda i peccati impuri; la più piccola accondiscendenza all’occhio o alle mani, cioè al desiderio, all’immodestia e al senso del tatto, può produrre una tentazione e uno sconvolgimento tale, da non trattenere più l’anima sul precipizio. Bisogna essere fermi, soprattutto al principio delle tentazioni e nelle piccole cose, perché le piccole e continue vittorie sono quelle che ci attirano nuove grazie, e ci rendono tetragoni contro i maggiori assalti di satana.
Gesù Cristo va oltre e, per farci sfuggire anche le occasioni del male che potrebbero sembrare lecite, condanna quelle abitudini della medesima Legge ebraica, introdotte più come tolleranza che come regola d’ordine. L’uomo che non voleva più convivere con la moglie, la rimandava con una dichiarazione detta libello del ripudio, con la quale la scioglieva dal vincolo coniugale. Era un uso che poteva anche sussistere quando i costumi erano corretti, e quando praticamente il libello del ripudio era una rara eccezione; ma, col decadere della moralità, il libello del ripudio costituiva una vera occasione di pervertimento, e perciò Gesù lo condanna e lo abolisce. Chi ripudia la propria moglie, salvo il caso di fornicazione cioè eccetto il caso che le sia legato con un vincolo di peccato, perché allora il ripudiarla sarebbe un dovere –, la induce all’adulterio, lasciandola libera di stringere un nuovo legame, e chi sposa la ripudiata commette adulterio, profanando un vincolo che Dio non ha sciolto.
Gesù Cristo condanna, così, assolutamente, il divorzio, come causa di peccati e di dissoluzione.
Egli riprova ogni degradazione di sensi, riconduce il matrimonio alla sua nobiltà; ridona alla donna la sua dignità, negando recisamente che ella sia oggetto di piacere, o termine di ammirazioni sensuali o sentimentali. Egli l’ammanta di maestoso pudore quando dice che chi la guarda semplicemente desiderandola, pecca, ed insiste con tanta forza sul dovere di allontanare ogni occasione di peccato, da usare quella similitudine tagliente di chi si acceca ad un occhio o si mutila di una mano per evitare uno scandalo. Toglie ogni pretesto anche legale alla corruzione e alla degradazione della donna, e abolisce la legge del ripudio; vuole che la donna sia regina e madre nella casa e non sia come un oggetto di divertimento che si desidera e si abbandona come si vuole.
Ognuno vede come deve giudicare – non diciamo l’orrore dell’impurità cui si abbandonano oggi gli uomini e le donne –, ma anche quello che si dice amore platonico, idealizzando così la degradazione dell’anima, e rendendo più tenace la degradazione dei sensi interni ed esterni, sfiorandoli di quello che potrebbe farne risaltare le brutture. Questi cosiddetti amori platonici sono pieni di peccato di desiderio, sono catene di schiavitù spesso più tenaci che nella stessa insoddisfazione dei sensi si ribadiscono e diventano perenni. Non c’è da illudersi: la creatura si può amare solo in Dio e per Dio, e per questo lo stesso amore coniugale è un Sacramento. Non si può amare una creatura concentrandosi in lei o attirandola a sé, perché noi siamo di Dio. Come? Tu uomo, avendo sposata una donna, la riguardi talmente come tua, da prendere le armi contro chi semplicemente la distrae da te, e credi di non commettere colpa, attraendo a te una creatura di Dio e distraendola da Lui? Come puoi trarre la creatura nel tuo desolante vuoto, sottraendola alla pienezza soavissima del divino Amore? Che cosa le puoi dare tu se non parole, e spesso tempeste e pene spaventose? Se tu l’amassi veramente potresti tradirla fino al punto da devastarla?
L’amore umano è sempre un ladro che ruba; è sempre un fuoco che consuma; è sempre un’inondazione che devasta, ruba a Dio e all’anima, consuma ogni ricchezza del cuore e devasta ogni gioia e ogni pace.
La menzogna…
Gesù Cristo, dopo aver divelto, per così dire, le radici stesse delle sopraffazioni dell’ira e dei sensi, sana dalle fondamenta la piaga della menzogna e della slealtà che tanto nuoce alle reciproche relazioni tra gli uomini. Nell’antica Legge si credeva che si dovesse tener fede solo al giuramento, e per il continuo decadimento dei costumi si era giunti a tal punto da non parlare senza giurare. L’atto solenne del giuramento, ammesso solo in casi di eccezionale importanza, era ridotto, così, quasi come un intercalare. Gli scribi e farisei, poi, insegnavano che quando non si nominava esplicitamente Dio, non si era tenuti a mantenere quello che si era giurato e, con questo principio, moltiplicavano i giuramenti falsi e la conseguente sfiducia fra gli uomini.

Gesù Cristo vuole che un cristiano sia talmente veritiero e leale da non aver bisogno né di giurare né d’imprecare per esempio sul suo capo, non avendo egli dominio su se stesso, e non potendo rendere bianco o nero uno dei suoi capelli, imprecando. Il suo linguaggio deve essere decisamente vero: Sì, sì, no, no; qualunque altra parola viene dal male, cioè dalla diffidenza o dalla malafede, ed è soprattutto testimonianza del male che sta in noi, non essendo degni di essere creduti sulla semplice parola. Anche nell’infanzia chi giura non è il fanciullo buono incapace di cattive azioni, ma è quello cattivo, al quale possono con facilità addebitarsi delle scappate, e al quale è più difficile prestar fede.
Padre  Dolindo Ruotolo

sabato 8 febbraio 2014

Voi siete il sale della terra e la luce del mondo

Commento al Vangelo – V Domenica del T.O. 2014 A (Mt 5,13-16)
La missione degli apostoli e dei sacerdoti

Gesù Cristo, promulgando le basi fondamentali del suo regno, si rivolse principalmente ai suoi apostoli e per essi ai sacerdoti. Le beatitudini sono il programma della loro vita, consacrata tutta al Signore, nella piena rinuncia a tutto quello che è falsa gioia terrena: essi debbono essere poveri di spirito, distaccati da tutto e contenti del poco, per conservare nel cuore solo aspirazioni celesti, ed evitare le schiavitù dell’interesse economico che distruggerebbe qualunque opera di apostolato. La loro felicità deve consistere tutta nell'abbandonarsi a Dio e nel confidare in Lui, unico sostegno. Più dei leviti che non avevano una proprietà fissa, essi hanno Dio per loro porzione ed eredità, e debbono alienare il cuore da ogni attaccamento materiale.
L’apostolato che debbono svolgere non può essere mai irruente, perché essi debbono conquistare le anime, e perciò debbono avere, come forza, la mansuetudine. Generano le anime a Dio col sudore delle fatiche apostoliche e col sacrificio continuo; piangono, ma sono consolati dalla messe che raccolgono, e debbono percorrere il mondo con una fame e sete ardente di giustizia, per diffondere la perfezione, e di misericordia per sollevare i poveri peccatori. Casti e puri di cuore si beano delle bellezze di Dio, ed hanno la sua gloria come meta della vita; propugnatori di pace nelle coscienze, nelle famiglie e nella società, sono i continuatori dell’opera del Figlio di Dio fatto uomo, e sono chiamati anch'essi figli prediletti di Dio. In tutto simili al loro Maestro, affrontano ogni persecuzione, ogni ingiustizia, ogni ingiuria, e continuano il loro santo ministero da eroi, fissi con lo sguardo alla ricompensa eterna.
Dopo questa esposizione sintetica del programma sacerdotale di tutti i tempi, Gesù Cristo dà la ragione della perfezione che inculca ai suoi apostoli, ed induce in loro il senso della responsabilità, dicendo: Voi siete il sale della terra e la luce del mondo; dovete, con la vostra virtù, quasi sale nel cibo, rendere accessibile e assimilabile la verità, e dovete splendere come lampade sul candelabro, non potendovi celare allo sguardo degli altri uomini dall’altezza cui vi eleva la vostra dignità. Da voi l’umanità dev’essere guidata, e se voi vi rendete insulsi o vi ottenebrate, vi renderete ludibrio di tutti e sarete rigettati dal Signore.
Parole divine, queste, che ogni sacerdote deve stampare nel proprio cuore, essendo esse confermate dall’esperienza della storia.
Un sacerdote infedele al suo dovere, o anche semplicemente insipido, cioè rilassato nella pietà, è oggetto di disprezzo, e rende vana la sua missione. Il mondo è conquiso dalla virtù sacerdotale quando questa è piena, e quando splende sul candelabro della Chiesa; non s’importa né sa che farne dei sacerdoti umanamente e laicamente scienziati, artisti, statisti, ecc. Va trovando i santi, perché sacerdozio e santità sono due concetti inseparabili.
Il sacerdote che non è santo, è sale infatuato che non solo non condisce, ma è incapace di essere condito, rimanendo ostinato nella sua estrema miseria. Si può dire che in questo non ci sono mezzi termini, e che un sacerdote che non è santo è già cattivo, è già infatuato. Se è santo, è povero, mansueto, mortificato, zelante, misericordioso, puro, pacifico, paziente, è beato nel suo cuore e comunica la beatitudine; se non è santo e cerca la beatitudine nella terra, è avido di guadagni, è impetuoso, egoista, ozioso, scorretto, mormoratore, duro, rozzo, intollerante, e dissemina solo il male intorno a sé, perché discredita il regno di Dio.
Il mondo si deve specchiare nel sacerdote, e deve sentirlo tanto superiore da vederlo come lampada sul candelabro.
Se lo vede sotto il moggio di grano, accumulato agli altri quasi granello nella massa, giacente per terra, quasi lampada spenta, non lo riguarda più con onore né è capace di gustare le grandezze della fede, e di glorificarne Dio.

Il sacerdote non è un uomo come gli altri!
Il sacerdote non può in nessun modo dire di essere anch’egli uomo come gli altri e di aver bisogno di uno svago; la sua beatitudine gli è tracciata da Gesù Cristo, ed è beatitudine che lo eleva nelle pure gioie dello spirito, di fronte alle quali tutte le gioie umane sono tormenti. Fuori della via della beatitudine, il sacerdote non trova che infelicità somma di spirito; è come un pesce fuor d’acqua, è come un uomo affogato nella tempesta; è schiavo di se stesso ed è tormentato dai rimorsi, è indebolito negli slanci della sua anima, e giace come paralitico nella sua miseria, dalla quale non sa sollevarsi. È scontento del suo stato perché non ne gusta le ineffabili dolcezze; aspira al mondo con la veemenza della disperazione senza poterlo raggiungere in pieno; crede di essere un perseguitato dalla cattiva sorte; invidia persino quelli del mondo, e finisce quasi sempre riprovato da Dio.

O Gesù, dona ai tuoi sacerdoti l’apprezzamento della loro immensa e profonda felicità nell’essere santi; raccoglili intorno al tuo Cuore eucaristico; fa’ gustare loro la bellezza dei divini Misteri, e rendili veramente sale delle anime e luce smagliante del mondo.
Padre Dolindo Ruotolo