sabato 29 settembre 2012

Lo spirito che si scaccia nell'orazione e nel digiuno


Commento al Vangelo della XXVI Domenica del T.O. 2012 (Mc 9,38-43.45.47-48) - San Girolamo

Lo spirito che si scaccia nell’orazione e nel digiuno

Sceso dal monte insieme ai suoi tre altri apostoli, Gesù vide gli altri apostoli circonda
ti da gran folla, in disputa animata con gli scribi.
L’oggetto della disputa non era propriamente il lunatico che essi non avevano potuto guarire e liberare da satana, ma era evidentemente il Redentore. Gli scribi volevano dimostrare, dall’insuccesso degli apostoli, che tutto era inganno quello che avveniva in Gesù, e che essi seguivano una via pericolosamente fantastica. Forse insinuavano che Egli si era dileguato perché non si sentiva la potenza di liberare uno che essi stimavano veramente infermo e ossesso. Questo può supporsi dallo stupore e dal timore che ebbe il popolo nel veder venire Gesù, e dal modo stesso come lo salutarono.
Quando, infatti, si mormora a torto ed esageratamente di uno che è assente, si rimane sconcertati nel vederlo venire improvvisamente e, per la stessa coscienza lesa che si ha, si cerca in certo modo, con qualche cortesia, di non mostrare il proprio ma-lanimo. Questo è psicologico. Gesù, poi, scendeva dal monte dopo la trasfigurazione, e aveva tale maestà nel volto e tale misteriosa regalità nel suo stesso incedere che su-scitò un senso di stupore e di timore in tutti.
Avvicinatosi, Gesù domandò di che cosa discutessero, ma essi dovettero tacere, come appare dal contesto; parlò solo uno che era interessato a parlare, il povero padre dell’epilettico indemoniato che gli apostoli non avevano potuto guarire e libe-rare, sperando che il Signore avrebbe potuto consolarlo con un prodigio. Alle parole del padre desolato che manifestava l’impotenza degli apostoli riguardo al figlio suo, Gesù esclamò, pieno di dolore: O generazione incredula, fino a quando starò con voi? Fino a quando vi sopporterò?
Era la mancanza di fede che aveva posto ostacolo al miracolo, tanto negli apo-stoli quanto nel popolo. Gli apostoli, in assenza di Gesù, non erano stati raccolti nella preghiera e si erano dissipati; forse può supporsi che avessero anche accettato qualche invito a pranzo, perché il Redentore disse loro intenzionalmente che quel genere di demoni si cacciava solo nell’orazione e nel digiuno. Avevano ricevuto l’infermo in uno stato di dissipazione interiore, e avevano comandato invano allo spirito perverso di lasciarlo in pace.
Il popolo, poi, si era affollato per curiosità, e il padre del povero infelice aveva fatto appello agli apostoli non per la fede che aveva in Gesù Cristo, ma solo nella speranza che essi avessero avuto un potere arcano per liberargli il figlio.
Da tutte le parti c’era una grave mancanza di fede e, in quelle condizioni, se Dio avesse operato il miracolo, questo sarebbe stato svalutato o come un fatto comu-ne, o come l’effetto di forze misteriose che possedevano gli apostoli.
Gesù ordinò che gli conducessero il lunatico, e questi, appena condotto alla sua presenza, cominciò ad essere turbato da satana. Gettato per terra dalla furia diabolica, si ravvoltolava ed emetteva schiuma dalla bocca. Gesù domandò al padre di lui da quanto tempo gli accadesse ciò e quegli rispose che dall’infanzia era stato tormentato in quel modo, e lo supplicò di averne pietà se aveva il potere di sanarlo. Gesù rivolse quella domanda al padre del giovane, perché avesse riflettuto sulla gravità del caso, e avesse eccitato la sua fede, sperando di vederlo liberato; lo domandò anche per far ponderare agli astanti il miracolo che stava per operare, perché non si trattava di un’ossessione passeggera ma di una possessione tenace.
Come si rileva dal contesto e dal pensiero comune dei Padri, quello spirito era impuro, e può credersi che avesse preso possesso del giovane quand’egli, nell’infanzia, aveva commesso qualche azione indegna. Lo spirito impuro l’aveva reso sordo e muto e l’aveva straziato con varie pene, senza che alcuno avesse potuto scacciarlo.
È proprio quello che avviene alla gioventù quando, presa dalle prime passioni, si lascia ingannare da satana e cade in abissi d’impurità. Satana la strazia con i ri-morsi più terribili e con le pene che porta con sé l’impurità, e poi la rende sorda ai richiami del bene e muta nella preghiera e nella penitenza. Il giovane non si confessa più: è muto; rifugge dalla pietà, corre all’impazzata da un abisso in un altro, e si contorce per terra, nelle sue passioni disperatamente disordinate. Invano ci si sforza di poter dare la pace a questo cuore, esso è come invasato da satana, si contorce e non ascolta né rimproveri né consigli.
Non basta una grazia comune per vincere un’anima traviata dall’infanzia, non basta una fede qualunque, ci vuole una grande fede e una grande misericordia, e bi-sogna impetrarla col pregare e col fare penitenza. Bisogna ripetere, col povero padre desolato: Io credo, o Signore, aiuta tu la mia incredulità, e domandare con la preghiera che si accresca quella fede che il peccato impuro annebbia e spesso fa perdere addirittura.
Quando Gesù vide che il popolo accorreva intorno a Lui per movimento di cu-riosità, non volendo suscitare inutili entusiasmi, si affrettò a liberare quell’ossesso. Egli dovette anche aver pietà del povero padre, il quale soffriva a vedere che il figlio era divenuto spettacolo innanzi agli altri. Con grande potenza e maestà comandò allo spirito sordo e muto di uscire dal giovane, ed esso, nel lasciarlo, lo straziò talmente da ridurlo come morto. Molti, infatti, crederono che fosse veramente morto. Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò e quegli si alzò!
Non è possibile che sia cacciato da un giovane lo spirito impuro senza che Gesù Cristo, con una misericordia speciale, lo aiuti. Il sacerdote, in suo nome, quando un impuro va a confessarsi, lo aiuta a parlare, interrogandolo, e gli fa sentire la Parola di Dio, esortandolo; le interrogazioni sono tormentose, senza dubbio, e l’anima può anche contorcersi nella pena di dover dire certe cose vergognose; ma dopo che ha parlato e che l’assoluzione l’ha rialzata dalla sua morte, allora si sente risorta, e gode una pace mai più provata, sentendosi in grazia di Dio.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 22 settembre 2012

Chi fra gli apostoli era il più grande?

Commento al Vangelo della XXV Domenica del T.O. 2012 (Mc 9,30-37)
23 settembre 2012 San Pio da Pietrelcina

Chi fra gli apostoli era il più grande?

Gesù parlò agli apostoli della sua Passione, ed essi non solo non ne ca-pirono nulla ma, lungo la strada che conduceva a Cafarnao, cominciarono a discorrere chi tra essi fosse il più grande.
È probabile che, sentendo parlare il Maestro di morte, di Passione e di risurrezione, essi avessero capito che Egli alludesse alla morte dei suoi nemici e alla sua risurrezione gloriosa dall’umile stato in cui era, all’apice del regno; perciò, supponendo imminente il suo trionfo, cominciarono a discorrere sul posto che avrebbero avuto nel suo regno. Parlavano sommessamente, proprio come chi si confida delle speranze e fa dei progetti; Gesù li lasciò discorrere e solo quando furono in casa interrogò qualcuno di essi sul soggetto dei loro di-scorsi.
Saputolo, li radunò tutti intorno a sé per far loro una grande lezione di sapienza e di umiltà: chi voleva essere il primo doveva essere ultimo e servo di tutti, e chi voleva essere grande doveva essere come fanciullo, anzi come infan-te. Gesù mostrò loro un fanciullo, prendendolo fra le braccia, proprio per mo-strare il modello della piccolezza alla quale li chiamava, e poiché essi non capivano quale importanza potesse avere un fanciullo nel regno da Lui preco-nizzato, li esortò ad accogliere i fanciulli come Lui stesso, per accogliere il Padre che lo aveva mandato, perché sulle nuove generazioni era poggiato lo sviluppo della Chiesa.
Tutte le grandezze del mondo, fondate sull’orgogliosa affermazione di se stessi, non sono grandezze ma estrema miseria, poiché l’orgoglio può tiran-neggiare, non può dominare. Chi si fa il primo per orgoglio, in realtà si mette in balìa delle reazioni altrui, e si fa aborrire, senza riuscire a porre l’ordine dove comanda. Quale felicità, poi, vi può essere a stare in posti eminenti? Più si sale e più si hanno responsabilità gravissime; più si è in alto e più vengono le verti-gini; più si è circondati di onori e più si è esposti alle critiche, alle mormorazioni e alle ostilità altrui. Non risulta vantaggioso essere in onore ma, se per l’ordine e la gerarchia si è costretti ad accettare un posto di responsabilità, bisogna starvi con l’animo semplice dell’infanzia, senza presumere di se stessi, e procurando di servire gli altri con le proprie attività benefiche.
Con poche parole, Gesù capovolgeva tutto il concetto che si aveva delle grandezze terrene, e apriva alle potestà della terra una nuova via di pace, togliendo loro tutto quello che è causa di reazione. Egli così ha fondato il suo regno nella pace.
San Giovanni, sentendo Gesù che parlava della potestà di chi sta a capo, l’interruppe per esporgli un caso accaduto loro: un tale scacciava i demoni nel suo nome, pur non seguendolo come gli altri apostoli; essi crederono di dover-glielo proibire. Evidentemente si trattava di un’anima fedele al Signore, e piena di tanta fede in Lui, da ottenere la liberazione degli ossessi. Gesù rispose che avevano fatto male a proibirglielo, poiché quell’uomo non pretendeva formare un’associazione a parte; non era perciò contro di loro e, operando nello stesso spirito, rendeva loro un servizio. Se chi dava da bere ad uno nel suo nome non perdeva la sua ricompensa, e operava quindi soprannaturalmente, quanto più chi nel suo nome scacciava i demoni?
Non bisogna contrariare chi fa il bene, ma chi scandalizza le anime con attività perversa, facendole deviare dalla verità, questi sì, dovrebbero essere eliminati, e sarebbe meglio per loro che uno li sommergesse nel mare con una macina pesante di mulino legata al collo, anziché scandalizzassero le anime. Tutto quello che scandalizza dev’essere troncato dal corpo della Chiesa, le fosse pure legato come la mano al corpo, o come il piede o come l’occhio, poiché lo scandalo conduce alla perdizione, e la perdizione è eterna. Gesù concluse questa importante lezione con un’espressione abbastanza oscura e misteriosa che è variamente interpretata: Ognuno sarà salato col fuoco, e ogni vittima sarà salata col sale. Buona cosa è il sale, ma se il sale diventa scipito con che lo condirete voi? Abbiate in voi sale, e abbiate pace tra di voi.
La Chiesa, di queste esortazioni, ci fa intendere il senso delle prime espressioni più oscure che sono certamente in relazione con ciò che è detto prima: Bisogna avere sale e concordia nelle attività di quelli che lavorano per la Chiesa; sale di sapienza soprannaturale nel valutare ciò che viene da Dio, e concordia di pace nell’unire tutte le attività alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime. Ci sono anime pervase dal fuoco dello Spirito Santo, come se fosse sale penetrante nelle carni, e ci sono anime immolate che sono tutte penetrate dalla tribolazione, vittime di espiazione per gli altri.
Queste sono le anime contro le quali potrà accanirsi l’ostilità di quelli che hanno la responsabilità di guidare la Chiesa. Certamente bisogna essere vigilanti, perché anche il sale potrebbe diventare scipito, cioè anche le anime più privilegiate potrebbero deviare; ma in questo bisogna farsi guidare dal sale, cioè dalla sapienza del Signore e bisogna conservare la pace, evitando di suscitare lotte, dissensioni e inutili persecuzioni. È questo il senso più logico delle oscure parole di Gesù, collegato a tutto il suo discorso.
Lo ripetiamo in sintesi perché sia più chiaro: san Giovanni dice che i discepoli hanno proibito ad un tale di cacciare i demoni nel Nome di Gesù. Gesù risponde che hanno fatto male, poiché se li cacciava nel suo Nome, non poteva essere contro di Lui e quindi contro di loro. Chi fa del bene soprannaturalmente non è di ostacolo alle anime, e se chi dà un bicchiere d’acqua nel suo Nome e per suo amore non perde la sua ricompensa, non la perde neppure e molto più chi fa il bene alle anime nel suo Nome e per suo amore.
Padre Dolindo Ruotolo

domenica 16 settembre 2012

Gesù parla della sua Passione


Commento al Vangelo della XXIV Domenica del T.O. 2012 (Mc 8,27-35)

Gesù parla della sua Passione
Il cieco di Betsaida era un’immagine dei ciechi spirituali che circondavano Gesù; di essi alcuni, gli scribi e farisei, non vedevano addirittura, e altri, gli apostoli e i discepoli, vedevano confusamente.
Era necessario uscire da quell’incertezza, e perciò Gesù, camminando, domandò ai suoi apostoli che cosa dicessero di Lui gli uomini. Essi risposero che alcuni lo credevano Giovanni Battista risuscitato, altri Elia ricomparso sulla terra, e altri un profeta. Erano i ciechi che vedevano gli uomini come alberi, che confondevano il Verbo Incarnato con le creature. Subito dopo Gesù li interrogò, dicendo: e voi chi credete che io sia? Era necessaria una dichiarazione esplicita di fede che li distinguesse dai ciechi, poiché essi dovevano illuminare gli altri, e san Pietro, illuminato particolarmente da Dio, rispose a nome di tutti: Tu sei il Cristo.
San Marco non ci parla dell’elogio che Gesù fece all’apostolo; forse questi glielo proibì per umiltà, e volle piuttosto che avesse accennato alla necessità della Passione, contro la quale egli aveva inconsciamente alzato la voce.
La confessione aperta di san Pietro avrebbe dovuto essere promulgata dovunque; eppure Gesù proibì a tutti gli apostoli di parlarne, dicendo loro che era necessario che Egli soffrisse, morisse e risuscitasse dopo tre giorni. Si può domandare a questo proposito: perché il Redentore proibì che si annunciasse quello che Egli era?
Lo proibì per non suscitare prima del tempo da Lui voluto la persecuzione che doveva condurlo alla morte. Fu proprio la solenne confessione della sua divinità innanzi al sommo sacerdote che lo fece dichiarare colpevole di morte, ed Egli, che conosceva tutto, non voleva anticipare i tempi della divina volontà. Inoltre non voleva che un annuncio prematuro, fatto ad anime maldisposte, avesse provocato anche contro gli apostoli una persecuzione che li avrebbe trovati impreparati, tanto impreparati che san Pietro, alla sola idea della Passione, si fece ardito di trarre in disparte Gesù e di rimproverarlo, distogliendolo dal patire.
Fu un momento impressionante: san Pietro, per l’amore che portava al Maestro, non voleva neppure pensare che Egli dovesse patire; avrebbe voluto, anzi, che avesse trionfato clamorosamente, a confusione dei suoi nemici; Gesù, invece, come dice il Sacro Testo, voltatosi e visti i suoi discepoli visti cioè con infinito amore quelli per i quali voleva morire, quelli che, senza la sua morte, sarebbero tutti periti –, rimproverò Pietro, chiamandolo satana, tentatore, poiché, in quel momento, non aveva più la sapienza di Dio ma quella degli uomini. Fu incerto tra l’amore umano e quello divino, fra la natura che rifuggiva dal dolore, e l’Uomo-Dio che voleva abbracciarlo per redimere; san Pietro che aveva parlato soprannaturalmente nel confessare la divinità, parla ora naturalmente nel ripudiare il dolore come mezzo di redenzione, ed è ripreso severamente perché il dolore è via della gloria eterna. Perciò Gesù, chiamati a sé tutti quelli che lo circondavano, la folla e i discepoli, promulgò quella legge di ammirabile economia di grazia che è il fondamento della vita cristiana: Se qualcuno vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Pretendere di sfuggire al dolore salutare che ci fa veramente calcare le orme del Maestro divino, non significa salvare la vita ma perderla, non significa provvedere all’anima ma comprometterne la felicità eterna.
         E che cosa gioverebbe guadagnare anche tutto il mondo se dovesse perdersi l’anima? Che cosa potrebbe dare l’uomo in cambio dell’anima, una volta che l’avesse perduta.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 8 settembre 2012

Effatà, che vuol dire: "Apriti"


Commento al Vangelo della XXIII Domenica del T.O. 2012 (Mc 7,31-37)
9 settembre 2012 San Pietro Claver

Gesù guarisce il sordomuto

Partito di nuovo dai confini di Tiro, Gesù ritornò in Palestina per la via più lunga, attraversando il ter

ritorio della Decàpoli. In questo territorio gli presentarono un uomo sordo e muto, pregandolo di guarirlo. Il Redentore lo trasse in disparte dalla folla perché fosse stato più attento a quello che voleva fargli per eccitargli in cuore la fede.
Il sordomuto, infatti, per la sua stessa infelicità, ha uno sguardo mobilissimo, e scruta quello che lo circonda e quelli che gli vogliono far intendere il loro pensiero. Ha sempre il timore di poter essere ingannato o deriso. Trattolo in disparte, Gesù gli mise le dita nelle orecchie, per fargli sperare la guarigione e per prepararla col suo contatto divino; poi, per la stessa ragione, gli toccò la lingua con la saliva, alzò gli occhi al cielo, e sospirò, pregando e dicendo: Effatà che in lingua aramaica significa: Apriti. Immediatamente il sordomuto ascoltò e parlò, tra l’ammirazione degli astanti, invano esortati da Gesù a tacere sul fatto.
Gesù Cristo, sospirando ed elevando gli occhi al cielo, volle farci intendere a che cosa debbono servirci la lingua e l’udito. Egli sospirò – come dicono i Padri –, per l’abuso che se ne fa, e volle dirci che l’udito deve servire ad ascoltare le parole di Dio e la lingua deve servirci a lodarlo e benedirlo in ogni momento della vita.
Agli occhi del mondo quel povero infermo sembrava un infelice; ma se egli avesse volto lo sguardo al Cielo, avrebbe ascoltato parole arcane di vita, e avrebbe conversato unicamente col Signore. È questo l’atteggiamento che debbono avere tutti quelli che sono privati dell’uso di qualche senso: il cieco vede in Dio una luce che non può paragonarsi a nessun sole; il sordo ascolta la sua parola, il muto conversa con lui senza distrarsi con le creature terrene. L’infelicità, in fondo, diventa felicità, perché non siamo per questa terra ma per Dio.
La Chiesa, nel santo Battesimo, rinnova il gesto di Gesù: tocca gli orecchi del battezzando e lo unge con la saliva, perché quella creatura si apra a Dio, e passi la vita ascoltandolo, lodandolo, e diventando buon odore del Redentore. Come possiamo noi, toccati da Gesù attraverso il sacerdote, aprire gli orecchi a tutte le parole stolte della vanità e della pretesa sapienza umana? Come possiamo aprire la bocca, consacrata alla lode di Dio, per fare discorsi vuoti o, peggio, per profanare il Nome del Signore? Gesù Cristo sanò un muto che non parlava, ma non impedì, a quelli che lodavano Dio per le opere che Egli compiva, di parlarne. Lo proibì loro, è vero, per non suscitare nel popolo false aspirazioni ad una regalità tutta temporale, ma non chiuse le bocche che ne parlavano, perché esse lodavano Dio nelle sue opere.
Diciamo anche noi, a queste nostre orecchie che non percepiscono la voce di Dio: Apritevi! Siamo sordi spiritualmente e, benché circondati da mille voci di verità e di amore, rimaniamo ottenebrati e freddi. In quanti modi ci parla Dio nell’interno del cuore, e noi seguiamo sempre le voci delle passioni, credendole voci di verità e di felicità! In quanti modi Dio ci richiama al suo Cuore, e noi non distinguiamo quelle voci, rimanendo assonnati e muti nelle nostre miserie! Andiamo da Gesù Sacramentato: Egli ci tocchi col suo Corpo eucaristico; Egli ci dia l’unzione che viene dalla fede, Egli sciolga la nostra lingua alla lode di Dio!
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

domenica 2 settembre 2012

Pietà falsa e la vera devozione


Commento al Vangelo di domenica 02 settembre 2012 di Don dolindo:

Pietà falsa e la vera devozione;
Alcuni scribi e farisei, venuti da Gerusalemme per spiare come operava Gesù, notarono con grande loro scandalo, che alcuni dei suoi discepoli non si lavavano le mani prima di mangiare. L'evangelista, scrivendo per i popoli pagani, spiega realmente la ragione di questo scandalo, e nota che scribi e farisei avevano l’uso di lavarsi spesso, e di lavare anche gli oggetti di maggiore uso,perché credevano così di tenersi puri. Quando tornavano poi dal mercato, facevano addirittura il bagno, non sapendo discernere i contatti legalmente immondi che avevano potuto avere nel trattare con tanta gente. Se fosse stato un desiderio di semplice pulizia, benché allora non si conoscessero ancora i microbi e le infezioni che possono portare, non sarebbe stato un male; ma essi attribuivano a avande il potere di purificarsi spiritualmente, e credevano di aver fatto tutto innanzi a Dio con quelle abluzioni.
Facevano man bassa della legge autentica di Dio, e si mostravano scrupolosissimi nelle tradizioni e negli usi introdotti dagli uomini.

In questo stava la loro ipocrisia quando si scandalizzarono dei discepoli di Gesù, ed in questo soprattutto il pericolo della loro anima, lontana dalla vera salvezza; per questo Gesù Cristo li trattò severamente. ln realtà sembra un po’ penoso che Colui che era tutto bontà e misericordia sia stato aspro con gli scribi e farisei, ma Egli non poteva scuoterli diversamente, e la sua stessa misericordia esigeva la severità. E' un argomento che bisogna un poco approfondire per l’onore stesso del Re divino.

Perché Gesù risponde duramente agli scribi e ai farisei:

Quando una porta è aperta anche per uno spiraglio, nessuno la percuote o la sfascia, ma ognuno cerca di far leva per finire di aprirla; quando invece è chiusa e sbarrata, non è possibile farla cadere che con la forza. Non c’è una porta più ermeticamente chiusa quanto quelli di un’anima tutta presa dai suoi pensieri, ed ostinata nelle concezioni della sua ragione e nelle resistenze della sua volontà; qualunque luce è vana per chi chiude gli occhi, e qualunque
voce è inutile per chi chiude gli orecchi; allora non rimane che tentare la demolizione dell’orgoglio, vero sbarramento
dell’anima alla verità ed al bene. L’orgoglio non si mina lusingandolo ma smascherandolo, perché la sua forza sta proprio nel celarsi sotto l’aspetto di pietà, di carità, di bontà e di santità; solo facendo saltare per così dire, con la mina questo baluardo terribile, si può aprire una breccia alla grazia conquistatrice. ll tentativo di persuasione placida ottiene l’effetto opposto: ingagliardisce l’orgoglio e moltiplica la resistenza. E' necessario demolire con l’esplosione della verità, e poi insinuarsi nell’anima con la persuasione; è necessario prima trasportare l’anima fuori dal miraggio delle sue illusioni, e poi illuminarla.

Se il male non si smaschera, è sempre una postema purulenta che infetta tutta la vita. Chi ha avuto occasione di curare la santificazione di anime orgogliose ed egocentriche, o di teste dure e tenaci nelle loro persuasioni, sa quanto è arduo insinuarsi in loro con la dolcezza e vincerle. L’orgoglio è brutale ed abbrutisce; capovolge ed interpreta in mala parte ogni atto di bontà; ha bisogno in certi momenti di trovarsi isolato di fronte alla verità, e coperto quasi di obbrobrio innanzi alla sua luce. Solo allora batte in ritirata per la stessa ripugnanza che sente all’umiliazione, e può trovarsi felicemente fuori della sua cerchia, nella pacifica zona dell’umiltà. La dolcezza è sempre utile, ma quando non trova l’acido nel Cuore; l'acidità dell’orgoglio può anche mutarla in veleno. Questa norma vale soprattutto per chi sta a capo, per chi tratta con anime suddite, per le quali l’orgoglio rappresenta la ribellione,
e quindi il disordine pieno e disastroso. Riguardo agli scribi e farisei c’è molto di più: Gesù Cristo era Dio vero e giudice eterno, ed era venuto per inaugurare di piena autorità il suo regno di amore; Egli doveva perciò prima
di tutto smascherare e giudicare quelli che ostaoolavano il compimento del disegno di Dio in mala fede. Egli li giudicava, e poichè essi erano colpevoli del peccato contro lo Spirito Santo, li smascherava, affinchè Il loro prestigio non avesse impedito la conversione delle anime semplici. Gesù Cristo in altri termmi, conoscendo da Dio i cuori degli uomini, parlava con severltà a quelli che volevano perdersi ad ogni costo, affinché non avessero trascinato altri nella perdizione. Era consono alla sua giustizia e bontà ch’Egli non dovesse usare verso i perversi ostinati e ribelli una carità che sarebbe stata mancanza di carità verso i deboli e le anime semplici. Gli scribi e farisei riŕuggivano da ogni vera discussione, irrompevano con la malignità o con la violenza, ed erano spiritualmente folli. Con un folle non si può usare una bontà che lo renderebbe più furioso. Gesù Cristo poi non irrompeva per ira, come sarebbe potuto apparire, ma per dolore; vedere quegli infelici così freddamente ostinati era per il suo Cuore un tormento inaudito,
ed il suo grido era grido di matemo e ferito amore. Quando non si riesce a salvare chi precipita, si grida, si
vorrebbe quasi con l’impeto del dolore fermarlo sull’abisso, e il grido è l’indice della volontà di salvare. Gesù Cristo, venuto a salvare tutti, levava la voce contro gli scribi e farisei proprio per salvarli; sapeva bene di non riuscirvi, data la loro ostinata e libera volontà, ma il suo amor non poteva rimanere indifferente innanzi alla loro rovina.
Non si deve pensare però che Gesù abbia solo apostrofato severamente quegli ipocriti; Egli li strinse in un ragionamento così logico, che non potevano sfuggirne, e pur parlando con giusta severità, aprì loro il cuore con mille industrie di misericordia, a noi sconosciute. Il dolore del suo Cuore era per loro come una corrente di vita e, se l’avessero voluto, avrebbero riconosciuto nelle sue parole il suo amore. Ma non lo vollero; svalutarono ciò che operava il Maestro divino, e lo svalutarono alla triste luce dei loro tenebrosi pensieri; vollero essi diventare i giudici, mentre dovevano essere i giudicati, e disprezzarono la misericordia diventando essi spietati.
Nel caso presente, Gesù parlando agli scribi e farisei, rettificò le deformazioni che essi avevano introdotte nella Legge coi loro usi e le loro tradizioni, e rivendicò i sacrosantri diritti degli ordinamenti divini. Questo non poté farlo che mettendo in luce i peccati nei quali essi cadevano e quelli nei quali inducevano gli altri con le loro ipocrite fisse. Era un argomento che avrebbe potuto attanagliarli e convertirli, e perciò Gesù Cristo si fermò particolarmente sul dovere di soccorrere i genitori bisognosi, da essi rinnegato sotto una falsa apparenza dipietà verso Dio.
Dire al proprio padre e alla propria madre: Sia Corban, cioè sia come già dato a Dio tutto ciò che vi devo, e non dar loro nulla, e nello stesso tempo non offrir nulla al Signore o dargli una minima cosa, tanto per illudere la propria
coscienza, era un atto d’ipocrisia che sovvertiva la ragione stessa della Legge di Dio. Il Signore non vuole che si dia a Lui ciò che è dovuto al prossimo, e molto più ai genitori e ai parenti prossimi bisognosi; quell’eredità lasciata alla Chiesa perché il testatore è in urto coi propri parenti, non riesce di onore a Dio, poiché sottrae il necessario a chi ne ha bisogno, e diventa un atto di Vendetta tanto più grave, in quanto la volontà del defunto è sacra ed inviolabile!
E' dovere di giustizia provvedere ai parenti bisognosi, ed è dovere di perdono il non trascurarli, anche se fossero stai ingrati verso di noi! Ciò che abbiamo, del resto, anche se l’abbiamo acquistato col nostro lavoro, è in nostro possesso momentaneo, perché siamo di passaggio sulla terra; non possiamo dunque riguardarcene come assoluti padroni, ma dobbiamo rispettare le leggi di giustizia e di carità delle quali Dio esige l’osservanza.

Tutto ciò che di fuori entra nell’uomo non può contaminarlo.
Queste parole di Gesù Cristo sono spesso citate a sproposto da quelli che rifiutano ogni legge di astinenza o di digiuno imposta dalla Chiesa, e credono di giustificare così la loro gola e la loro ribellione. Eppure il Signore non volle minimamente intaccare la legge, ma solo dimostrare, contro gli scribi e farisei, che la scrupolosità esterna in certi casi introdotti dagli uomini non giovava a nulla, e non poteva santificare la creatura. Gesù parlò di ciò che è fuori dell' uomo, cioè di ciò che non ha relazione alcuna con l’anima, il che non poteva valere per le astinenze e i digiuni comandati dalla legittima autorità, ordinati al bene dell’anima. Nessuna legge di digiuno prescrive il modo esterno di
mangiare o di bere, e questo cerimoniale di igiene o di galateo è fuori del dominio dell’anima, e non le aggiunge o le toglie nulla, a meno che non abbia relazione con la carità; ma non è indifferente all’anima il digiunare, perché questo la rende disciplinata spiritualmente, ammansisce in lei le pretese delle passioni, l’abitua al dominio di se stessa, e le dà la gioia di notare in se un progresso spirituale. Se non fosse così, Gesù Cristo non ci avrebbe dato Egli stesso l’esempio digiunando 40 giorni nel deserto, e non avrebbe suscitato con particolari aiuti di grazia, i grandi santi penitenti. Ciò che entra nell’uomo indifferentemente, segue il corso delle leggi digestive, e non può influire sull’anima; gli scribi e farisei invece credevano che il mangiare senza lavarsi le mani fosse causa di una vera macchia nell’anima, quasi che il cibo potesse direttamente influire su di lei. Macchia l’uomo ciò che viene dal cuore, cioè la cattiva volontà, il ribellarsi alla Legge, il disobbedire; chi mangia con le mani non lavate, non ha alcuna cattiva volontà, ma chi tradisce la Legge dell’astinenza e del digiuno ha la pessima volontà di fare il proprio comodo e quindi, in questo caso, è precisamente dal cuore cattivo che viene la sua trasgressione, macchiandogli l’anima.
Ma chi sono quelli che si mostrano noncuranti della Legge del digiuno, ostentando un’immunizzazione assoluta contro le macchie interne? Sono precisamente quelli che sono macchiati di ogni delitto, o che bevono con facilità il peccato, a somiglianza degli scribi e dei farisei. La loro coscienza, facile al peccato, dimostra esaurientemente con quale spirito parlano, e li accusa; chi veramente è buono sente rimorso di mangiare un cibo proibito, e non affaccia vani pretesti per trasgre dire la Legge.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo