sabato 28 maggio 2016

SS,MO CORPO E SANGUE DI CRISTO

Domenica 29 maggio 2016
Lc 9,11b-17
 Dal Vangelo secondo San Luca
In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.
La prima moltiplicazione dei pani
Quando il popolo vide che Gesù si ritirava, osservò – come dice san Marco (6,33) –, quale direzione prendeva, perché in barca si allontanava verso il luogo deserto di Betsaida. La sua parola e il suo divino aspetto erano così affascinanti, e i miracoli che compiva così grandi che il popolo non seppe distaccarsene e – secondo san Marco (ivi) –, corse e lo prevenne nel luogo dove supponeva che Egli dovesse sbarcare. Viveva giorni di entusiasmo e di schietta fede, perché la propaganda ostile degli scribi e dei farisei non lo aveva ancora avvelenato. Sembra quasi di vederla questa turba devota, entusiasmata dai discorsi di Gesù, correre in grande gioia, e fare a gara nel passo, superando le balze della strada montagnosa, per trovarsi nuovamente da Gesù. Era dimentica di tutto, l’attraeva il Signore e correva, percorrendo un lungo cammino, senza pensare che si allontanava di più dai centri da cui era venuta. Gli stessi infermi si sforzavano di fare il cammino, sperando di ottenere la guarigione.
Quando Gesù vide quell’immensa moltitudine, nella quale solo gli uomini erano circa cinquemila, ne fu commosso; l’accolse con infinita amorevolezza, parlò del regno di Dio, e risanò tutti quelli che avevano bisogno di cura.
Può rilevarsi dal contesto che mentre Gesù parlava alle turbe e guariva gl’infermi, gli apostoli dovettero rifocillarsi. Essi, infatti, si erano appartati per questo dal popolo ed, andando in un luogo deserto per rimanervi poi in orazione, avevano dovuto portare con loro qualche provvista abbondante. Il non aver altro che cinque pani e due pesci, quando Gesù disse che provvedessero al popolo, fa supporre che avessero dovuto già cibarsi. Forse, proprio mentre mangiavano, notarono che il giorno declinava e che era necessario rimandare la turba perché avesse cercato, nei villaggi circostanti, vitto e alloggio.
È psicologico, infatti che uno noti per gli altri quello di cui si preoccupa per sé e compatisca negli altri quello che egli soffre; essi, stanchi dal viaggio e bisognosi di cibo, nel sedersi su qualche poggio a rifocillarsi ponderarono meglio che cosa significava essere stanchi e digiuni e, accostatisi a Gesù, lo esortarono a licenziare la turba perché si fosse provveduta, perché il giorno declinava e si stava in luogo deserto.
Gesù rispose alle loro insistenze, dicendo che avessero dato essi da mangiare a quella gente. Ma non avevano che cinque pani e due pesci e quel comando sembrò loro uno scherzo. Il Redentore, invece, non parlava per modo di dire: esigeva veramente che avessero provveduto al popolo facendo un atto di fede in Lui.
Non avevano già fatto miracoli in suo Nome?
Non avevano sperimentato, nella missione compiuta, quanto fosse stata feconda la loro fiducia?
Egli avrebbe voluto che il miracolo l’avessero fatto essi in suo Nome, perché avrebbe voluto accrescere il loro ascendente sul popolo, ai fini dell’apostolato. Ma non erano da tanto, e Gesù, compatendoli, volle che almeno avessero avuto fiducia in Lui, e ingiunse loro di far sedere la gente sul fieno, a gruppi di cinquanta. Fu così che essi poterono contare approssimativamente quanti uomini erano presenti, perché, raggruppandoli in cento comitive da cinquanta persone, notarono che la maggioranza erano uomini, pur essendovi parecchie donne e bambini. Gesù volle far constatare loro la grandiosità del miracolo, per sanare la sfiducia che avevano avuta in Lui, sia volendo far licenziare il popolo, sia non avendo fede di poterlo alimentare in suo nome.
Quando furono tutti seduti, il Redentore si fece portare i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo per mostrare a tutti che pregava, e li benedisse. Poi cominciò a spezzare sia i pani che i pesci, ponendo le porzioni nei panieri che gli apostoli avevano portati con loro, o che avevano domandati in prestito da qualcuno che li aveva. È evidente, dal contesto, questa circostanza, sia perché sarebbe stata lunghissima la distribuzione fatta pezzo per pezzo, sia perché nel Testo è detto esplicitamente che furono raccolti gli avanzi in dodici panieri.
Gesù spezzava il pane, e il pane cresceva di nuovo, di modo che da ogni pane ricavò più di mille porzioni, e da ogni pesce più di duemila e cinquecento porzioni.
Il pane veniva fresco e saporosissimo, poiché Gesù, quando mutò l’acqua in vino a Cana di Galilea, somministrò un vino di ottima qualità.
Era secondo la sua infinita generosità dare un cibo ottimo, come lo diede Dio nella manna del deserto agli Ebrei che emigrarono dall’Egitto. Forse Gesù stesso, prendendo il pezzo abbondante di pane, vi pose in mezzo la porzione di pesce. Nelle sue mani onnipotenti il pane e il pesce erano quasi come sementi vive che istantaneamente crescevano. Ciascuna particella, obbedendo alla sua volontà creatrice, diventava feconda di un’altra, quasi, diremmo, come in natura si generano le cellule nuove per gemmazione, e molto più velocemente di quello che non cresca in una notte il gigantesco fungo equatoriale.
Data l’enorme quantità del pane avanzato, si può supporre che Gesù abbia fatto le porzioni uguali per tutti, e naturalmente le donne, i bambini e chi aveva minore appetito ne mangiarono meno e ne lasciarono una parte. Forse di un pane faceva due parti, perché, dividendolo a metà, poteva più facilmente spezzarsi; una metà la dava agli apostoli con la metà di un pesce, e l’altra metà, cresciuta nelle sue mani, la spezzava nuovamente in due; l’ultima metà di ciascun pane e pesce la dava com’era. Se fosse così, ne verrebbe che dieci porzioni di pane e quattro di pesce furono cavate da ciò che avevano gli apostoli, e furono naturali, e che le altre furono miracolose. Dio, pur essendo generosissimo, non fa opere superflue, e Gesù utilizzò certamente i pani e i pesci che aveva.
Il miracolo fu grandioso, ma fatto con tanta prontezza e naturalezza che la gente e gli apostoli stessi, in quello stesso momento, non lo ponderarono. Il cibo miracoloso, poi, aveva con sé la grande benedizione di Gesù, e non poté non produrre anche nelle anime qualche frutto spirituale, almeno in quelle meglio disposte.
Certo, in quel momento regnava in quel luogo una grande pace, e satana doveva essere tanto lontano dall’insidiare quelle anime.
Nel deserto aveva preteso che Gesù oziosamente avesse mutato le pietre in pane; in questo altro deserto avrebbe voluto mutare quel pane in pietre, perché la sua invidia ringhia quando Dio ci benefica: ma l’onnipotenza di Gesù Cristo lo confondeva e dovette preferire inabissarsi nell’Inferno.
Gesù Cristo non volle operare il miracolo senza la cooperazione degli apostoli, e anziché far discendere il pane dal cielo, moltiplicò quello che c’era. Diremmo quasi che ci diede la proporzione della nostra cooperazione alla sua grazia: uno per mille, ovvero uno per duemila e cinquecento. Pretendere che Egli operi in noi senza il minimo della nostra cooperazione è un’illusione.
Egli moltiplicò il pane e i pesci per il cibo corporale, ma si può dire che prima aveva moltiplicato anche il pane spirituale, facendosi ascoltare da tutta quella massa di gente. La sua voce si doveva naturalmente disperdere in quel deserto, tanto più che il brusio della moltitudine, provocato dai bambini e da altri, doveva soffocarla; invece è evidente che l’ascoltarono tutti, diversamente non gli sarebbero andati dietro con tanta premura. Il popolo andò per ascoltare la divina Parola, trascurando le sue necessità, e Gesù vi provvide Egli stesso, mostrando così con i fatti che chi cerca il regno di Dio e la sua giustizia ha per sovrappiù, dalla Provvidenza, le cose temporali.
Il vivo Pan del cielo
Gesù Cristo, moltiplicando il pane e i pesci, simboleggiò una moltiplicazione più bella, quella del Pane eucaristico, quella del suo Corpo e del suo Sangue come sostegno nostro nel deserto della vita.
Nell’Ultima Cena, Egli operò come nel deserto: alzò gli occhi al cielo, spezzò il pane, lo diede ai suoi apostoli, moltiplicò in essi la sua Presenza sacramentale, conferì diede loro il potere di dare quel Pane di vita alle moltitudini sterminate delle cinque parti del mondo in tutti i secoli. Ogni giorno noi assistiamo a questo miracolo nella Santa Messa: Gesù ci parla dall’altare nel deserto della vita attraverso le grandi voci della liturgia; dopo averci parlato, ci fa sedere alla sua mensa e ci nutre di sé. Non dovrebbe mai avanzare questo Cibo di vita, e le pissidi dovrebbero sempre vuotarsi. Certo, se il popolo avesse capito appieno il miracolo che aveva avuto, avrebbe lasciato dodici panieri di avanzi? Ognuno avrebbe portato con sé, come preziosissima cosa, il pane miracoloso, per cibarsene ancora.
Rimangono piene le pissidi quando sono vuoti i cuori, e quando non s’intende l’immenso beneficio del Dono eucaristico. O caro Gesù, non permettere che ti siamo ingrati; donaci una grande fame del Pane di vita!
Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 21 maggio 2016

Il Consolatore verrà a sostenere gli apostoli

Commento al Vangelo: Santissima Trinità C 2013(Gvv16,12-15)

Il Consolatore verrà a sostenere gli apostoli

In ogni tempo della vita della Chiesa, lo Spirito Santo continua a rimproverare il mondo di peccato, di giustizia e di giudizio attraverso le parole del Papa e del sacerdozio. Il mondo incredulo è confuso dalla luce della verità che rifulge nella Chiesa per la continua assistenza dello Spirito Santo; è condannato nelle sue ingiustizie con l’inesorabile giudizio che traccia infallibilmente la via del bene; la Chiesa, infatti, addita l’eterna meta cui aspiriamo, sulle orme del Redentore che è asceso al Cielo per prepararci il premio. Il mondo, infine, è sgominato dalla potenza divina che, attraverso i doni dello Spirito Santo, mostra quanto sia effimera la potenza di satana. Per l’assistenza dello Spirito Santo la Chiesa è un faro di luce in mezzo al tenebrio del mondo, segna le vie della verità e della giustizia, e vince le mene di satana, il perenne vinto anche dalle più piccole manifestazioni della sua vita. La Chiesa condanna la miscredenza che presume vivere in un positivismo tutto materiale, e glorifica la fede che non vede e crede, condanna chi non crede in Gesù, e crede in Gesù vivo e vero, benché invisibile che siede alla destra del Padre e vive nell’Eucaristia; la Chiesa condanna il regno di satana e, condannandolo, mostra che satana non è un re ma un vinto, e che tutto ciò che opera nel mondo è obbrobrio che ne mostra la viltà.
       Gli apostoli non capirono quello che Gesù diceva loro, e rimasero perplessi. Capirono solo che dovevano compiere una missione; ma, piccoli e incolti com’erano, provarono uno scoraggiamento grande, non sapendo come avrebbero potuto attuarla. Il pensiero poi che il Maestro divino li lasciava, li rattristava grandemente, perché erano come figliolini attaccati alle vesti materne. Che cosa potevano annunciare al mondo? A che cosa si riduceva la dottrina che avevano ascoltata? La loro mente era confusa e il loro spirito, anche inconsciamente, desiderava delle chiarificazioni. Per questo Gesù soggiunse: Molte cose ho ancora da dirvi, ma non ne siete capaci adesso. Quando verrà Spirito di verità, Egli v’insegnerà tutta la verità. Egli infatti non vi parlerà da se stesso ma vi dirà quanto ha inteso, e vi annuncerà le cose che dovranno succedere. Egli mi glorificherà, perché prenderà ciò che è mio e ve lo annuncerà. Tutto ciò che ha il Padre mio è mio; perciò vi ho detto che prenderà ciò che è mio e ve lo annuncerà.
       Gesù voleva dire: Voi desiderate sapere che cosa dovrete dire al mondo, e vi preoccupate della vostra missione. Io, in realtà, non vi ho detto ancora tutto, e ho molte altre cose da rivelarvi, ma voi non sareste ora capaci di comprenderle. Vi manderò lo Spirito Santo ed Egli v’insegnerà tutta la verità. Egli non farà una nuova economia di provvidenza salvatrice né verrà per fondare qualcosa di diverso da quello che ho fatto già io, non vi parlerà da se stesso, ma vi dirà quanto ha inteso, cioè vi dirà quanto io ho detto e ve lo spiegherà, e vi annuncerà le cose che dovranno succedere, dicendovi quello che io non ho potuto ancora annunciarvi, e dandovi lo spirito di profezia. Voi così non sarete confusi né per ciò che avete visto e ascoltato né per ciò che vi avverrà.
       Vi scoraggiate nella vostra missione, ma non siete voi che dovrete glorificarmi, quasi semplici testimoni di un fatto storico; lo Spirito Santo mi glorificherà in voi illuminandovi su tutto ciò che vi ho detto, e vi darà la luce di sapienza perché mi glorifichiate innanzi al mondo; la vostra missione, in altri termini, è soprannaturale, e voi, con la vostra fede, diffonderete in tutti la luce della fede, e con la vostra vita mi glorificherete amandomi e accendendo i cuori d’amore. Lo Spirito Santo procede da me, e riceve da me, con la natura divina, la sapienza divina per istruirvi.
       Vi dissi già che Egli procede dal Padre (15,26), ma ora aggiungo che procede anche da me, perché tutto ciò che ha il Padre è mio; il Padre gli comunica la natura divina, e gliela comunico anch’io; procede dal Padre e da me come da unico Principio, e riceve dal Padre e da me la natura divina, la scienza ecc.… Egli, dunque, mi glorificherà solennemente non solo per ciò che ho compiuto come uomo, ma mi glorificherà come Dio: prenderà ciò che è mio e ve lo annuncerà, ossia vi annuncerà la verità della mia natura divina, di quella natura che Egli riceve da me come dal Padre, e vi farà intendere luminosamente che io sono veramente Figlio di Dio. 
Don Dolindo Ruotolo

sabato 14 maggio 2016

Domenica di Pentecoste

15 maggio- Domenica di Pentecoste

DOMENICA DI PENTECOSTE Anno C
Gv 14,15-16.23b-26
† Dal Vangelo secondo San Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre.
Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
Credere attivamente, osservando la Legge di Dio, farsi vivificare dallo Spirito Santo
Non bisogna supporre che per far vivere in noi Gesù Cristo basti uno sterile atto di fede o una più sterile invocazione fatta a fior di labbra. Per molte anime, infatti, la vera e profonda pietà potrebbe prendere l’aspetto di una poesia più o meno fantastica, o rivestire il carattere di un idealismo più o meno vaporoso. La pietà vera è via, verità e vita; è via che ci conduce a Dio e all’eternità, è fondata saldamente sulla verità divina, ed è vita di Gesù Cristo. La nostra vita dev’essere nascosta con Gesù Cristo in Dio, e dobbiamo vivere noi, ma non noi, bensì Gesù Cristo in noi, come dice in una sintesi mirabile san Paolo.
Per far vivere in noi Gesù Cristo è necessario amarlo praticamente, osservando i suoi comandamenti, e per far questo è necessaria la grazia. La grazia viene a noi dallo Spirito Santo, e perciò Gesù Cristo, dopo aver parlato del Padre e di Lui stesso, Figlio del Padre, accenna allo Spirito Santo che realizza la nostra unione con Lui e ci rende glorificazione di Dio. Essendo poi Egli il nostro Mediatore presso Dio come Verbo Incarnato, e potendoci Egli solo ottenere la grazia per amarlo e per osservare i suoi comandamenti, soggiunge: Io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro Paraclito, affinché rimanga sempre in voi lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né lo conosce; voi, però, lo conoscerete perché abiterà con voi e sarà in voi. Paraclito significa difensore, avvocato, consolatore, intercessore, esortatore, incitatore, colui che dà l’impulso; ora Gesù Cristo era per gli apostoli e per le anime tutte il difensore perché le liberava dalle insidie di satana, l’avvocato – come dice san Paolo –, perché loro Mediatore presso Dio, il consolatore perché effondeva in loro il balsamo della sua carità, l’intercessore, perché sempre vivente in preghiera per loro, l’esortatore come Maestro divino, l’incitatore e colui che dà l’impulso, come nostro aiuto, nostro esempio e nostra vita. Egli quindi, primo Paraclito, dovendo andare via dal mondo, e dovendo lasciare gli apostoli, promette loro un altro Paraclito, un’altra persona dalla Santissima Trinità, cioè lo Spirito Santo che doveva essere per loro intimamente, e nella Chiesa che Egli fondava, difesa, avvocato, consolatore, intercessore, esortatore, incitamento al bene e impulso di vita nuova, nelle debolezze della natura.
Gesù Cristo promette questo altro Paraclito perché rimanga nelle anime che lo riceveranno e nella Chiesa che Egli vivificherà, e perché sia conservato integro il patrimonio della fede e la Chiesa viva nel perenne splendore dell’infallibile verità.
Lo Spirito di verità che il mondo rifiuta
È questo quello che distinguerà la Chiesa dal mondo e i cristiani dai mondani: lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere. Il mondo è spirito di menzogna e di malvagità; odia la verità e non la vuole conoscere; appare per quel che è, ripieno dello spirito satanico aggressivo, violento, crudele, calunniatore, scandalizzatore, ossia diametralmente opposto allo Spirito Santo, e quindi è chiaro che non potrà né vederlo né conoscerlo.
I cosiddetti “grandi” della terra hanno tutti, più o meno, i caratteri opposti allo Spirito Santo mentre, in realtà, sono obbrobrio e miseria, nonostante le loro apparenze gloriose; i fedeli, invece, i veri fedeli, dovranno essere contrassegnati dallo Spirito di Dio, ed esserne ripieni.
Perché Gesù promise un altro Consolatore?
A primo aspetto sembra quasi che Gesù Cristo prometta agli apostoli un altro Paraclito, per sostituire la sua presenza in mezzo a loro durante la sua assenza; Egli, infatti, soggiunge: Non vi lascerò orfani, tornerò a voi. Ancora un po’ di tempo e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. Intanto è certo che Gesù, anche senza la sua presenza visibile, rimase e rimane nella Chiesa; anzi Egli è in essa vivo e vero nell’Eucaristia, ed Egli stesso dice: Io vivo e voi vivrete, vivo nell’Eucaristia, e voi vivrete di me in questo Sacramento d’amore. Ora, se Gesù rimase e rimane nella Chiesa, perché promise un altro Paraclito? E perché disse che non avrebbe lasciato orfani i suoi apostoli, ma sarebbe ritornato a loro?
Letteralmente Gesù alluse al suo ritorno visibile dopo la sua risurrezione e alla fine del mondo; consolò gli apostoli della sua morte, dicendo che sarebbe ritornato, e consolò la Chiesa militante che nelle sue lotte l’avrebbe visto quasi assente, dicendo che sarebbe ritornato vivente nella sua gloria, per darle il possesso solenne della vita eterna: Mi vedrete perché io vivo e voi vivrete. Nella gloria della sua risurrezione, gli apostoli l’avrebbero riconosciuto meglio come Dio, ed avrebbero capito che Egli è nel Padre, come avrebbero capito che Egli è il Redentore, e gli uomini in Lui trovano la vita, ed Egli dimora in loro per donarla. Nell’ultimo giorno sarebbe apparso evidente il fulgore della sua divinità a tutte le genti, e la Chiesa, suo Corpo mistico, completa nella sua santità e nei suoi eletti, sarebbe apparsa congiunta a Lui come membro al corpo, ed Egli, congiunto ad essa, come Capo al corpo.
Gesù Cristo doveva eclissarsi dagli apostoli con la sua morte e sepoltura, e doveva eclissarsi anche dopo la risurrezione con la sua Ascensione al cielo. Gli apostoli non l’avrebbero più avuto come Maestro visibile, e non avrebbero più goduto della sua presenza sensibile, e perciò Egli promette loro lo Spirito Santo come Maestro interiore di verità, e come Consolatore intimo nel cammino terreno.
Egli parla loro e parla a tutta la Chiesa, promette loro il suo ritorno dopo la risurrezione, e promette alla Chiesa il suo ritorno non solo nel Giudizio finale, ma in una nuova effusione di misericordie e di grazie, in un trionfo grandioso che ne farà sentire la presenza, ne farà apprezzare la grandezza, e farà vivere talmente di Lui Sacramentato, da sentire che Egli è in noi e noi in Lui. In questa grande effusione di grazie e in questo trionfo Egli, sfigurato dagli errori del mondo persino nell’animo di tanti fedeli, sarà riconosciuto veramente come Dio: In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio; e sarà riconosciuto per la maggiore diffusione della vita eucaristica: Conoscerete che voi siete in me e io in voi. Il trionfo sarà preparato dallo spirito di verità, in opposizione allo spirito del mondo, perché ci sarà grande luce di verità nella Chiesa, una maggiore comprensione della fede per i dottori che la illumineranno di nuovi fulgori, per la grazia dello Spirito Santo.
Una bella predizione?
Questo che diciamo risponde all’aspettazione della Chiesa fin dai suoi primordi.
La Chiesa, tra le sue pene e le sue prove, ha aspettato sempre e attende tuttora un trionfo smagliante del suo Redentore anche nel mondo; essa attende quasi una nuova Pentecoste, una nuova effusione di grazia e di amore, una clamorosa vittoria sul mondo, una grandiosa dilatazione del regno di Dio che sia pratica glorificazione dei tesori della redenzione nelle anime, e soprattutto dell’Eucaristia. Questa vittoria non sarà un’affermazione di prestigio politico, non deriverà da onori e da beni temporali, ma sarà un’affermazione di vita interiore in unione con Gesù Sacramentato, una potente affermazione della forza che può dare lo Spirito Santo, nelle glorie della santità e del martirio, un fervore nuovo nell’osservanza dei precetti e dei consigli evangelici, uno splendore di smagliante purezza, di umiltà, di carità, di vita interiore e soprannaturale, un rifiorire mirabile della vita religiosa, un ripopolarsi dei chiostri deserti, diventati ora covi di profanatori ladri, di soldati, di uffici pubblici, di ritrovi e persino di case di peccato.
Sarà anche una rifioritura ammirabile della vita mistica, in elevazioni superiori a quelle avute in ogni tempo, e Gesù Cristo si manifesterà alle anime elevate così in uno splendore di luce tanto grande, da renderle monumento vivo d’amore e tempio della Santissima Trinità.
È questo il trionfo che la Chiesa attende e che avrà dalla bontà di Dio in mezzo a lotte anche più aspre di quelle sostenute nel passato. Gesù lo espresse in poche parole, dicendo: Chi ha i miei comandamenti e li osserva, mi ama. L’amore, dunque, dovrà essere pratico e operativo per essere palpito vivo di santità. E chi mi ama sarà amato dal Padre mio, cioè sarà oggetto di particolari grazie dello Spirito Santo, che è Amore infinito. Ed io lo amerò – soggiunse Gesù –, e gli manifesterò me stesso; lo amerò comunicandomi a lui nella mia vita di amore eucaristico, e gli manifesterò me stesso nelle elevazioni dell’amore mistico.
Sugli errori circa la salvezza e la santificazione
Gli apostoli credevano che Gesù dovesse invece manifestarsi gloriosamente e politicamente al mondo, in un’affermazione di dominio temporale, ed erano certi che tutta l’opposizione che gli faceva il sinedrio si sarebbe conclusa in uno smacco vergognoso. Ora, sentendo parlare di una sua manifestazione all’anima, nel misterioso silenzio dell’amore, se ne stupirono, e perciò Giuda, chiamato Taddeo o Sebbeo, gli domandò a nome di tutti: Signore, come avviene che manifesterai te stesso a noi e non al mondo? Questo apostolo capì che Gesù parlava di una manifestazione interiore alle anime e, non supponendo che potesse parlare di altri fuori che loro, chiese che cosa fosse avvenuto di nuovo per cui Egli riduceva il suo trionfo ad una semplice illuminazione fatta nell’intimità del loro piccolo gruppo.
Per questo Gesù ritornò sul grande concetto di un trionfo interiore di Dio nelle anime, e soggiunse: Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e faremo dimora presso di lui. Ecco, in sintesi luminosa, l’essenza del trionfo di Dio: abitare da Re trionfante, con la magnificenza della sua gloria, Uno e Trino, nell’anima che, amandolo, compie la sua volontà e gli si dona.
Dicendo questo, Gesù guardò quegli eretici illusi che avrebbero preteso stabilire con Lui e con Dio un’intimità di grazia senza compiere il bene, e che avrebbero preteso glorificarlo con una sterile fede e con una tracotante fiducia; perciò, per eliminare ogni equivoco, soggiunse: Chi non mi ama così, non osserva la mia parola, e quindi chi non osserva la mia parola non mi ama; ora la parola mia che v’impone di amare osservando i miei comandamenti, non è mia, ma del Padre che mi ha mandato; non è un modo di vedere qualunque o un’opinione cioè, ma risponde al medesimo disegno di Dio nella salvezza delle anime; è un comando di Dio, una Legge che non può né avere eccezione né essere deformata da pensiero umano.
Rispondendo all’apostolo Giuda Taddeo, Gesù proclamò un grande principio che da solo basta a dissipare le oscure nebbie degli errori protestanti sulla salvezza e sulla santificazione, e da solo c’impegna ad essere veramente anime amanti di Dio.
Il trionfo di Dio in noi non consiste in uno sterile trionfo di misericordia che ci trascina, inerti e lerci come siamo, nel suo regno; ma è un trionfo d’amore che risponde al nostro amore, e ci rende capaci di operare soprannaturalmente o – come dicono i teologi –, ci abilita a fare atti deiformi. Si noti l’abisso che corre tra la verità e l’errore; questo afferma l’inutilità di operare il bene, anzi l’utilità di operare il male, presumendo così di glorificare la grazia che salva, e la verità, invece, proclama che Dio, andando incontro all’anima che l’ama e osserva fedelmente i suoi comandamenti, abita in lei nella gloria della sua Trinità, e produce in lei un organismo soprannaturale che, soprannaturalizzando l’anima, l’abilita a fare atti deiformi.
La vita cristiana, infatti, è una partecipazione alla vita stessa di Dio, ed è evidente che Egli solo la può conferire; ora, Egli ce la conferisce venendo ad abitare nelle anime nostre e dandosi interamente a noi affinché possiamo rendergli i nostri ossequi e lasciarci docilmente guidare da Lui a praticare le disposizioni e le virtù di Gesù Cristo. Questa mirabile abitazione della Santissima Trinità in noi si attua quando noi amiamo Gesù, e noi lo amiamo principalmente quando gli chiediamo perdono dei nostri peccati attraverso il sacramento della Penitenza e quando ci comunichiamo eucaristicamente con Lui sacramentato. Andiamo da Lui per amore, e perché lo amiamo il Padre ci ama; siamo da Lui attivati soprannaturalmente, e diventiamo tempio vivo della Santissima Trinità che, vivendo in noi, rende deiformi le nostre azioni con la grazia. Dio ci adotta come figli, non per una semplice finzione giuridica, com’è l’adozione legale, ma elargendo a coloro che credono nel suo Verbo la divina filiazione: Dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius, diede il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome (Gv 1,12). Questa filiazione non è nominale ma effettiva: Ut filii Dei nominemur et simus affinché siamo chiamati figli di Dio (1Gv 3,1) noi entriamo in possesso della divina natura: divinae consortes naturae. Questa vita divina è certamente in noi soltanto una partecipazione e una somiglianza che fa di noi non degli dèi, ma degli esseri deformi; ma è anche una realtà, una vita nuova, non uguale, ma simile a quella di Dio.
Dio ha per noi la premura e la tenerezza di un padre, e si dà a noi abitando nei nostri cuori. Dio ci si dà come amico, ci comunica i suoi segreti, e ci parla non solo per la Chiesa, ma anche interiormente per mezzo del suo Spirito; tutto sta, da parte nostra, nell’acconsentire ad aprire la porte all’Ospite divino.
È ciò che ci attesta l’Imitazione di Cristo, quando parla delle frequenti visite dello Spirito Santo alle anime interiori, le sue dolci conversazioni con loro, le consolazioni e le carezze di cui le colma; la pace che fa regnare in loro, e la stupenda familiarità con cui le tratta (ivi, Libro II, 1,1). Dio rimane in noi come il più potente collaboratore; opera in noi e supplisce alla nostra impotenza per mezzo della grazia attuale; c’illumina sul nostro ultimo fine e sui mezzi per conseguirlo, ci suggerisce buoni pensieri, ispiratori di opere buone, ci dona la forza e ci rende capaci di volere e di eseguire le nostre risoluzioni, ci fortifica per renderci vittoriosi nelle tentazioni, ci sorregge nelle stanchezze della natura e ci aiuta a perseverare nel bene. Noi non siamo mai soli, anche quando, privi di consolazioni, ci crederemmo abbandonati; la grazia di Dio sarà sempre con noi, a patto che noi consentiamo a lavorare con lei. Appoggiati a Dio, onnipotente collaboratore in noi, saremo invincibili, perché tutto possiamo in Colui che ci conforta.
L’anima deve pregare con le voci liturgiche della Chiesa
Dio, venendo in noi e santificandoci, ci trasforma in un tempio santo, ornato di tutte le virtù. Egli, Uno e Trino, sorgente infinita di vita divina, vuol farci partecipare alla sua santità; l’anima diventa un sacro recinto riservato a Dio, e si santifica, solo che con umiltà e filiale abbandono si lasci portare dalla sua grazia, donandosi a Lui veramente. Essa deve donarsi a Dio in una piena e soave schiavitù d’amore che, in realtà, è somma libertà, perché infrange d’un colpo tutti i ceppi della natura; deve vivere in Dio adorandolo, umiliandosi e operando per suo amore nel pieno compimento della sua volontà; deve pregare per conversare con Lui, e pregare con le voci liturgiche della Chiesa che sono come la lingua viva e particolarmente efficace di questa santa città dove abita Dio; deve proclamare il proprio nulla non per avvilirsi nelle opprimenti pene dell’agitato scoraggiamento, ma per abbandonarsi all’in-finita misericordia di Dio, confidando. L’amore dell’anima a Dio che abita in lei dev’essere penitente nel rammarico di averlo offeso, riconoscente nella gratitudine dei benefici avuti, intimo nell’amicizia che fa riguardare, più che propri, gl’interessi della sua gloria, e generoso fino al sacrificio, fino all’oblio di sé e alla rinuncia della propria volontà, per sottomettersi ai suoi precetti, ai suoi consigli, e alle sue speciali disposizioni nella nostra vita. Chi pensa veramente a questo solo, ossia che è tempio vivo della Santissima Trinità, e che ha Dio nel cuore, come può violare questo tempio e peccare? Come può profanare il proprio corpo ed abbrutirsi?
Siamo tempio vivo della Santissima Trinità
Non sapete – dice san Paolo (1Cor 3,16-17) –, che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo sperderà, poiché santo è il tempio di Dio che siete voi. Bastano queste parole a raccogliere in Dio la nostra vita, a farci desiderare la perfezione che è il decoro del nostro tempio vivo, e a tenerci stretti nella carità, poiché tutti siamo come cappelle del tempio di Dio, uniti, per così dire, dalle linee d’una stessa architettura, dalle linee luminose dei disegni del suo amore. Che cosa orribile è un’anima in disgrazia di Dio che cosa ripugnante è un tempio vivo insozzato dall’impurità!
Nessuno concepisce un tempio senza pulizia, senza decorazioni, senza altare, deserto, desolato, privo di campane, di organo, di voci osannanti nella preghiera, di lampade, di ceri, di fiori. Tanto meno può concepirsi un tempio diruto, sporco, profanato, dove risuonano frastuoni assordanti, bestemmie, ire, risse e dove si fa scempio della Legge di Dio.
Non sarebbe un tempio ma un covo.
Ora guardiamo l’anima nostra, tempio vivo della Santissima Trinità, e vediamo se possiamo macchiarla di peccato, tenerla muta nella preghiera, desolata nell’offerta quotidiana di quanto ha, senza fiori di virtù, senza cantici d’amore a Dio, senza luce di fede e senza splendori di speranze eterne che sono come le grandi finestre aperte in alto sul limpido azzurro del cielo. Basta questa sola considerazione per renderci vigilanti e accorti, e per impedire qualunque profanazione volontaria dell’anima nostra. Se viene satana a tentarci d’orgoglio, l’anima nostra pensi con amore alla preghiera del pubblicano, e dica dal fondo del suo tempio vivo: Sii propizio a me povero peccatore. Se satana ci tenta di avarizia, pensiamo che dobbiamo essere generosi con Dio nel tempio consacrato alla sua gloria. Se ci tenta d’impurità, consideriamo che siamo consacrati dal Battesimo e dai Sacramenti, e che ogni colpa è come un cumulo di lordure gettate nel luogo santo. Se ci scuote il sistema nervoso e ci spinge a irrompere contro il prossimo, pensiamo al silenzio di pace e di carità che è richiesto dal luogo santo che è in noi. Se ci tenta di gola, consideriamo qual orrore sarebbe gozzovigliare nella casa di Dio, accanto all’altare. Se ci spinge all’invidia o cerca d’immobilizzarci nell’accidia, pensiamo che il tempio è luogo di carità e di preghiera, è luogo che unisce tutti innanzi a Dio col vincolo dell’amore, e che ci unisce al Signore col vincolo della religione. Il pensiero che siamo tempio di Dio può farci santi veramente, eliminando da noi il peccato, facendoci elevare in alto sino a Dio, e spingendoci nelle grandi vie della perfezione e dell’amore. Questo pensiero è il più atto ad offrirci a Dio in una perfetta schiavitù d’amore, poiché niente è più direttamente e completamente dedicato a Lui quanto un tempio. Che cosa ammirabile potersi mettere la mano sul cuore e dire: Sono tempio della Santissima Trinità, tutto dedicato alla sua gloria! Sono di Dio, debbo esserlo sempre, non posso dissacrare una volta sola il mio cuore dedicato a Lui! Egli è il mio dolce padrone, io sono il suo servo, io sono il suo schiavo d’amore, ma la mia servitù mi nobilita e la mia schiavitù mi rende figlio della piena libertà, e dà, all’anima mia, un volo grande d’amore.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 7 maggio 2016

Gesù appare agli apostoli.Ultimi avvisi. Ascensione al cielo

Commento al Vangelo: Ascensione del Signore C 2013 (Lc24,46-53)

Gesù appare agli apostoli.Ultimi avvisi.
Ascensione al cielo
        Rimessisi un po’ dall’emozione, i due discepoli raccontarono quanto era loro accaduto per strada e come avevano riconosciuto Gesù nella frazione del pane. Forse il loro racconto cominciò a suscitare diffidenze, come avviene spesso quando si riferisce a gente incredula un fatto soprannaturale, quando Gesù, improvvisamente, stando chiusa la porta entrò in mezzo a loro ed esclamò: La pace sia con voi; sono io, non temete. Il suo Corpo glorioso, non più soggetto alle leggi della materia, non conosceva ostacoli, e molto più di quel che non faccia un’onda elettrica, passò attraverso le mura e la porta. I congregati, già impressionati da quello che ascoltavano dai discepoli di Emmaus, ne furono turbati e atterriti, credendo di vedere uno spirito.
        Se avessero creduto a quello che dicevano i discepoli, non avrebbero supposto di trovarsi di fronte ad un fantasma. Gesù, con una grande amorevolezza, per toglierli dall’angustia, soggiunse: Perché vi turbate, e quali pensieri sorgono nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi, sono proprio io; palpatemi e guardate, perché lo spirito non ha carne ed ossa come vedete che ho io. Detto questo, mostrò loro le mani e i piedi e li fece toccare loro, ma essi non crederono ancora, benché avessero il cuore pieno di gioia al divino contatto.
        Questo ci fa vedere in quale stato di miscredenza ancora si trovassero e quanto fitte fossero le tenebre del loro spirito. Toccavano con mano, vedevano con gli occhi e non credevano. È terribile! Erano più increduli dello stesso san Tommaso, la cui mancanza di fede è diventata proverbiale; il loro intelletto era oscurato completamente, poiché rimaneva in loro ancora l’idea che il Maestro non avesse potuto risorgere.
        Così fanno i miscredenti per partito preso: dicono di voler tutto osservare e controllare e, quando toccano con mano la verità, neppure credono, perché il loro cuore è guasto e annebbiato. Non cercano il motivo della credibilità ma quello della miscredenza, e non cedono di fronte all’evidenza, rinnegando praticamente lo stesso positivismo balordo per il quale dicono di non credere. Se si umiliassero e riconoscessero la loro ignoranza, riavrebbero la luce della verità e quella della fede, ma sono ostinati e non vogliono credere.
        Di fronte all’ostinazione degli apostoli Gesù, lungi dall’abbandonarli come avrebbero meritato, ricorse ad un altro espediente: Essi erano fuori di loro per la gioia, come dice il Sacro Testo; non credevano ai loro occhi e al loro tatto, non per ostinazione di malizia, ma per la stessa sorpresa di ciò che vedevano; erano come fuori della realtà della vita, e non sapevano trarre la logica conseguenza di quello che vedevano; perciò Gesù, richiamandoli alla realtà e distraendoli da quello stupore che impediva loro di riflettere, esclamò: Avete qui qualche cosa da mangiare? Ed essi gli presentarono un pezzo di pesce arrostito e un favo di miele; Gesù ne mangiò alla loro presenza, e quello che avanzò lo diede loro perché ne avessero mangiato e l’avessero mostrato agli altri come testimonianza della sua risurrezione.
        Gesù Cristo, avendo un corpo reale poteva mangiare, benché fosse glorioso. Il cibo penetrò veramente nello stomaco, e si mutò interamente in sua sostanza, senza bisogno di digestione. Egli si degnò di partecipare alla nostra vita per santificarla e, mentre prima della Passione aveva mangiato la Pasqua con le erbe amare, simbolo del pellegrinaggio terreno, dopo la risurrezione mangiò il favo di miele, simbolo delle dolcezze della gloria eterna.
        Nella Cena, mangiò l’Agnello pasquale, figura di Lui stesso immolato, e dopo la risurrezione mangiò il pesce arrostito, simbolo del suo amore eucaristico; l’agnello vive nella terra, simbolo dell’anima pellegrina, e il pesce nel mare, simbolo dell’anima beata dell’immensità della gloria di Dio, nella quale è come sommersa per l’eterna beatitudine.
        Di fronte all’evidenza di veder consumato il cibo che gli avevano dato, gli apostoli crederono, come appare chiaramente dal colloquio che Gesù ebbe con loro; ma nel loro spirito c’erano ancora delle tenebre sulla sua Passione e Morte, ed Egli le dissipò, richiamando la loro attenzione sul compimento delle profezie che lo riguardavano, da Lui già annunciate loro prima di patire. E perché avessero potuto intendere appieno quanto di Lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei profeti e nei salmi, cioè in tutta la Scrittura, ne comunicò loro l’intelligenza con una grazia particolare, perché avessero potuto intenderle e insegnarle agli altri, evangelizzando tutte le genti.
        San Luca sintetizza, in queste poche parole, le raccomandazioni e le istruzioni che Gesù Cristo fece agli apostoli nei quaranta giorni nei quali rimase con loro, prima di congedarsi definitivamente e ascendere al cielo. Fu in questi trattenimenti che Egli promise lo Spirito Santo, e li esortò a trattenersi in Gerusalemme, per prepararsi a quella grande grazia che doveva trasformarli in messaggeri di misericordia, di perdono e di pace per tutta la terra.
        Alla fine dei quaranta giorni, li condusse prima a Betania, per congedarsi da Marta, da Maria e da Lazzaro, e poi di là sul monte Oliveto, dove li benedisse e, sollevatosi verso il cielo, sparì dai loro occhi, assunto nella gloria.
        Fu quella l’ultima e definitiva prova che diede della sua divinità, e per questo gli apostoli e quelli che erano con loro lo adorarono, riconoscendolo pienamente Figlio di Dio.
         Ritornarono poi a Gerusalemme pieni di gaudio, per le grazie ricevute, delle quali, ora, valutavano tutta la magnificenza, e stavano nel tempio continuamente, lodandone e benedicendone Dio. Essi, infatti, si svegliarono come da un sonno e, accorgendosi di non aver apprezzato abbastanza gli immensi doni ricevuti da Dio, cercarono di riparare alla loro manchevolezza, andando a ringraziarlo continuamente nel tempio.
Don Dolindo Ruotolo