sabato 27 luglio 2013

La preghiera insegnataci da Gesù

Commento al Vangelo della XVII Domenica TO 2013 C (Lc 11,1-13)


La preghiera insegnataci da Gesù Cristo
        Gesù Cristo, com’era solito, si era appartato in un luogo solitario per pregare, ed uno dei suoi discepoli, notando la grandiosa elevazione del suo spirito e l’illuminazione amorosa di tutta la sua persona, fu preso da un grande desiderio di pregare come Lui e gli disse: Insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. È chiaro, da questa domanda e da luoghi paralleli, che gli apostoli riconoscevano di non saper pregare e avevano un desiderio tanto più intenso di farlo, quanto più affascinante era il loro Maestro nell’orazione.
          Allora Egli rifulgeva d’amore e di maestà e conquideva, suscitando desideri di unione con Dio; la trasfigurazione del Tabor in fondo, fu una delle manifestazioni più belle della sua preghiera e ci dà un’idea della grandiosa maestà che Egli aveva quando si rivolgeva al Padre.
          Egli, infatti, non era figlio di adozione ma consustanziale al Padre; non lo pregava perché avesse bisogno di domandare, ma per lodarlo, benedirlo e amarlo in nostra vece, e mettere così per noi quella base di meriti che mancavano alla nostra preghiera.
          Domandava per noi, amando, in una perfettissima unione col Padre, ammirando e adorando i suoi disegni nella stessa luce dell’infinita sua sapienza e rifulgeva di singolare e arcana bellezza che affascinava e conquideva.
          Come uomo e Mediatore degli uomini Egli supplicava il Padre per le nostre necessità e aveva sul volto tutto il fulgore della carità; come Figlio di Dio, Egli lodava, benediceva e amava il Padre, e splendeva dell’eterna Luce. Aveva la maestà di Dio e la tenerezza della più soave dolcezza: immobile, con lo sguardo al cielo e le braccia aperte in un’espansione d’amore, aveva il sorriso della più profonda intimità con Dio, e nello stesso tempo lo sfiorava l’angustia delle nostre necessità; tutto questo costituiva uno spettacolo ineffabile per gli apostoli, benché essi non giungessero ancora ad apprezzarne il valore.
          È evidente che Gesù Cristo, assentendo alla supplica rivoltagli dal discepolo in nome di tutti, offrì una formula di preghiera che era l’eco della sua medesima orazione. San Luca non la riporta alla lettera e tralascia qualcuna delle domande, abbreviandola, forse perché conosciutissima e di uso comune, ma nella medesima formula più sintetica che ce ne dà c’è la sostanza di quella preghiera, e nella sintesi stessa il Signore vuole ammonirci che non ha voluto darci strettamente una formula esclusiva di preghiera, ma ha voluto tracciarci le linee direttive di tutte le nostre preghiere. Il Pater noster se può dirsi così –, è come bussola che orienta nella giusta direzione le nostre preghiere, e per questo la Chiesa ce lo fa recitare sempre al principio e al termine di tutte le ore canoniche, quasi per determinare innanzi a Dio il preciso significato e l’intenzione di tutte le sue petizioni.

Il Padre Nostro

          Padre, ecco il modo come l’anima deve orientarsi a Dio. Non deve considerarlo col terrore superstizioso che avevano i pagani della divinità, espresso a volte dalle stesse forme dei loro idoli né col timore servile dell’ebraismo di allora che aveva deviato dallo spirito dei patriarchi; doveva riguardarlo come Padre, quindi come Creatore di tutto e come proprio Creatore, provvido e amorosissimo.
          Il padre naturale dà la vita al figlio, amando, e la conserva amando, quando non è ridotto allo stato brutale dal vizio.
          Dio dà la vita attraverso un atto della sua volontà infinita che è Amore; e la conserva con la provvidenza che è amore; l’anima, dunque, prega, confessando la realtà di Dio, il suo Amore e la sua provvidenza, e confessandola in un atto di viva fede. Se non c’è questa fede che ci fa parlare a Dio come all’Essere infinitamente esistente, sapiente ed amante, se non si ha con Lui l’intimità filiale che viene dalla fede veramente e praticamente sentita e convinta, la preghiera non supera la nostra povera atmosfera e diventa più uno sfogo della propria impotenza che una fiduciosa domanda fatta a Dio.
          La vacuità di tante preghiere che facciamo sta proprio nella mancanza della fede vera in Dio. Molti, moltissimi, pregando hanno ancora lo spirito idolatrico; credono e non credono a Dio, lo ammettono e non lo ammettono, esitano nel loro cuore e, inconsciamente, vorrebbero metterlo alla prova, come può mettersi alla prova l’efficacia di una medicina.
          Padre, sia santificato il tuo nome. Ecco una seconda direttiva assolutamente necessaria alla nostra preghiera: considerare tutto alla luce della gloria di Dio e volere tutto secondo i fini della sua volontà. A volte noi giungiamo alla stoltezza somma di voler imporre le nostre vedute e i nostri interessi umani al Signore, e rimaniamo, quindi, inetti e impotenti, nell’ambito delle nostre povere forze. Quando l’anima crede veramente e apprezza Dio per quello che è, domanda in piena sottomissione alle esigenze della gloria di Lui che è diffusione di misericordia e di bene anche per noi.
          Come potrebbe aversi il calore del sole sottraendosi ai suoi raggi, e pretendendo di ridurli nell’ambito della propria meschinità? Il trionfo della luce del sole, e quindi la rimozione degli ostacoli che ne impediscono la diffusione, è anche il conseguimento pieno del nostro desiderio di calore vivificante.
          Nell’orazione bisogna, dunque, dare a Dio il posto che gli spetta, e desiderare la vita a ciò che è necessario alla vita, unicamente per la sua gloria e per il trionfo del suo amore in noi, nella pienezza del suo regno: Venga il tuo regno.
          Se si pondera veramente la meschinità delle nostre aspirazioni nella preghiera, volta tutta al compimento del nostro egoismo, e se si pensa che la massa del popolo ignora quasi completamente che cosa significhi amare Dio e desiderarne la gloria, non suscita più meraviglia che tante preghiere rimangano nella nostra povera cerchia, e sono inesaudite.
          Nel tracciarci la direttiva delle nostre preghiere, Gesù Cristo distingue nettamente le esigenze della vita dell’anima da quelle della vita del corpo nella nostra condizione naturale. Per questo il Pater noster ha due parti determinate; alla vita dell’anima è necessaria l’intimità filiale con Dio, per la grazia che la rende sua figlia: Padre. In questa semplice parola c’è la sintesi stupenda delle elevazioni dell’anima negli splendori della grazia che la restaura, la santifica e la eleva. L’intimità con Dio è amore nelle sue molteplici gradazioni e sfumature e questo amore si sintetizza tutto nel desiderio di glorificare Dio e di farlo regnare nella propria vita e in quella di tutti.
          Noi, quindi, domandiamo a Dio lo stato di grazia, l’amore verso di Lui, lo zelo per la sua gloria, la santificazione delle anime e il suo regno in tutte nel dominio soavissimo dell’amore. Tutte le grandi manifestazioni della vita della santità e della vita della Chiesa stanno in queste brevi e mirabili parole.
          Per la vita del corpo, ordinata a quella dello spirito, noi abbiamo bisogno dell’alimento e di tutto quello che serve all’ordine e alla missione temporale della medesima vita: Dacci oggi il nostro pane quotidiano; abbiamo bisogno della pace, bene assolutamente imprescindibile da una vita che non sia concepita, come si fa oggi, quale esasperante tramestio di prepotenze e di oppressioni.
          Ora la pace non è fuori dell’anima, e tanto meno può considerarsi come l’oppressione del più forte sul più debole; essa è tranquillità dell’ordine, e questa tranquillità viene dall’armonia della coscienza e da quella della carità: Rimetti a noi i nostri peccati, come noi li rimettiamo ad ogni nostro debitore. Siamo tutti miserabili, e nessuno può presumere di essere dappiù di un altro; ci confessiamo peccatori per avere il perdono e promettiamo perdono a quelli che ci fanno del torto. Così viene stroncato nella radice quello che disturba la pace.
          Grazia di Dio in noi e carità verso il prossimo sono due beni spirituali dai quali dipende la tranquilla prosperità temporale della vita; i peccatori non hanno mai bene; anche quando satana si sforza di farli apparire prosperati, e dove manca la generosa carità, manca la benedizione di Dio. Satana sfrutta la posizione di alcuni – molto pochi in realtà rispetto alle masse –, che, non essendo più capaci di beni eterni, raccolgono come tenue premio di qualche opera buona, i miseri beni temporali; egli li presenta come esseri felici nel male, ma è una menzogna anche in questi la pace, perché sono infelicissimi nel loro cuore ed è una menzogna maggiore il far credere o il supporre che il peccato porti la prosperità.
          No, la massa dei peccatori sta in mille tribolazioni, e la massa dei prepotenti è infelicissima, perché è stretta dai rimorsi e dalle angustie interiori che tolgono loro la pace. Che cosa sono i beni temporali senza la pace? E come si può avere pace senza il perdono di Dio e senza la grazia? Come poi si può avere la grazia e il perdono senza darlo a chi ci è debitore?
          Quando la nostra preghiera per i beni temporali non sta su queste direttive precise è una preghiera vana; quando cioè non si domanda ciò che serve alla vita, e non più, e non lo si domanda nell’armonia della grazia e della carità, la preghiera diventa vana, e a volte può farci credere, per illusione diabolica che produca anche l’effetto contrario. Quanti hanno l’anima piena di avidità, di odio, d’invidia e di peccati di ogni genere e domandano a Dio non ciò che serve al corpo per la vita dello spirito, ma ciò che serve al corpo per la vita materiale, e si lamentano, poi, di non essere esauditi!
          Quanti hanno peccati impuri che disordinano la vita, anche occultamente e senza che nessuno lo sappia, e si lamentano della miseria corporale che ne è immediata conseguenza! Quanti sono spietati nel giudicare e più spietati nell’inveire contro il prossimo, e pretendono da questa bolgia far risuonare la loro preghiera nei cieli, dove tutto è armonia soavissima di carità!
          La vita è una prova di pochi anni, nei quali dobbiamo meritarci, per la grazia di Dio, il premio eterno. Questa prova ci viene dalla condizione stessa nella quale viviamo e può venirci anche dalle insidie e dagli assalti di satana. C’è, dunque, un terzo elemento della nostra vita terrena: la difesa nei pericoli. Senza la difesa provvida che può venirci solo da Dio la vita dell’anima è travolta dalla colpa e la vita del corpo dalle sventure. Perciò Gesù Cristo ci fa domandare a Dio: Non ci indurre in tentazione, cioè non permettere che ci vinca la tentazione e, nel provarci, Tu donaci la forza di esserti fedeli, riducendo le prove a causa della nostra fragilità.

Condizioni per essere esauditi: perseveranza nel pregare e pieno abbandono alla bontà di Dio
          Gesù Cristo, a complemento della sua istruzione sulla preghiera, espresse in una parabola e in una analogia la necessità di perseverarvi e di abbandonarsi alla divina bontà. La parabola ha un significato profondissimo, pur sembrando, a primo aspetto che non possa applicarsi completamente alla relazione dell’anima con Dio: un uomo riceve a mezzanotte la visita di un amico che, viaggiando, gli domanda ospitalità.
          Gli Ebrei, quando era il tempo dei grandi calori, viaggiavano di notte, e quindi non c’è da meravigliarsi che questo pellegrino abbia domandato ospitalità a mezzanotte. Siccome in Palestina non si era soliti avere provviste di pane, cocendosene ogni giorno quel tanto che bastava, l’amico del viaggiatore se ne trovava sprovvisto e, per non mancare ai doveri di ospitalità, andò a domandarne in prestito ad un suo conoscente, e bussò alla sua porta. Ma l’altro gli rispose che era già a letto con i suoi figli, non voleva essere molestato, e non poteva alzarsi per non svegliarli dal sonno. L’amico non si perse di coraggio a quella repulsa, ma continuò a picchiare con tanta insistenza che l’altro, non tanto per amicizia quanto per toglierselo davanti, scese dal letto e gli diede i tre pani che domandava.
          Gesù Cristo soggiunse, subito dopo aver raccontato la parabola: Ed io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, poiché chi chiede riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Dunque quella parabola aveva questo senso principale: Insistere per ottenere, insistere con la fede di ottenere, insistere perché Dio vuole da noi questa insistenza per esaudirci.
          L’argomento generale di Gesù è dal meno al più: se l’amico che non voleva essere molestato e che non aveva la volontà di dare, finisce per assentire, se non all’amici-zia, almeno all’insistenza, quanto più Dio che vuol essere pregato e si diletta delle nostre insistenze filiali, ascolta ed esaudisce le nostre preghiere perseveranti.
          Dio non si annoia delle nostre suppliche, non può annoiarsi, ma per esaudirci vuol essere pregato con l’insistenza che si avrebbe fino ad annoiare un altro.
          Il Signore lo vuole per nostro bene, perché solo l’insistente preghiera ci addestra a parlargli filialmente e ci mette in comunicazione con Lui.
          Se fossimo ascoltati alla prima domanda, le nostre preghiere sarebbero insignificanti.
            Siamo come i motori che non si mettono in marcia se non vengono riscaldati dal medesimo movimento e abbiamo bisogno d’insistere nel domandare, per infiammarci il cuore e abituarlo a quello slancio d’amore che ci rende capaci di essere esauditi. Nella sua divina delicatezza, il Signore non vuole darci ciò che domandiamo per elemosina, ma richiede che la nostra insistenza sia come il contributo alla grazia che dobbiamo ricevere.      Noi chiediamo alla sua potenza, cerchiamo alla sua sapienza e bussiamo al suo amore. Chiedendo insistentemente, la sua potenza sostiene la nostra debolezza; cercando, la sua sapienza guida le nostre forze; bussando il suo amore ci apre le porte della misericordia e supplisce quelle che le nostre colpe demoliscono.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 20 luglio 2013

Marta e Maria

Commento al Vangelo della XVI Domenica TO 2013 C (Lc 10,38-42)
San Lorenzo da Brindisi

Marta e Maria
        Mentre Gesù andava verso Gerusalemme, sostò in un villaggio chiamato Betania, e si trattenne in casa di una famiglia a Lui devota, la famiglia di Lazzaro. Questi aveva due sorelle: Marta, forse la maggiore che si occupava principalmente delle faccende di casa, e Maria che comunemente s’identifica con la Maddalena, convertita già da Gesù. Marta, volendo fare gli onori di casa a Gesù, era tutta in faccende per preparare il desinare e, vedendo che la sorella stava ai piedi di Gesù, estasiata nell’ascoltarlo, ne fu contrariata e se ne lamentò col Signore.
        Le sembrò un egoismo quello di Maria e anche un’oziosità, quando c’erano tante cose da fare. In quel momento, per lei le cose spirituali non avevano alcun valore. Ma Gesù dolcemente la rimproverò, dicendole: Marta, Marta, tu ti affanni e ti turbi per molte cose. Eppure una sola cosa è necessaria. Maria ha eletto la parte migliore che non le sarà tolta.
        In queste parole, in apparenza così semplici, c’è tutta la valutazione della vita umana sulla terra, e un ammonimento agli uomini per il vano affannarsi intorno a ciò che passa. Quelle parole: Porro unum est necessarium, dovrebbero esserci scolpite nel cuore e diventare la regola delle nostre attività. I mondani, infatti, vivendo per questa terra soltanto, senza pensiero della vita eterna, credono non solo della massima importanza badare alle cose temporali, ma addirittura ozioso e vano occuparsi delle cose spirituali. Anche quelli che credono di avere una certa stima delle cose spirituali tengono in gran conto la vita attiva, e l’occuparsi soprattutto di soccorrere gl’infelici temporalmente, stimando inutile e vana la vita di preghiera e di contemplazione.
Eppure è perfettamente l’opposto.
        La vita naturale e ciò che ad essa si riferisce è solo un mezzo per quella spirituale, e la vita spiritualmente attiva è un frutto di quella contemplativa ed interiore; è stoltezza dimenticare l’anima e badare solo al corpo, ed è ugualmente sciocco darsi alle opere esterne di bene senza alimentarle con la vita interiore e con la preghiera.
        Se si pensa che tutto passa nella vita, chi può pensare o supporre che possa avere importanza ciò che finisce e possa valere nulla ciò che dura eternamente? Si può dire che tutto lo sconcerto della vita nostra è fondato proprio sulla poca o nessuna valutazione dei beni eterni e di ciò che ad essi ci conduce. La preghiera, la Messa, i Sacramenti, la Parola di Dio sono sempre l’ultima cosa per moltissimi uomini.
        Per i genitori, per esempio, la scuola ha un’importanza capitale per i figli, dovendoli avviare verso una qualunque professione, ma tante volte per essi non ha alcun peso la vita spirituale che deve avviarli alla vita eterna.
        Se una figlia deve sposarsi, tutto è poco: dote, corredo, spese di lusso, ma se deve farsi monaca tutto è esagerato. Non importa nulla che la figlia, sposandosi, se ne vada lontano; anzi si giudicano poco meno che isteriche le sue lacrime nel distacco; ma se, dandosi a Dio, deve per poco allontanarsi, quel dolore appare insopportabile e si cercano tutti i mezzi per impedirlo.
        Se un figlio deve affrontare i pericoli più gravi per una professione, non fa niente, ma se deve fare una piccola rinuncia per farsi sacerdote, sembra una pazzia.
        È una pena grande constatare questa incoscienza per ciò che è eterno, quasi che fossimo solo per questa vita e per questa terra. Gridiamolo al mondo che vorrebbe allettarci con le sue fantasmagorie: Porro unum, solo una cosa è necessaria; quello che è temporale ci viene tolto e quello che è eterno non ci viene mai sottratto. Chi si dà a Dio sceglie la parte migliore anche in riguardo alla vita presente, e questa non offre mai disinganni, ma è ricca di pace e di soddisfazioni incomparabili.

 

I valori veri della vita

        Si potrebbe obiettare: con questo criterio e con questa valutazione, finirebbe tutta la vita presente, e la civiltà con le sue opere non avrebbe ragion d’essere. Rispondiamo, ritorcendo l’argomento che col criterio del mondo praticamente finisce ogni vita spirituale, ciò che è accidentale, diventa sostanziale e la famosissima civiltà sbocca inesorabilmente nelle barbarie. Se non ci fosse tutta, diciamo tutta, la storia umana a dimostrarlo, e se ci fosse in questo una sola eccezione, diciamo una sola, si potrebbe anche tollerare l’illusione della civiltà senza spiritualità; ma, dolorosamente, si sa dove sono andati a finire e dove finiscono i grandi imperi. È conosciuta la barbarie spaventosa degli Egiziani, degli Assiri, dei Babilonesi, dei Romani, ed è contemporanea quella degli imperi moderni.
        Chi dissente da questo, nega l’evidenza, o crede civiltà l’assassinio, la sopraffazione, la corruzione dei costumi, il furto legalizzato, l’aborto, il divorzio, il meretricio, l’infanticidio, ecc.
        Come la corruzione dell’organismo si manifesta nei gonfiori, nelle posteme, nei tumori e, nella migliore ipotesi, nell’obesità, così la corruzione delle nazioni si manifesta nell’imperialismo che culmina nella morte.
        Oggi si gloriano dovunque dell’imperialismo ognuno per conto proprio, e non si pensa che questa elefantiasi dell’orgoglio è un prodromo della morte delle nazioni.
        Porro unum, una sola cosa è necessaria: vivere onestamente, cristianamente, santamente.
        Che ci sia o non ci sia il monumento grandioso è perfettamente accidentale; tanti paesi non li hanno e vivono meglio.
        Che ci siano o non ci siano letterati eminenti, è completamente accessorio, poiché garantiamo che, anche senza i poeti o i romanzieri, il mondo va per la sua via.
        Che in una città si possano sciorinare con più libertà i panni al sole e in un’altra no è più o meno accidentale all’ordine civico, ma è assurdo che non si possano spandere i panni e si possano mostrare spettacoli di degradazione morale che si tolga la spazzatura e si lasci il marciume impuro nelle vetrine che s’impedisca ad un’innocente capra di camminare per la strada supercivile, e vi si lasci camminare liberamente la donna corrotta e corruttrice.
         Non diciamo di ritornare a forme primitive di vita – il che peraltro sotto molti aspetti sarebbe anche desiderabile –, ma diciamo di ricordare che porro unum est necessarium, e che cercare le alte mete dello spirito è il sommo della vera civiltà, e la civiltà è vero progresso solo quando favorisce e aiuta l’indipendenza dello spirito dalla materia.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 13 luglio 2013

Amare Dio e il prossimo

Commento al Vangelo della XV Domenica TO 2013 C (Lc 25,37)
San Camillo de Lellis

Amare Dio e il prossimo
        Un dottore della Legge che seguiva Gesù per scrutarlo, e forse per vigilarlo, ascoltando le sue allusioni al compimento della speranza dei re e dei profeti e alla beatitudine di quelli che vi prendevano parte, volle metterlo alla prova, cioè con una domanda schiettamente spirituale. Egli volle vedere quali nuove teorie avesse insegnato in contrasto con le antiche. Il momento psicologico, diciamo così, del dottore fu questo: Gesù parlava del compimento del regno messianico, ma non diceva esplicitamente in quel momento che il Messia era Lui; il dottore volle scrutare quale fosse il suo preciso pensiero e domandò che cosa dovesse fare per possedere la vita eterna, per dissimulare la sua intenzione di scrutarlo e per vedere, dopo questa prima domanda, quale nuova concezione Egli avesse del regno trionfante d’Israele e in qual modo se ne dichiarasse propagatore.
        Il dottore domandò: Maestro che devo fare per possedere la vita eterna? Si aspettava da Gesù una nuova esposizione di vie peregrine di salvezza e si aspettava che gli dicesse: «Devi credere in me, devi seguirmi, devi servirmi». Le parole di Gesù – ripetiamolo per maggior chiarezza –, che alludevano a nuove rivelazioni fatte ai piccoli, alla conoscenza del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre e alla beatitudine di chi assisteva al compimento delle antiche promesse, figure e profezie, gli erano sembrate estremamente presuntuose, e sperò, con questa domanda sulla vita eterna, di metterlo alla prova, cioè alle strette, fargli confessare il suo pensiero, e poi costringerlo a riconoscerne la falsità, secondo lui.
        Gesù, però, non era venuto per distruggere la Legge ma per compierla e, invece di annunciare cose nuove, domandò Egli stesso al dottore che cosa stesse scritto nella Legge, rimandandolo così, per la risposta, a quello che Dio aveva già detto, e soggiunse: Come vi leggi tu? Che cosa cioè vi sta scritto su questa questione fondamentale, e come intendi ed interpreti la Parola di Dio? Il dottore rispose, citando quel precetto della Legge che gli Ebrei solevano recitare mattina e sera e che conoscevano benissimo: Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso (Lv 19,18). Gesù gli soggiunse: Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai.

La parabola del Samaritano
        Il dottore si sentì umiliato d’avergli domandato una cosa di così facile soluzione e se ne sentì umiliato soprattutto innanzi al popolo che in quel momento avrebbe potuto tacciarlo d’ignoranza; perciò volle giustificare la sua domanda, dando ad intendere che aveva fatto quell’inter-rogazione per sapere chi era il suo prossimo, cioè verso chi avrebbe dovuto esercitare la carità. È evidente dal contesto che egli, rimasto confuso nel dover rispondere una cosa elementare, cambiò discorso con una nuova domanda che, in realtà, non aveva inteso fare nella sua prima interrogazione.
        Gesù Cristo gli rispose con una parabola che probabilmente era un fatto realmente avvenuto in quei giorni: un uomo israelita, recandosi da Gerusalemme a Gerico, s’imbatté nei ladri. La strada che doveva fare era di circa 28 chilometri, e attraversava un deserto che anche oggi è infestato dai ladri; quindi non fu un caso straordinario per lui quella triste avventura. I ladri non solo lo spogliarono di tutto, ma lo percossero e lo ferirono, lasciandolo mezzo morto per terra.
        Un sacerdote che veniva anch’egli da Gerusalemme dopo aver prestato servizio al tempio, vide quell’infelice così malconcio, e passò oltre, senza averne pietà. Non volle assumersi una responsabilità né prendersi fastidi per uno a lui sconosciuto, dimenticando che, come ministro di Dio, avrebbe dovuto usargli carità. Lo stesso fece anche un levita: si fermò un po’ per curiosità, forse poté avere anche qualche parola di commiserazione, ma poi andò oltre.
        Passò, poi, un Samaritano che viaggiava dice il Testo –; quindi può supporsi che andava per affari e, ciononostante, sostò vicino al ferito, ne fasciò le piaghe, versandogli sopra, per lenirne il bruciore, vino ed olio, come solevano fare gli antichi; lo adagiò sul suo giumento e lo condusse all’albergo pubblico che doveva trovarsi ai confini di Gerico per comodo dei pellegrini.
        In quel ricovero stette anch’egli durante la notte e prese personalmente cura del ferito; poi, dovendo partire il giorno seguente, lo lasciò affidato alle cure dell’oste, pagandogli due denari, e promettendogli di dargli, al ritorno, tutto quello che avrebbe potuto spendere in più. Gesù soggiunse, rivolto al dottore della Legge: Chi di questi tre ti sembra essere stato prossimo per colui che s’imbatté nei ladroni? E quegli rispose: Colui che gli usò misericordia. Replicò Gesù: Va’ e fa’ anche tu lo stesso.
        Il Redentore volle dare una lezione delicata al dottore della legge.
        I Samaritani erano odiati dagli Ebrei, e li ripagavano di pari avversione; eppure un Samaritano curò un ebreo; avrebbe fatto lo stesso un ebreo per un Samaritano?
        Certamente no, perché né un sacerdote né un levita sentirono pietà di un loro connazionale, pur avendo cura delle anime per il loro sacro ministero.
        È prossimo dunque a chi soffre chi gli usa pietà e lo aiuta, ed è, di conseguenza, prossimo a chi sta bene qualunque uomo che soffra, senza distinzione di nazionalità, di razze o di religione. Il dolore stabilisce una santa fratellanza tra gli uomini: quella della scambievole carità, e poiché il dolore regna sovrano nell’esilio, è necessario abbattere le barriere delle divisioni sociali e darci tutti l’abbraccio della carità che è il più saldo legame di pace tra le nazioni.
        Noi viviamo in tempi ipocriti e crudeli, nei quali si abbonda di parole, di assistenza sociale e di iniziative per praticarla, ma si manca di carità perché l’assistenza diventa burocrazia, e si limita a pochi privilegiati dagli intrighi e dalle influenze, lasciando nello squallore quelli che veramente soffrono, e disprezzando quelli che si considerano estranei.
        L’assistenza praticamente è una burla, sia pure involontaria, perché manca della base vera della carità, ispirata dall’amore di Dio. Se non si ama il Signore, non si fa la carità per Lui e sotto l’impulso della sua grazia; non si vede la ragione per la quale si deve beneficare il prossimo, perché, non guardandolo in Dio, il prossimo, in realtà, ci è estraneo, e può esserci anche avversario.
        Oh, se il mondo, invece di perdere tempo in vane iniziative naturali per diminuire i dolori umani, amasse Dio e facesse venire dall’alto la vivificante rugiada della carità! Oh, se gli uomini si persuadessero che ogni iniziativa ispirata a vedute di civiltà e non a Dio è inesorabilmente destinata ad essere divorata dalla frode e dall’egoismo!
        Le opere di assistenza si moltiplicano a basi fiscali e non a base di amorosa carità, e praticamente danno un frutto estremamente meschino, e a volte anche opposto alle loro finalità, perché divorate dai succhioni e dai malversatori.
        La terra ha il sole come luce dei suoi giorni, e la luna come splendore delle sue notti; la nostra vita ha come sole l’amore a Dio, e come luna nella notte delle sventure l’amore al prossimo, riflesso dell’amore a Dio. Non si può concepire una vita diversa né si può pretendere che la pace e il benessere spirituale, corporale ed eterno possa venire da altre fonti. Non c’è alcun surrogato dell’amore di Dio, e dov’esso manca c’è la desolazione e la notte di una morte perenne.
        L’umanità e le nazioni hanno fatto mille esperimenti più o meno cervellotici per raggiungere un grado soddisfacente di benessere nella vita, ma non hanno fatto ancora il pieno esperimento di convertirsi veramente a Dio, amandolo con tutto il cuore e glorificandolo con tutte le attività della propria vita.
        Sorga, o Signore, sulla nostra valle desolata questo sole fulgente, si accenda nei cuori un amore vero e profondo a te, e fiorirà tra gli uomini la carità e la pace, il benessere temporale ed eterno.
        Devi venire Tu, o Gesù a sanarci, e Tu non puoi venire se l’amor nostro non ti chiama.
        Tu sei il pietoso Samaritano che sei venuto a sanarci, redimendoci, e ci hai condotti nella tua Chiesa per farci trovare la salvezza, e Tu puoi oggi venire sul nostro cammino, risanare le nostre piaghe e ridonarci la vita nella tua Chiesa.
         Tu hai pagato una volta il prezzo del nostro riscatto, e Tu ce lo applichi continuamente per sottrarci alle ferite della nostra corrotta natura, Tu, dunque, puoi ancora salvarci, solo che noi ti amiamo veramente e ti attestiamo l’amore con una vita santa, perfettamente cristiana e pienamente conforme alle disposizioni della tua adorabile volontà.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 6 luglio 2013

Gesù istruisce i settantadue discepoli


Gesù istruisce i settantadue discepoli
        Avvicinandosi il termine della sua missione, Gesù Cristo volle moltiplicare i ministri della sua parola per divulgarla in tutta la Palestina con maggiore sollecitudine, ed elesse settantadue discepoli, ai quali diede speciali facoltà. Essi non erano al medesimo grado degli apostoli, ma immediatamente inferiori, e poiché gli apostoli erano i primi vescovi del mondo, con a capo san Pietro, i discepoli eletti ne erano come i sacerdoti. La gerarchia così cominciò a formarsi sotto la direzione di Gesù stesso: Lui, Capo di tutti, san Pietro capo degli apostoli e suo vicario per essi e per la Chiesa, i settantadue discepoli cooperatori immediati suoi e degli apostoli. Egli li mandò, infatti, in ogni città dove stava per andare, per preparare le anime alla sua venuta, e li dispose a questa missione con salutari precetti.
        Prima di tutto ispirò loro la sollecitudine per le anime, dicendo: La messe è molta e gli operai sono pochi. Essi erano pochi e le anime da curare moltissime, quasi messe che doveva raccogliersi; dovevano perciò avere una grande sollecitudine nel lavorare e non preoccuparsi delle loro comodità. Erano pochi, e perché Gesù non ne aveva eletti di più? Perché la vocazione e l’attitudine ad una missione soprannaturale sono frutto di grazie che non tutti accettano e, per riceverle e corrispondervi, bisogna pregare intensamente.
        È il Signore che manda gli operai nella sua vigna, e Gesù stesso elesse gli apostoli e i discepoli dopo lunghe preghiere al Padre. La preghiera è nelle nostre mani come la nostra onnipotenza, e Dio ce ne rende capaci e la richiede perché anche noi cooperiamo alle grandi opere del suo amore. Egli potrebbe formare anche dalle pietre i figli di Abramo, ma vuole che noi cooperiamo sia all’elezione di quelli che debbono essere ministri della loro formazione, sia alla loro salvezza. Questa grande legge d’amore e di fecondità ci mostra quanto Dio ci ami, e quanto delicatamente rispetti la nostra libertà e la grande dignità che Egli ci ha dato.

Come agnelli fra i lupi
        I discepoli eletti dovevano andare a predicare la divina Parola non solo per salvare le anime, ma anche per suscitare in esse i continuatori dell’opera loro; per ottenere questo, dovevano pregare Dio a moltiplicare la vocazione dei suoi ministri futuri. La Chiesa, infatti, doveva essere tutta un campo di apostolato e in essa doveva esserci, più che nelle nazioni, il problema demografico spirituale, per così dire. Non si poteva in essa fare un’opera santa e lasciarla come un frutto maturo; era necessario farla germinare e continuare, e quindi preoccuparsi di ottenere da Dio chi avesse potuto continuarla.
        A che servirebbe seminare un campo e ricavarne il frutto senza la semente? Le anime conquistate alla fede sono i frutti della vigna di Dio, i sacerdoti ne sono come le sementi, poiché essi fanno germinare continuamente, con l’aiuto di Dio, le nuove piante.
        La messe cresce non per la potenza dell’agricoltore, ma per la feracità che Dio ha dato alla terra; però, se l’agricoltore non la coltiva e non la raccoglie, essa marcisce; ora andare in nome di Dio a seminare la divina Parola nelle anime comportava anche il preoccuparsi di conservarne e moltiplicarne il frutto, e perciò Gesù, rivolgendosi non solo ai discepoli, ma alla Chiesa di tutti i secoli, disse: Pregate il padrone della messe che mandi operai per la sua messe.
        Gesù mandando i suoi discepoli, fece ponderare loro la grande difficoltà del loro ministero, dicendo: Andate, io vi mando come agnelli fra i lupi. Essi non andavano a fare una raccolta pacifica come chi con la falce taglia i covoni del grano: andavano di fronte ad anime colme di miserie e agitate da passioni. Essi dovevano vincere le loro resistenze non affrontandole con la violenza ma conquidendole con la mansuetudine e la bontà.
        Questo è un carattere fondamentale e costante nell’apostolato della Chiesa; qualunque deviazione in questo campo produce solo rovina nelle anime.
        È l’esperienza quotidiana che lo conferma, ed è mirabile che la Chiesa vi sia stata sempre fedele nei suoi grandi e santi ministri dell’apostolato e della gerarchia.
        Le anime traviate hanno in sé veramente qualche cosa di feroce e di terribile, e il rassomigliarle ai lupi è precisissimo: sono indomabili, avide, aggressive, prepotenti, violente e spesso hanno a loro disposizione i mezzi materiali per resistere anche a mano armata e per spingersi alle più violente aggressioni.
        Così avvenne nella nazione ebraica, così in quelle pagane, quando cominciò a propagarsi il cristianesimo, e così nelle nazioni moderne più o meno apostate da Dio, e tante volte più barbare, feroci e aggressive di quelle pagane.
        La Chiesa non conosce per esse l’irruenza e la forza, anche a costo di apparire sopraffatta o vinta, anche a costo di alienarsi l’animo di quelli che amerebbero vedere in lei i colpi di forza.
        Essa contrasta diametralmente con le generazioni moderne, abituate dalla tenera età alla violenza; rimane fedele al precetto fondamentale e, diremmo, costituzionale del suo divino Fondatore, e avanza sempre come agnella tra i lupi.
        È poi, una gloria della Chiesa la pacata e solenne voce del Papa nei momenti più tragici internazionali, e la serena oggettività della diplomazia vaticana. Il mondo, di fronte a lei, è certamente un lupo, e un lupo rapace e sanguinario, ma è un dato di fatto che, alla fine, rimane sempre vinto dalla mansueta e dignitosa calma della Chiesa.

Per i missionari, povertà, semplicità,

fiducia nella provvidenza

        Dopo aver determinato con una parola sinteticamente divina la natura della missione dei discepoli, e quindi della Chiesa, Gesù Cristo fa loro delle raccomandazioni riguardanti l’atteggiamento che dovevano avere nella scelta dei mezzi d’azione. Egli esemplifica secondo la mentalità che avevano i discepoli, e in fondo vuole che essi prescindano da tutto ciò che è prestigio umano o speranza nelle proprie forze: Non portate né sacca né bisaccia né calzari, e per la strada non salutate nessuno, cioè non andate in giro come mercanti o come viaggiatori di ventura, provvisti di bagaglio né vi soffermate a chiacchierare con gli altri come chi va a diporto; andare poveramente, raccolti e silenziosi, come chi sa di andare a compiere una missione sacra.
        I discepoli avevano ancora una semplicità primitiva, e Gesù dice loro, con esempi, di non portare nulla di superfluo, com’è evidente dal contesto né oggetti di ricambio, affidandosi completamente alla provvidenza. È chiaro che essi potevano portare quello che avevano addosso come uso personale, e che potevano salutare per carità o per cortesia, senza attaccare ciarle inutili, quelli che avrebbero incontrati.
        Se si mette a confronto il modo povero col quale i missionari cattolici intraprendono i loro viaggi e quello ricercato dei propagandisti settari, si capisce anche meglio il senso profondo delle esortazioni del Signore. Il missionario viaggia come un poverello e porta con sé il tesoro delle divine ricchezze. Gli altri viaggiano da gran signori e portano con sé il misero bagaglio dei loro errori e della loro avversione alla Chiesa. Viaggiano come turisti, portano con sé mogli e figli, ricercano tutte le comodità della vita; questo solo dovrebbe bastare a distinguerli dai veri messaggeri della verità e del Vangelo.
        Gesù Cristo vuole che i suoi discepoli vadano come apportatori di pace e con un programma di bontà. Essi, infatti, vanno a salvare le anime, a riconciliarle con Dio e a ridonare loro la pace della coscienza. Tutto il ministero sacro si risolve in una questione di pace, e il suo frutto è frutto di pace. Chi lo rifiuta, rifiuta la pace, e questa, logicamente, ritorna al banditore della verità, il quale può rimanere tranquillo di aver fatto il suo dovere, e contento di averne avuto il merito.
        L’espressione di Gesù, un po’ oscura in apparenza, è invece profondissima e psicologica: chi compie una missione naturale e col fine della gloria o del vantaggio temporale, cerca, logicamente, di riuscirvi, e si accora, o addirittura si dispera dell’insuccesso. Tutto quello che dà o tutto quello che compie è perduto quando non raggiunge il fine che si è proposto; egli allora, benché senza sua colpa, sa di meritare solo una nota di biasimo e si riguarda come un fallito.
        Nel ministero sacro, invece, non è così: chi vi lavora, lo fa principalmente per la gloria di Dio, e conseguentemente per la salvezza delle anime. Il suo lavoro di pace diventa frutto salutare per quelle che ne profittano, e rimane in loro. Se esse non ne fanno conto e lo rifiutano, il lavoro non è perduto, perché rimane come merito in chi lo compie, e si può dire veramente che ritorna a lui. Egli non è un fallito né ha motivo di riguardarsi come un inutile ingombro nella casa di Dio: voleva principalmente lavorare per Lui, e l’ha glorificato; voleva obbedire al mandato avuto, e l’ha compiuto, per quanto era nelle sue possibilità; voleva anche, legittimamente, guadagnarsi un merito per la vita eterna, e l’ha guadagnato; non gli rimane, dunque che rimanere nella pace, pur accorandosi della ripulsa avuta dalle anime che avrebbe voluto salvare.
        Il ministro della divina Parola, di conseguenza, deve avere sempre e costantemente il pensiero e il desiderio di glorificare Dio nel suo apostolato, se non vuole perdere tempo; né deve agitarsi dell’insuccesso pratico in certe anime, contentandosi di pregare intensamente per loro, affinché la misericordia di Dio le conquida e le salvi.
        Le anime oppongono mille ostacoli e difficoltà alla loro salvezza, e illuminarle o rinnovarle è un problema veramente arduo, e una lotta veramente epica. L’orgoglio le spinge a resistere all’invito della grazia, l’ignoranza ostinata o la mala fede le rende illogicamente resistenti; le fisime personali – e ne hanno tante –, le rende a volte imprendibili. Se si parla loro quando sono prese da un impeto di passione, in qualunque campo, e soprattutto in quello dell’impurità o dell’ira, sono irriducibili, e giungono fino alla resistenza violenta; se si vuole indurre in loro il desiderio di un atto di perfezione, vi ripugnano in tutti i modi quando non coincide con le loro inclinazioni. Hanno a volte l’intelletto deviato da uno squilibrio e non ammettono ragioni, la volontà pietrificata in un’aspirazione falsa e non tollerano contraddizioni, il cuore impigliato in una rete d’inganni e non vogliono esserne districate; sono schiave e vogliono rimanere tali. Allora la premura per salvarle le urta, l’insistenza le adira, la bontà sembra loro peggiore dell’inimicizia, disprezzano tutto quello che si fa per loro e fuggono dalle vie della salvezza.
        In questi combattimenti ardui che sarebbero capaci di consumare l’anima e il corpo di un ministro di Dio o di uno dedicato all’apostolato, la parola di Gesù è di sommo conforto: quello che si fa non si perde, anzi, nell’economia della grazia, ritorna a chi opera il bene; ritorna, nel più stretto senso, come esperienza, come spinta ad una maggiore vigilanza su di sé, come incitamento maggiore a pregare, a mortificarsi, a vincersi, e anche a ritentare la prova; ritorna come un’attività più preparata per altre anime da evangelizzare.
I discepoli ritornano dalla loro missione
        Il Sacro Testo non ci dice nulla di quello che fecero i discepoli nella loro missione, accenna solo alla loro gioia nell’aver constatato la potenza del Nome di Gesù, innanzi al quale anche i demoni avevano tremato.
        Essi ne parlarono al Maestro divino con esultanza, credendo di annunciargli una cosa a lui sconosciuta, ma Egli mostrò di averli seguiti con la sua onniscienza, e soggiunse: Vedevo satana cadere dal cielo come folgore, cioè quando voi l’avete cacciato, l’ho visto scosso dalla sua tenebrosa potenza e inabissarsi come folgore. Satana precipitò come folgore dal cielo quando miseramente cadde dal suo splendore, ma nel suo spaventoso orgoglio pretende ancora di elevarsi e si serve delle sue potenze naturali per affermare la sua pretesa grandezza.
        Quanti fenomeni, che noi crediamo puramente naturali, sono provocati o intensificati da lui, per tentare di nuocere corporalmente all’uomo con i disastri e i cataclismi, e spiritualmente attanagliandolo di più alla materia! Noi ridiamo di quei nostri vecchi antichi che in tante scoperte e invenzioni moderne, vedevano la turpe mano di satana, eppure essi potevano anche avere ragione.
        Un grande scrittore moderno francese, e per di più, a sua vergogna miscredente, ha detto: «Solo una mente superficiale può non accorgersi del tremendo lavoro di satana in tutte le scoperte moderne, per sottrarre l’uomo alla vita dello spirito».
        L’umanità è sempre più avvinta dalla materia, ed è tanto assediata da satana per molte delle scoperte moderne che non si riesce più a vedere come possa rompere questi fili d’acciaio spinato, e riconquistare la libertà dello spirito. La nostra spaventosa superficialità non ce lo fa considerare: cinema, radio, televisione, macchine formidabili, aeroplani, ecc., sono – o per lo meno possono essere –, nei fini di satana, mezzi di materializzazione dell’uomo.
        All’idolatria, data ai popoli semplici e primitivi come mezzo per inclinarli alla materia, satana sostituisce le potenti manifestazioni della materia. La potenza che illusoriamente faceva supporre nell’idolo, per impressionare l’uomo e indurlo all’adorazione della materia, ora la manifesta nelle applicazioni della materia, e induce i popoli progrediti a tale scellerata idolatria da ottenere, come in Russia, templi elevati alla macchina, al motore, ecc. Satana, in questi suoi effimeri trionfi, ha illusione di stare in alto, nel nostro cielo terreno, quasi da dominatore e, ogni volta che è vinto dallo spirito e dalla grazia, egli cade come folgore, perché la sua supposta potenza è come scarica elettrica che s’inabissa nella terra al contatto dell’altro polo.
        Se si pensa che l’elettricità è il segreto di tante scoperte per lo meno sfruttate da satana contro Dio, si capisce anche di più perché Gesù Cristo ha paragonato lo spirito maligno alla folgore; satana simula quasi lo spirito attraverso l’elettricità, e induce negli uomini l’idea letale, ultra materialistica che le manifestazioni spirituali e divine siano effetti dell’elettricità; in tal modo è riuscito a ridurre tanti uomini e tanti falsi scienziati nella più bassa e degradante idolatria.
         Bisogna essere sommamente vigilanti e attaccarsi scrupolosamente alla Chiesa in questi tempi, per non deviare dal giusto cammino; anche se satana dovesse farci temere di essere retrogradi, anche se, per ipotesi, dovessimo errare in un ritrovato della scienza e rifiutare una sua indagine o scoperta, è mille volte più importante salvaguardare in noi il sacro deposito delle verità eterne che una qualunque verità naturale, perché le verità eterne ci inducono a Dio, e alla gloria immortale, mentre le verità naturali ci conducono, tutt’al più, ad una sterile speculazione o ad una povera applicazione che è travolta dal tempo e che un giorno sarà consunta dal fuoco.
Don Dolindo Ruotolo