sabato 30 marzo 2013

Maria Maddalena al Sepolcro

Commento al Vangelo – Risurrezione del Signore 2013 (Gv 20,1-9)

Maria Maddalena al sepolcro
          Il primo giorno dopo il sabato, cioè la domenica, Maria Maddalena si recò al sepolcro all’alba mentre era ancora buio. Era partita da casa sua o dal luogo dov’erano chiusi gli apostoli, che era quasi notte ancora e non era sola ma accompagnata dalle pie donne (cf Mt 28,1; Mc 16,1-2; Lc 24,1) con le quali giunse al sepolcro allo spuntare del sole (cf Mc 16,2). San Giovanni nomina solo Maria Maddalena, sia perché completa le narrazioni dei Sinottici, e sia perché ella, più ardente di tutte, prese l’iniziativa e raccolse le altre donne. Ella, poi, fu quella che corse per prima ad avvisare Pietro e Giovanni dello stato in cui aveva trovato la tomba.
          Mentre le donne camminavano, avvenne la risurrezione, ed esse avvertirono il terremoto che la seguì allorché l’angelo discendendo dal cielo, rovesciò la pietra. Maria Maddalena, nel vedere da lontano il sepolcro aperto, ben lungi com’era dal credere alla risurrezione, suppose che avessero rubato il Corpo di Gesù, e corse per avvertirne gli apostoli più rappresentativi, Pietro e Giovanni; le altre pie donne giunsero fino alla tomba ed ebbero la visione degli angeli; Maria Maddalena, poi, tornò di nuovo sola al sepolcro per tentare di rintracciare il sacro Corpo. Non sapeva credere che fosse risorto, e non sapeva rassegnarsi che l’avessero rubato; voleva ad ogni costo rendergli gli ultimi attestati di venerazione ed era desolata di non poterlo fare. Ella, che era stata più vicina al Signore nella Passione, aveva constatato l’odio dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei e, appena vide la pietra del sepolcro ribaltata, pensò che avessero voluto fare al suo Signore l’ultimo oltraggio, e corse per vedere che cosa si fosse potuto fare per impedirlo o ripararlo.
          Camminava mentre era ancora buio, ed era buio principalmente nell’anima sua poiché non credeva ancora. Eppure proprio quando ella credeva di andare a visitare e imbalsamare un morto, questo si ridestava dal suo sonno, sorgeva trionfante, attraversava il masso sepolcrale e inalberava il vessillo del suo trionfo sulla morte! Se non fosse stato buio nell’anima sua, Maria Maddalena avrebbe forse avuto la grazia di assistere al momento stesso della risurrezione, e avrebbe subito visto il Signore; ma la sua povera fede non sapeva andare di là dal sepolcro, e logicamente non vide altro che la tomba e, per di più, la tomba vuota. Credé definitivamente morto il Signore e, dimentica delle parole di Lui, non seppe pensare a Lui che come ad un cadavere. Oh, se avesse avuto un po’ di fede, come avrebbe gioito nel vedere la pietra rovesciata, pensando che il Signore era risorto! Con quale impetuosa gioia sarebbe corsa dagli apostoli per darne loro l’annuncio!
          Gesù non era più un cadavere: era risorto all’alba del terzo giorno, compiendo la sua promessa con sollecita e pronta precisione. Compì per la divina sua virtù che era anche virtù del Padre e dello Spirito Santo, quello che, nell’ordine naturale delle forze umane, sarebbe stato impossibile. Per questo si poté dire che Egli era risorto per virtù propria dalla tomba che il Padre l’aveva risuscitato da morte che Dio l’aveva fatto ritornare in vita. Sono espressioni che, lungi dal generare confusione, si equivalgono, e mostrano che per divina potenza il Corpo piagato, trafitto, morto e sepolto, poté muoversi, riprendere l’anima e risorgere, primizia gloriosa di tutti i morti che dovranno risorgere.

La preghiera della Madonna
affrettò la risurrezione di Gesù
          Il momento fu solenne, e nessuno all’infuori degli angeli ne fu spettatore. Crediamo fermamente che ne fu spettatrice anche Maria Santissima; benché lontana col corpo, l’anima sua era rimasta come chiusa nella tomba, in profonda adorazione. Era mesta, profondamente mesta, e a Lei che apprezzava più d’ogni creatura Colui che era la Vita, doveva produrre immenso dolore pensare che era stato ghermito dalla morte. Sapeva che doveva risorgere, lo credeva, lo sperava, e affrettava quel momento con la sua preghiera. Ella sapeva che, con la sua preghiera, aveva affrettato il momento dell’Incarnazione; sapeva che il Figlio suo nulla le negava, e pregava. Si può dire che Gesù non volle ritornare alla vita senza Maria, per un atto di divina deferenza, poiché Maria gli aveva dato la vita temporale. Attese il comando del Padre, alla cui volontà era tutto dedito, e attese il comando supplichevole della Madre, alla cui volontà era stato sempre sottomesso. Non aveva mutato nulla in questa provvidenza di sottomessa obbedienza.
          Maria pregava, pregava; avrebbe quasi voluto raccogliere, nel suo seno benedetto, quel Corpo piagato e inerte, e ridargli la vita; sentiva ancora in sé, come grazia sovrabbondante, quella virtù dello Spirito Santo che l’aveva resa Madre nel verginale candore, e avrebbe voluto, per la seconda, volta circondare l’uomo e vivificarlo.
          Maria pregava. La sua onnipotenza era la preghiera, lo sapeva per esperienza, benché fosse immersa nelle tenebre del dolore, sperava la luce immortale e pregava.
          L’anima divina di Gesù le era vicino e pregava anch’essa, poiché, più della stessa anima immacolata di Maria, conosceva l’onnipotenza della preghiera.
          Pregavano, e nell’atto di quelle due potenti preghiere avveniva in grande quel che avviene in piccolo in ogni preghiera: l’endosmosi del divino nell’umano, e l’esosmosi dell’umano nel divino. È una frase ardita ma è verità. L’anima, pregando, si dilata in Dio; umiliandosi perché prega, diventa capace della grazia, la cui misura di capacità in noi sta proprio nell’umiltà, nella piccolezza e nella semplicità. È come la porosità dello spirito immerso nell’immensità di Dio, e subito la virtù del Signore lo pervade, lo penetra, lo arricchisce, lo colma, lo attiva. L’anima si sente ripiena di virtù di Dio e più si umilia e s’impiccolisce, accrescendo così la propria misura di capacità soprannaturale; s’umilia e fluiscono, per così dire, in Dio e verso Dio le proprie deficienze, le proprie miserie, le proprie necessità, esosmosi mirabile che porta in Dio la nullità perché sia colma di Dio, e porta Dio nella nullità perché la ricolmi.

Gesù risorge da morte!

          Maria pregava, e l’Anima divina di Gesù, allo scoccare del momento stabilito da Dio, affrettato dalla preghiera fino al semplice apparire del terzo giorno, presa da Lei, sua Madre, quasi l’obbedienza, perché nulla voleva e volle fare senza di Lei, andò veloce come scoccar di folgore al sepolcro e, ripassando per i luoghi della Passione, accolse nuovamente il Sangue che v’era sparso. Anche quel Sangue era divino, e sentì l’attrazione della divina virtù che lo chiamava, perché fosse tornato vivificato nelle vuote vene del Corpo divino. Fu un momento, un grandioso momento, poiché la divina onnipotenza non ha bisogno di tempo per agire: l’Anima penetrò nella tomba, rivide il Corpo che le apparteneva con tanto diritto, l’amò, l’amò con fiamma infinita, perché l’amò con l’infinito vivificante Amore. L’amò e, nell’amarlo, lo ricompose per la divina virtù che era in Lei. In un attimo le membra martoriate si ricomposero, il Sangue riprese il suo posto, e il Cuore, pur squarciato, diventò atto alla vita.
          Gli angeli, tremanti di gioia, adoravano.
          La tomba era avvolta dal brumoso silenzio dell’alba, vigilata dall’annoiata presenza della guardia stupita di dover custodire un morto, ignara di custodire come picchetto d’onore la Vita che risorgeva. La terra sembrava cantare in sordina, essa pure, un inno di vita, poiché silenziosamente erompevano qua e là dai rami ancora stecchiti le nuove gemme, ombra di risurrezione, stentata risurrezione dopo l’inerzia invernale.
          La morte ristette scarna e confusa… la sua falce cadeva vinta; non poteva mantenere più fra gli adunchi artigli il covone reciso, tremava come ombra cupa innanzi al fulgore che la ricacciava per sempre.
          Le pareti della taverna che stillavano come gocce di pianto l’umido delle tenebre, sembrarono imperlate di gemme, stillavano gioia, sentivano la vita e risuonavano già dell’inno trionfale della risurrezione.
          L’Anima di Gesù si avvicinò al Corpo, e quasi nube lucente, sparì penetrando le funebri bende.
          Fu un momento.
          Si animò il cerebro, pulsò il Cuore, quasi affannando d’amore per l’aperta ferita, rigurgitò il Sangue nelle vene, deviando alle ferite delle mani e dei piedi che rimasero come gemme gloriose del trionfo sul peccato. I nervi, come percossi da una corrente potente, si ridestarono riunendo i muscoli; la pelle si ricompose rosea e fresca, profumata non di mirra e di aloe, ma di balsamico amore. Quel Corpo era vivo, più vivo di prima, senza il peso inceppante della materia, vero corpo ma fluido quasi come luce, come fuoco, come onda d’amore. Gli occhi splendenti si aprirono alla luce eterna, e quella vita mirabile fu tutta un inno di adorazione e di ringraziamento al Padre, fu tutta una freschezza di gioia, di nuova giovinezza, di pace.
          Il Corpo divino sgusciò dalle bende senza bisogno di svolgerle, si alzò bellissimo, vestito di splendore, attraversò il masso, uscì alla luce, riguardò la caverna ancora chiusa dai suggelli, sorrise trionfante, poiché aveva dissigillato per sempre la morte e l’aveva vinta.
          La verità ha trionfato della menzogna. E gli angeli cantano assisi sul masso rivoltato: Alleluia, alleluia, alleluia. O figli e figlie degli uomini, il Re celeste, il Re della gloria è oggi risorto da morte. Alleluia! Alleluia la pietra è rovesciata, i suggelli sono rotti, spezzato è il vincolo della morte. Alleluia!… Ed io, prostrato, faccio eco al loro inno trionfale esclamando: È risorto Gesù mia speranza, Egli mi precede nel Cielo. O Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Alleluia!

Avvisati da Maria Maddalena, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro
          Maria Maddalena giunse al sepolcro proprio in questo momento; ma era buio nell’anima sua, credeva di andare da un morto, non pensò che il masso fosse stato rovesciato dal Vivente risuscitato, si spaventò, e corse a dare la notizia dell’accaduto come lo vedeva e lo capiva lei, a Pietro e a Giovanni: Hanno portato via dal sepolcro il Signore, e non sappiamo dove l’abbiano messo.
          I due apostoli s’incamminarono al sepolcro, per constatare ciò che aveva detto Maria Maddalena e, poiché presero una via diversa da quella delle pie donne, non le incontrarono quando esse tornarono gioiose, dopo aver visto gli angeli (cf Mt 28,5) che avevano annunciato loro la risurrezione.
          Correvano i due apostoli, tanta era l’ansietà che li aveva presi; Giovanni, più giovane, corse di più e giunse per primo al sepolcro.
          Non vi entrò, però, perché forse non ne ebbe il coraggio da solo, e anche per rispetto al Principe degli apostoli. Si chinò, perché l’apertura della caverna non era molto alta, e vi sporse la testa per osservare; vide le bende che avevano avvolto il Corpo, poste da parte ordinatamente, e se ne stupì, perché chi avesse voluto rubare il Corpo, non le avrebbe né lasciate né tanto meno lasciate a quel modo. Dopo poco giunse anche Pietro che, sentendosi in compagnia, vinse più facilmente quel senso di terrore che incute sempre un sepolcro, e vi entrò. Egli poté esaminare più accuratamente i panni che Giovanni aveva visto da lontano, e notò con sorpresa che il sudario che aveva avvolto il capo di Gesù stava riposto a parte, ripiegato, il che escludeva assolutamente il rapimento del Corpo. Invitò Giovanni a constatarlo, e quegli, fattosi animo, entrò nella caverna, osservò tutto minutamente, e credé alla risurrezione.
          L’evangelista dà la ragione dell’incredulità che prima li aveva presi: Essi non sapevano ancora dalla Scrittura che Egli doveva risuscitare da morte. L’ignoranza li aveva resi increduli, ma l’ignoranza derivante dall’ostinazione nelle proprie idee, perché Gesù, in vari modi, aveva preannunciato loro la sua risurrezione. Credevano che il Redentore non dovesse morire, perché supponevano che dovesse regnare eternamente su Israele, dopo averne ricostituito il regno; la sua morte fu per loro il crollo di ogni speranza, e l’annuncio della risurrezione sembrò loro una fantasia di donne.
            Il constatare che il Corpo non c’era più nel sepolcro, e che il modo col quale erano piegate le bende indicava che non ne era stato sottratto, aprì loro gli occhi, e se ne ritornarono a casa pensosi. La loro fede, però, non era ancora piena e, pur non potendo negare che il corpo non era stato rubato, rimase per loro, in quel momento, ancora oscura e confusa la verità. Crederono assolutamente a quello che avevano visto, e crederono con una certa esitazione a Commento al Vangelo – Risurrezione del Signore 2013 (Gv 20,1-9)
Don Dolindo Ruotolo


domenica 24 marzo 2013

Passione di Nostro Signore Gesù Cristo


Commento al Vangelo: Domenica delle Palme 2013 (Lc 22,14-23,56)

Passione di Nostro Signore Gesù Cristo
La crocifissione, l’agonia, la morte e la sepoltura di Gesù
Giunti sul monte Calvario, cioè del teschio, chiamato in ebraico Golgota, i carnefici prescelti crocifissero Gesù e i due ladroni, elevandoli uno a destra e uno a sinistra di Lui. Con queste poche parole di una terribile concisione, l’evangelista accenna alla scena spaventosa di quell’immane supplizio. Lo crocifissero, perforandogli le mani con un lungo chiodo, e i piedi sovrapposti con un chiodo ancora più lungo. Non è possibile immaginare lo spasimo che davano quei chiodi all’adorabile nostro Redentore. La scienza medica, oggi, ne ha potuto studiare le vestigia sulla santa Sindone, cioè sul lenzuolo che lo avvolse cadavere. Si contrasse tutto all’indietro, e per questo movimento brusco le spine della nuca gli si conficcarono dentro più profondamente. Il suo dolore fu immenso, ma Egli, nella sua misericordia, si preoccupò di quelli che glielo procuravano e, rivolto al Padre, esclamò: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. Non aveva bisogno Egli di perdonarli, perché dava la vita per loro, ma aveva necessità d’implorare perdono dal Padre, perché il delitto che commettevano era spaventoso. La sua parola fu esaudita dal Padre?
Apparentemente sembrerebbe di no, poiché Gerusalemme fu distrutta, e il popolo fu massacrato o portato in cattività; ma Gesù pregò per l’anima di quelli che avevano concorso alla sua crocifissione, e principalmente per gli Ebrei, e questo ci fa intendere che, per la sua divina preghiera, Egli raccolse quelle anime quale messe dei suoi dolori. Come poteva Egli pregare per la loro salvezza temporale che li avrebbe sempre più ostinati nel peccato? Anche al buon ladro, infatti, Egli donò la salvezza eterna, ma non lo strappò dalla croce, perché il tormento che vi subiva era l’espiazione dei delitti che aveva commessi.
Gesù soffriva e perdonava, e quelli che assistevano alla sua morte lo deridevano e lo insultavano!
I soldati, al principio, si preoccuparono solo di dividersi le sue vesti, sperando di realizzare un gran guadagno rivendendole ai discepoli del Crocifisso e, dato che la tunica era inconsutile, per non dividerla la sorteggiarono; dopo si unirono anch’essi a quelli che lo insultavano. I sacerdoti soprattutto e gli scribi ci tenevano a sfatarne il prestigio innanzi al popolo, e con i loro insulti volevano farne rimarcare l’impotenza: Ha salvato gli altri, salvi se stesso se Egli è il Cristo, l’eletto di Dio. Ad essi facevano eco i soldati, i quali, vedendo sulla croce la scritta postavi da Pilato, dicevano: Se Tu sei il re dei Giudei, salva te stesso. Lo dicevano per prendersi beffe non solo di Lui che si era dichiarato re innanzi a Pilato, ma anche per insultare il popolo ebreo in Lui.
Se Pilato aveva messo quella scritta, era per essi evidente che il Crocifisso era veramente il re spodestato; insultandolo e sfidandone la potenza, volevano far constatare lo stato di soggezione piena nel quale era ridotto il popolo che aveva il suo re in croce, senza dire neppure una parola di protesta, anzi approvandone la condanna e la morte.
I biechi sacerdoti del tempio non si erano accorti che, con quel delitto spaventoso, avevano stretto di più le catene della loro schiavitù a Roma.

Il buon ladrone
I due ladri che erano crocifissi con Gesù, al principio si unirono tutti e due al coro di quelli che insultavano Gesù (cf Mt 27,44), ma poi uno di essi, vedendo che il compagno insisteva nel provocare il Signore a mostrare la sua potenza e la sua dignità, liberando se stesso e loro dalla croce e notando la pazienza divina di Lui, ne ebbe compassione e cominciò a sgridare il compagno.
Fu questo il primo anello di grazia che doveva condurlo al possesso del Paradiso. Egli soffriva terribilmente, aveva fastidio di sentire il vociare dei nemici del Redentore, perché i suoi nervi erano spasmodicamente tesi e contratti; considerò quanto doveva essere terribile per il Signore quel coro d’insulti e di feroci ironie stando in quello stato e, non osando rimproverare i sacerdoti, gli scribi e i farisei sgridò il compagno, dicendogli: Neppure tu temi Dio, trovandoti nel medesimo supplizio? cioè: tu non compatisci, dunque, le sue pene, pur soffrendole tu stesso e ancora lo provochi e lo insulti? Quindi, dando uno sguardo ai peccati commessi, notandone forse le vestigia nel compagno e pentendosene di tutto cuore perché vedeva e sentiva quanto era innocente Gesù, esclamò: Per noi, certamente è giusto, perché riceviamo ciò che meritiamo per i nostri delitti; questi, invece, non ha fatto nulla di male.
E, dicendo queste parole, lo guardò.
La compassione per le sue pene era diventata proclamazione della sua innocenza e, nel guardarlo di nuovo in questa luce, notò che quell’innocenza non era umana, come non era umana la pazienza che mostrava. Lo fissò, e gli venne una grande pace; lo guardò ancora e anche Gesù dovette guardarlo, alleggerendogli le atroci pene. Nel considerarlo, scorse la maestà placida di quel volto, e dal volto spontaneamente passò a leggere la scritta: Gesù Nazareno, re dei Giudei. Aveva un vero aspetto di Re, spirava maestà, spirava, anche così contraffatto, ammirabile bellezza; era Re, ma non poteva esserlo di questo mondo. Forse l’aveva sentito dire innanzi a Pilato solennemente: Il mio regno non è di questo mondo, e quelle parole ora gli ritornavano in mente. La fede nel Messia gli si rinnovò nell’anima; lo guardò ancora, sentì che era Lui, credé, sperò, gli si confidò, gli si abbandonò, esclamando: Signore, ricordati di me quando sarai giunto nel tuo regno. La sua fede era piena e completa; aveva confessato le proprie colpe e la grazia l’aveva tutto avvolto e vivificato; si era pentito, aveva amato il suo Redentore, aveva accettato come espiazione la pena che soffriva, e Gesù, perdonandogli, esclamò: In verità ti dico: Oggi sarai con me in Paradiso. Oggi stesso, sarai con me perché l’avrebbe preceduto nella morte e, morendo, l’avrebbe redento, ridonandogli l’adozione di Figlio di Dio e dandogli il possesso della felicità eterna.
Fu un atto di misericordia immenso, al quale non poté essere estranea la Vergine Santissima. Nella sua materna misericordia, Ella pregò per tutti, e pregò molto più per quelli che erano crocifissi col suo Figlio divino.
Pregò, e il meno ostinato e cattivo raccolse i frutti della sua preghiera, compassionando Gesù e pentendosi dei propri peccati. Quale fiume di grazia sarebbe disceso su tutti i carnefici del Calvario, se avessero avuto un momento solo di pentimento? Il buon ladro aprì la serie dei peccatori che ai piedi del Crocifisso avrebbero trovato la luce, la misericordia e la pace, e fu il primo a raccogliere il conforto e la tranquillità che si diffondono dalla croce.
Quante volte la sua breve preghiera è stata ripetuta dai peccatori, stretti dalle tribolazioni: È giusto, Signore, ricevo ciò che merito per i miei delitti, ricordati di me! E quante volte Gesù ha risposto nel profondo del cuore pentito, dandogli la pace e promettendogli la vita eterna! Sono peccatore, mio Dio, lo confesso, e tutte le pene della mia vita sono un atto di giustizia, lo riconosco; ma la tua misericordia ha le braccia aperte per accogliermi, e io mi rifugio sul tuo Cuore, dicendoti: Ricordati di me. Tu conosci bene quello che io sono, e se tu volessi ricordarti delle mie colpe dovresti scacciarmi da te; ma il tuo ricordo è misericordia e Tu mi guardi per perdonarmi e per salvarmi.

Gesù muore in croce
Era circa l’ora sesta, cioè verso mezzogiorno, e si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona, cioè fino alle tre pomeridiane. San Luca nota che il sole si oscurò; quindi non fu un fenomeno dovuto a nebbie caliginose né poté essere un eclissi, stando la luna al plenilunio. Per far notare che l’oscuramento del sole non avvenne per causa naturale, l’evangelista ricorda che anche il velo del tempio si squarciò nel mezzo; si squarciò dopo la morte di Gesù, ma san Luca ne anticipa la notizia, per mostrare che il Signore dava segni non dubbi di essere veramente il Figlio di Dio e il Messia promesso.
In questa oscurità, d’un tratto si fece grande silenzio sul Calvario e, per quanto i nemici di Gesù si sforzassero di spiegare il fenomeno con cause naturali, ne furono essi stessi atterriti. Gesù, in quel silenzio, emise un gran grido che mostrava la padronanza che aveva della sua vita, perché, agonizzante com’era, non avrebbe potuto gridare a gran voce, ed esclamò: Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito. E, dicendo questo, spirò. Quale momento solenne! Spirò, e quello spiro d’amore ridonò la vita agli uomini, come l’alito di Dio l’aveva donata alla creta plasmata nell’Eden.
Spirò, e quell’ultimo respiro fu per l’Inferno come il turbine che lo sgominò; spirò e rimase immobile, in una solennità grande, della quale abbiamo fino ad oggi la testimonianza nella santa Sindone conservata a Torino.
La terra tremò, quasi spaventata dal delitto consumato dai Giudei; il velo del tempio si squarciò, perché ormai era terminato l’Antico Patto e cominciava il Nuovo.
Il centurione che stava di guardia sul Calvario, vedendo quello che era accaduto, riconobbe la verità, e glorificando Dio, esclamò: Costui era veramente un giusto o, come dicono san Matteo (27,54) e san Marco (15,39): Veramente costui era Figlio di Dio. Egli fu così il primo del popolo pagano a riconoscere in Gesù Cristo il Messia e a proclamarlo pubblicamente.
La moltitudine, poi che era stata attratta sul Calvario per quello spettacolo insolito, discendeva dal monte ferale percuotendosi il petto in segno di pentimento e di angoscia, mentre i suoi discepoli e le pie donne che l’avevano seguito dalla Galilea, stavano osservando in lontananza, per timore di essere molestati dai nemici del Crocifisso. Che pena pensare che gli amici stavano in lontananza, e che i nemici stavano proprio sul Calvario.
Oh come è meschino il nostro amore verso Gesù, quando ci vergogniamo di Lui, e per un vilissimo rispetto umano viviamo lontani da Lui! Quanti seguono Gesù ma non vogliono compromettersi e, pur non trovandosi di fronte a pericoli reali ma solo illusori, si tengono lontani da Lui, accomunandosi alla vita dei malvagi!
Quando ci accorgiamo che Gesù è vilipeso e condannato dal mondo, allora dobbiamo mostrarci a Lui più fedeli, e serrarci alla Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana per confessarlo vero Dio e vero uomo e propagare il suo regno.
La sepoltura
Passato un po’ di tempo, venne sul Calvario un membro del sinedrio, chiamato Giuseppe, dalla città di Arimatea, uomo dabbene e giusto, il quale non aveva consentito alla condanna di Gesù e, resosi conto della morte del Signore, si recò da Pilato per ottenere il permesso di prenderne il corpo e seppellirlo.
Calava già la sera, ed essendo il giorno seguente giorno di sabato, si affrettò a seppellirlo. Deponendolo dalla croce e avvolgendolo in un lenzuolo con un’affrettata imbalsamazione di aromi, lo chiuse in un sepolcro nuovo, scavato nel masso, dove nessuno ancora era stato sepolto. Le pie donne osservarono tutto, perché avevano intenzione di curare esse, meglio, quel Corpo divino, appena fosse passato il sabato. Prepararono, infatti, aromi e unguenti, ed attesero con ansia il primo giorno dopo il sabato, per compiere il loro ufficio pietoso.
La Liturgia della Chiesa, sulla sepoltura di Gesù, ha un sapore di pace profonda che ci raccoglie tutti nella speranza della risurrezione, pur tenendo ancora l’anima immersa nei dolori del Redentore. Egli, infatti, discese nella tomba non come un vinto dalla morte ma come un vincitore, e ci si fece chiudere per aprirne le porte, primizia divina dei dormienti. Dormì e si riposò per mutare l’orrore del nostro sepolcro in un sonno e in un riposo. Dormì dopo la crocifissione, come noi dormiamo quando si è consumata la crocifissione della nostra vita. Egli ha voluto in tutto rassomigliarsi a noi, per farci in tutto rassomigliare a Lui, ed ha sparso, sulle nostre afflizioni il balsamo del suo sangue e della sua pace. Vivendo, dobbiamo fissare lo sguardo in Lui crocifisso, per seguirlo nella nostra via dolorosa e, morendo, dobbiamo guardare il suo sepolcro, pegno sicuro della nostra risurrezione: In pace in idipsum dormiam et requiescam, nella pace in lui dormirò e riposerò.
Sepolto Gesù, gli Ebrei crederono averne trionfato per sempre; ma, proprio in quella morte, stava il suo trionfo, e Dio, deridendo i vani disegni degli uomini, utilizzò la loro stessa malvagità per compiere i suoi. La croce, scelta apposta come supplizio infamante per distruggere ogni prestigio del Redentore, diventò per i secoli, invece, il trono del suo immenso amore; e il sepolcro, suggellato perché mai più si fosse parlato di Lui, divenne il piedistallo della sua gloria per i secoli, poiché, risorgendo, Egli confermò la sua missione divina e diede l’argomento inconfutabile della sua divinità, come della sua vera umanità.
         Adoriamo i disegni di Dio e, riconoscendo nel Crocifisso il nostro Re morto per i nostri peccati, percuotiamoci il petto e diciamogli, piangendo: Sii propizio verso di me povero peccatore
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 16 marzo 2013

L'adultera

Commento al Vangelo: V Domenica di Quaresima 2013 (Gv 8,1-11)

L’adultera
Dopo la sua orazione notturna, Gesù, di buon mattino, ritornò nuovamente al tempio, ossia – come esprime il testo greco –, in uno dei fabbricati o dei portici che facevano una sola cosa col tempio propriamente detto.
Il Cuore gli ardeva dal desiderio di comunicarsi alle anime, perché voleva salvarle, e andò Egli stesso a trovarle, per annunciare loro le parole dell’eterna verità e della vita eterna. Il popolo, che ancora numeroso affollava la santa città e dimorava nelle vicinanze del tempio, notò la sua presenza, e gli si accalcò d’intorno per ascoltarlo, nella speranza di assistere anche a qualche prodigio.
Mentre Gesù parlava, ecco che gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa proprio allora in adulterio, e, postala in mezzo all’adunanza, gli dissero che, secondo la Legge di Mosè, doveva essere lapidata, domandandogli che cosa ne pensasse.
Essi non erano affatto mossi dallo zelo per la giustizia e per la Legge, ma speravano porre Gesù in imbarazzo, ed avere occasione di condannarlo. La Legge (cf Dt 22,23-24) comandava che venisse lapidata la fidanzata che avesse mancato di fede al suo promesso sposo; per la donna già maritata comminava semplicemente la pena di morte, senza specificare il genere (cf Lv 20,10).
La donna, dunque, sorpresa nel peccato doveva essere fidanzata. Forse in oc-casione delle feste, abitando gli Ebrei sotto capanne improvvisate, s’era trovata e-sposta alla tentazione ed aveva peccato.
Se Gesù avesse giudicato che doveva essere lapidata, i suoi nemici speravano di denunciarlo come crudele innanzi al popolo, e come violatore della legge innanzi ai Romani, i quali non permettevano che l’adulterio fosse punito di morte, e avevano avocato a loro l’esecuzione delle sentenze capitali. Se non l’avesse condannata, l’avrebbero accusato come violatore della Legge di Mosè, e indirettamente come fa-voreggiatore dei Romani, alle cui leggi e disposizioni avrebbe mostrato di adattarsi.
Gesù Cristo non rispose, ma, chinatosi a terra, cominciò a scrivere, col dito, sulla polvere del pavimento. Questo era un gesto che i rabbini solevano fare quando, interrogati, volevano evitare di rispondere a questioni moleste; Gesù, però, non scriveva indifferentemente sulla terra, ma forse o ricordava i principali precetti della Legge trasgrediti dagli scribi e farisei, o addirittura ricordava i gravissimi peccati da loro commessi. Egli poi, per grande misericordia, volle sottrarre quella povera donna alla curiosità e al disprezzo di quanti erano presenti, attraendo gli sguardi sul pavimento sul quale scriveva, e suscitando in tutti il desiderio di vedere quel che scrivesse.
Gli scribi e farisei, vedendo quello che scriveva, si turbarono e, per impedirgli di continuare, lo premurarono di dare una risposta sollecitamente. Gesù, perciò, alzandosi, disse, in tono di grande solennità e penetrandoli con un raggio di luce che scopriva loro gli orrori della loro coscienza: Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei. E di nuovo, chinatosi, continuò a scrivere sulla terra, forse determinando più specificamente i loro delitti. Si può, infatti, anche supporre che la prima volta abbia tracciato i precetti della Legge da essi trasgrediti, e la seconda volta abbia determinato, con frasi più chiare, le loro trasgressioni.
Certo, gli accusatori, udite le sue parole, se ne andarono uno dopo l’altro, a cominciare dai più vecchi, sulla cui coscienza pesavano le più gravi responsabilità. Con quel suo gesto e con quelle sue parole, Gesù non volle dare un criterio generale di giudizio per le cause legali, ma volle ammonire i privati a non presumere di ele-varsi a giudici dei peccatori, essendo anch’essi peccatori. I giudici applicano la Legge, anche se essi sono peccatori, ma chi si trova innanzi al prossimo che manca, deve considerare prima di tutto i propri peccati e, invece di giudicarlo severamente, deve umiliarsi e compatirlo, implorando per lui la divina misericordia.
Gli scribi e i farisei si erano arrogati un diritto che non avevano catturando quell’infelice, proprio essi la cui vita era piena d’infedeltà e di adultèri, e volevano far apparire Gesù come un usurpatore di diritti che spettavano ai giudici della nazio-ne. Egli era Giudice di tutti, ma non volle assumere questa qualità pubblicamente, soppiantando i giudici del popolo, tanto più che, nella sua mortale carriera, era venu-to non a giudicare ma ad immolarsi, per meritare a tutti il perdono. Egli, infatti, quando tutti se ne furono andati, si alzò e domandò alla povera donna: Dove sono coloro che ti accusavano? Nessuno ti ha condannato? Essa rispose: Nessuno, Si-gnore.
E Gesù, effondendo nell’anima di lei la sua misericordia, le disse: Neppure io ti condannerò, vattene e non peccare più.
Evidentemente la donna era pentita del suo peccato; diversamente, Gesù non le avrebbe concesso il perdono. Egli, poi, nella sua infinita bontà, le comunicò inte-riormente una grazia rinnovatrice che la mutò tutta e la rese nuova creatura. Scri-vendo per terra, Egli compunse il povero cuore di quell’infelice, ricordandole i pre-cetti di Dio e, mentre i suoi accusatori si dileguarono, ella sola rimase innanzi al Giudice d’amore infinito che la perdonò.
Non giudicate malignamente il prossimo!
Quando noi giudichiamo malignamente il prossimo per i suoi difetti e i suoi peccati, rinnoviamo il gesto degli scribi e dei farisei: trasciniamo quell’anima al giudizio con la nostra mancanza di carità e pretendiamo lapidarla con le nostre in-vettive e le nostre insinuazioni. Ricordiamoci che siamo peccatori noi per primi, e che non abbiamo davvero il diritto di scagliare per primi le pietre. Quanti peccati abbiamo fatto, e quante responsabilità pesano sulla nostra coscienza! Umiliamoci e, invece di accusare il prossimo, accusiamoci noi innanzi al sacerdote, affinché siamo perdonati dalla misericordia di Dio.
Quando giudichiamo il prossimo, Gesù si curva sulla nostra miseria, e scrive sulla terra della nostra fragile creta, ricordandoci le nostre iniquità; abbiamo tutto l’interesse che Egli le cancelli, e perciò abituiamoci a compatire le debolezze altrui e a meritarci misericordia, usando misericordia. 
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 9 marzo 2013

L'infinita misericordia di Dio


Commento al Vangelo: IV Domenica di Quaresima 2013 (Lc 15,1-3.11-32)

L’infinita misericordia di Dio
Il figliol prodigo
        Ai farisei sembrava impossibile che Dio potesse accogliere i peccatori e vollero vedere nella familiarità che Gesù aveva con loro un argomento contro la sua divinità; perciò il Redentore mostrò in una scena tenerissima il modo col quale Dio accoglie i peccatori, e indirettamente si proclamò Dio, perché Egli li accoglieva proprio in quel modo, per eccesso di misericordioso amore e non per connivenza alle opere loro. La parabola del figliol prodigo, con la quale Gesù Cristo manifesta in pieno la misericordia di Dio e la sua, è bellissima e commovente e, più che un racconto, è una minuta descrizione della degradazione e della risurrezione dei peccatori. Colui che legge i cuori volle manifestare le particolari posizioni dei peccatori. Dobbiamo, perciò, meditare accuratamente tutte le circostanze della parabola che hanno un profondo valore psicologico.
        Un uomo aveva due figli, e il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte dei beni che mi tocca. L’eredità paterna era di diritto dei figli; il primogenito aveva il doppio degli altri figli nella divisione dei beni che poteva farsi in vita o dopo la morte del padre. Il più giovane, dunque, dei figli di questo padre reclamò la parte dei suoi beni. Per quale motivo la reclamò, pur avendo un padre immensamente buono? È evidente dal contesto: voleva godere a modo suo la vita; gli sembrava troppo vuota la casa, troppo opprimente la vigilanza paterna, e non andando d’accordo col fratello, unica compagnia che aveva in casa, volle cercarsi lontano le amicizie e i divertimenti.
        Il padre avrebbe potuto negargli l’eredità in quel momento e rimandare la divisione a dopo la sua morte, ma credé di farlo allora perché il figlio la reclamava con la prepotenza che hanno i cattivi, e alla quale non è possibile praticamente opporsi. Teoricamente il padre può imporsi ai figli, ma certi tipi sono indomabili e l’averli in casa costituisce un inferno tale che appare una liberazione il loro allontanamento. Il padre, dunque, pur avendo un grande dolore che il figlio si allontanava, gli diede la parte che gli spettava e non poté fare diversamente.
        Dopo pochi giorni, il figlio discolo, messo insieme il denaro e quanto aveva, se ne andò in un paese lontano. Voleva essere pienamente indipendente, non voleva controlli e scelse un paese lontano. Forse il padre, angosciatissimo, non poté neppure salutarlo, perché il figlio gli sfuggì, come avviene in simili casi, quasi fosse un nemico; può rilevarsi dalla penosa aspettativa di un ritorno nella quale rimane.
        Il giovane credé di aver conquistato la felicità e quando fu lontano di casa gli sembrò di respirare a più larghi polmoni. Ormai credeva di essere padrone di sé e si diede ad una vita dissoluta, consumando tutto quello che aveva. Intanto sopravvenne una grande carestia nel paese nel quale era, ed egli si trovò nella più squallida miseria. Cercò, dunque, un’occupazione e si ridusse servo, egli che era di nobile nascita, e servo di un pagano che lo mandò a custodire i porci. Un ebreo non avrebbe tenuto una mandria di maiali e quel padrone, mettendo il giovane a guardia di quegli animali immondi, lo ridusse in uno stato di grande avvilimento. Inoltre lo tenne in tali ristrettezze che l’infelice desiderava mangiare le ghiande o secondo il testo greco, le carrube che si davano ai porci, e nessuno gliene dava. Era ridotto come uno schiavo e lo stesso avvilimento nel quale era, gli toglieva il coraggio di domandare almeno il cibo che si dava ai porci.
        Quali giorni amarissimi trascorse l’infelice giovane! Stando a guardia di animali, aveva tutto l’agio di considerare il suo stato, perché quell’occupazione non lo distraeva e lo teneva tutto pensieroso; inoltre, la vita immonda di quelle bestie era per lui come un’immagine della vita che egli aveva condotto. Ricordò i giorni passati nella pulizia e nella pace della casa paterna, ricordò il modo come vi erano trattati i servi, rispettati, benvoluti e provvisti abbondantemente, ricordò soprattutto la bontà paterna e non disperò di essere riaccolto da lui, almeno come un servo.
        Uno degli effetti del peccato, e soprattutto di quello impuro, è l’indecisione e lo scoraggiamento, e per questo il giovane rimase per un certo tempo a pascolare i porci senza ribellarsi a quello stato di vita; egli che si era ribellato al padre, sottostava poi supinamente ad un tiranno e non fiatava. Però, l’idea di poter servire nella casa paterna cominciò a sembrargli attuabile, ed un giorno, deciso, disse a se stesso: Mi alzerò e andrò dal padre mio, e gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, e non sono più degno d’essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi. Era così avvilito che non aveva la forza di alzarsi senza imporselo: Mi alzerò e andrò; era così confuso che si preparava ciò che doveva dire al padre; era ancora lontano dall’amare il padre, perché si decideva principalmente in vista dei danni che la vita dissoluta gli aveva arrecato e dello stato nel quale era ridotto. Fu l’amore del padre che lo riabilitò e che mutò quel pentimento di attrizione in contrizione del cuore.
        Il padre non lo aveva dimenticato e ogni giorno guardava gemendo, quella strada per la quale il figlio s’era allontanato; com’era triste per lui! Il sole gli sembrava più scialbo, la solitudine più desolante e il passaggio dei viaggiatori era per lui una stretta al cuore.
        Guardava lontano e piangeva silenziosamente, piangeva d’amore e piangeva anche di collera, riprovando in cuor suo i traviamenti del figlio. L’ingratitudine che gli aveva mostrata non poteva non disgustarlo profondamente.
        Ma ecco, un giorno vede avanzarsi un giovane dall’andamento accasciato, tutto lacero, tutto incolto, appoggiato ad un bastone per la debolezza e per la stanchezza. Lo riconobbe subito: era suo figlio! E si sentì così commosso che, dimenticando tutto, gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò in un efflusso di amorosissime lacrime. Il figlio, piangente egli pure, disse ciò che aveva preparato e ripetuto tra sé lungo la strada: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno d’essere chiamato tuo figlio. Non completò la frase come l’aveva preparata e non accennò a voler essere un servo di casa, forse perché il padre non gliene diede il tempo, ma forse anche perché quell’espressione non reggeva di fronte a tanto amore e a tanta misericordia.
        Il padre, vedendolo tutto lacero, chiamò in fretta i servi, e ordinò loro di mettere fuori la veste più preziosa per vestirlo, dopo averlo lavato; ordinò che gli mettessero al dito l’anello col suggello, segno d’onore speciale, e i calzari al piede come si conveniva ad un uomo libero. Gli schiavi andavano scalzi e il povero giovane, tornando da uno stato di schiavitù, non aveva calzari.
        Il padre, poi, ordinò che si uccidesse il vitello ingrassato con cibi speciali che si teneva in serbo per le grandi circostanze, e si preparasse un grande banchetto, perché quel figlio suo era morto ed era risuscitato, era perduto ed era stato ritrovato. Queste ultime parole del padre rivelavano tutto il suo amore e la sua gioia; mentre il giovane aveva protestato di non essere degno di chiamarsi suo figlio, il padre lo chiamava affettuosamente: Questo mio figlio.
        Si preparò il banchetto, e fra canti e suoni di gioia si cominciò a mangiare. Mancava il primo figlio del padre, perché s’era recato nei campi a sorvegliare i lavori. Nel ritornare, sentì da lontano le musiche e le danze di quella festa e, chiamato uno dei servi, domandò che cosa fosse. Saputo di che si trattava montò in collera e non voleva entrare.
        Nelle feste del cuore c’è sempre qualche persona che mette una nota discordante, ma questa volta l’ira del figlio maggiore poteva degenerare in una rissa; il padre volle evitarla e corse personalmente a supplicarlo di entrare. Avrebbe potuto imporglielo, ma a che sarebbe valsa un’imposizione? Compatendo il suo sdegno, con lo stesso cuore misericordioso lo supplicò, invece, di entrare. Ma il figlio reagì, dicendo che l’aveva sempre servito fedelmente, senz’avere avuto mai in dono un capretto per banchettare con i suoi amici e soggiunse in tono sprezzante: Quando, invece, è venuto questo tuo figlio che ha divorato tutto il suo avere con le meretrici, hai ammazzato per lui il vitello grasso. Non chiamò fratello il giovane che era tornato, ma essendo sdegnato, lo chiamò: tuo figlio, quasi che a lui non appartenesse più, ed espresse nella maniera più veristica, per disprezzo, lo stato di colpa del fratello: ha divorato tutto il suo avere con le meretrici. Gli sembrò, poi, un’assurdità l’aver ucciso proprio per lui il vitello grasso.
        Con immenso amore, il padre cercò di placarlo, facendogli riflettere che egli non doveva adontarsi di quell’atto di misericordia, perché non diminuiva i suoi diritti: Tutto ciò che è mio gli disse , è tuo; ma soggiunse, ricordandogli l’amore fraterno, che era giusto banchettare e far festa perché quel suo fratello era come risuscitato e ritrovato. Il figlio aveva chiamato suo fratello semplicemente figlio del padre, e il padre, invece di chiamarlo suo figlio, l’aveva chiamato tuo fratello, per fargli riflettere che colui per il quale si faceva festa non gli era estraneo, ma gli era fratello e doveva essergli tanto più caro in quanto era come un morto risuscitato e un traviato ritornato alla via del bene.
        Gesù Cristo non poteva tracciare in una maniera più commovente e tenera lo stato di un peccatore e l’infinita misericordia di Dio nel raccoglierlo nella sua grazia quando egli veramente si pente. Non poteva esprimere in una maniera più profonda la misericordia di Dio verso l’umanità, le nazioni e i popoli quando tornano a Lui. Sono due applicazioni distinte della parabola che bisogna meditare: il padre che ha due figli è Dio che ha tra i suoi figli buoni e cattivi, ed ha fra le nazioni quelle che gli sono fedeli e quelle che apostatano da Lui.
        Dio è un padre che ha dato alle sue creature la libertà, affinché operino il bene meritando, e quando esse la reclamano, Egli non la nega loro, anche se per loro colpa ne abusano. Quando l’anima pecca, si allontana da Dio, suo Padre, lascia la sua amorosa compagnia e si abbandona agli stravizi, distruggendo in se stessa la grazia e tutte le buone qualità che Dio le ha donate; il peccato le porta la miseria più squallida, ed essa, da serva di Dio, diventa serva, anzi schiava delle passioni più immonde. La caratteristica di questo stato è l’avvilimento e la fame, poiché l’anima non giunge neppure a saziarsi delle sue passioni e vive in uno stato di somma infelicità spirituale e corporale.
        Lo stesso avviene alle nazioni quando, apostatando, si allontanano da Dio: vivono lussuriosamente, si riducono schiave di satana, e schiave dei suoi tristi rappresentanti, e cadono nell’avvilimento e nella miseria. Dolorosamente il campo dei porci è il naturale epilogo dell’allontanamento da Dio, e la miseria ne è la conseguenza.
        Sotto l’impeto dei castighi, il peccatore rientra in se stesso ed ha un primo movimento di ritorno a Dio; considera la brevità e la nullità delle sue false gioie, considera la pace e la felicità di chi opera il bene, si vergogna di sé e decide di ritornare dal Padre celeste, andando da chi in terra lo rappresenta. Padre ho peccato: ecco l’umile confessione che il peccatore fa a Dio ai piedi del confessore, ecco l’umile confessione che fanno le nazioni apostate al Padre, quando vedono la loro rovina.
        Dio è infinita misericordia ed accoglie subito al suo Cuore chi si pente sinceramente; ordina ai suoi servi, cioè ai sacerdoti, di mettergli, con l’assoluzione, la veste della grazia; non gliela pone Lui direttamente, ma chiama i suoi servi, e da essi gli fa porre al dito l’anello di nuove grazie e ai piedi i sandali della libertà, ordinando poi il banchetto dell’amore, perché si sazi di beni.
        Alle singole anime penitenti, Dio concede le delizie del Banchetto eucaristico, alle nazioni che, come tali, non hanno un avvenire eterno, Dio concede l’abbondanza dei beni materiali e la prosperità.
        L’epilogo della parabola riguarda particolarmente il popolo ebreo e lo scandalo che i farisei provavano, vedendo Gesù che trattava amabilmente i peccatori. Essi si rifiutavano di far parte del regno di Dio e del banchetto della vita, perché vedevano che Gesù vi accoglieva i peccatori; eppure avrebbero dovuto esultarne e goderne, perché quella familiarità li convertiva e li salvava.
        Il Padre celeste non aveva solo un figlio maggiore, il popolo ebreo, ne aveva anche uno minore, il popolo pagano; se Gesù cercava i pubblicani e i peccatori, cercava di ricondurre al Padre celeste il figlio minore con quelle primizie di misericordia. Questo avrebbe dovuto produrre in loro una gran gioia, perché tutti gli uomini sono figli di Dio, Ebrei e pagani, e gli Ebrei avrebbero dovuto esultare nel vedere il figlio minore essere accolto tra le braccia della misericordia e partecipare al banchetto della vita.
        La parabola del figliol prodigo, come accennammo, si riferisce anche al ritorno delle nazioni apostate a Dio negli ultimi tempi.
        È un racconto troppo vivo che noi, in parte, stiamo già vivendo, per poterlo trascurare; Dio ha due figli: il popolo ebreo e il popolo pagano. Quest’ultimo, minore di età, dopo essere stato nella casa paterna, reclama la sua parte di eredità tutta materiale, pretende di potere usare, a suo modo, dei doni di Dio, e si allontana da Lui, vivendo lussuriosamente.
        La famosa dichiarazione dei diritti dell’uomo nella rivoluzione francese fu come l’atto ufficiale col quale il popolo pagano, reso ribelle a Dio, reclamò i diritti, falsati e travisati, della propria eredità. Dio non forza nessuno al bene e per suoi altissimi fini lasciò fare.
        In possesso pieno e disordinato della propria eredità, le nazioni si allontanarono da Dio e cominciarono quella vita sistematicamente dissoluta che è l’impronta speciale della nostra moderna cosiddetta civiltà.
        È la storia contemporanea che fa orrore. È vero, in ogni tempo le nazioni, anche cristiane, si sono oberate di delitti spaventosi, ma se si pensa al bene che in esse regnava, a tanti re santi, a tante manifestazioni di fede, di pietà e di carità, deve riconoscersi che, dopo l’apostasia, le nazioni sono cadute in profondi abissi di corruzione che i nostri padri non hanno neppure sospettato. La caratteristica poi di questa corruzione è l’impurità, spinta a poco a poco fino agli eccessi più degradanti.
        La lontananza da Dio produce la miseria e la miseria conduce alle schiavitù più degradanti. Gli uomini che dovevano vivere della divina provvidenza ed essere santamente liberi, vedono diminuite le loro risorse fino alla miseria e alla carestia, e subiscono l’esoso dominio d’un padrone crudele. Lo stato economico delle nazioni moderne fa spavento e, con la scusa delle esigenze militari, esse vanno verso una completa schiavitù interna. Servono, servono lo Stato, padrone esigente, crudele e spietato, e non hanno di che sfamarsi.
        Pascolano i porci, ma i porci non danno loro neppure quello che costituisce la loro mensa. In fondo, i popoli apostati vivono per pascolare le mandrie corrotte dei capi, come si vede dovunque e specie in Russia, e non ricavano nulla dalla loro schiavitù. Ecco in quale stato ha ridotto i popoli l’apostasia! È una cosa che si constata e si vive, non ha bisogno di dimostrazione.
        Ma verrà l’ora della rinascita e verrà per la stessa violenza della crisi che tortura i popoli. Quasi svegliandosi da un sonno, diranno: Mi alzerò e andrò da mio padre. All’apostasia subentrerà un periodo di risurrezione della coscienza cristiana, e quindi un periodo di ritorno.
         Il Padre celeste, pieno di misericordia, verrà incontro ai popoli, li abbraccerà e li bacerà con grazie speciali e li introdurrà nuovamente nella Chiesa. I suoi servi rivestiranno a nuovo le anime, rimettendole in grazia di Dio, porranno al loro dito l’anello di nuove grazie e di una novella figliolanza con Dio e imbandiranno il banchetto col vitello grasso, cioè con un’esuberanza di doni eucaristici. Ci saranno anche allora le voci discordanti, senza dubbio, perché nel mondo viatore non è possibile una completa armonia; ma saranno voci che la bontà del Padre comune, del Papa, saprà conciliare, per mantenere l’unità tra i popoli cristiani.
Padre Lino Pedron


domenica 3 marzo 2013

Senza la penitenza si va in perdizione


Commento al Vangelo: III Domenica di Quaresima 2013 (Lc 13,1-9)

Senza la penitenza si va in perdizione
        Mentre Gesù parlava al popolo, vennero alcuni a raccontargli di una strage compiuta da Pilato nell’atrio del tempio per soffocare una ribellione di popolo, e propriamente di Galilei. Spesso avvenivano queste ribellioni in occasione di feste religiose e quindi di maggiore assembramento di popolo, e perciò i Romani avevano un presidio stabile nella fortezza Antonia per soffocarle in tempo, nel sangue. La storia non ricorda la strage fatta da Pilato, la quale dovette essere una di quelle tante repressioni sanguinose comuni ai dominatori Romani; ma è evidente dal contesto che quelli che ne diedero annuncio a Gesù erano ancora sotto un’impressione di terrore.
        Gesù Cristo non considerò la causa politica di quella strage, ma la causa morale che era il maledetto peccato, e richiamò tutti alla penitenza. Le ribellioni non giovavano a nulla, quando la causa dell’oppressione straniera stava nell’infedeltà alla Legge di Dio; invece di ribellarsi era necessario riparare le colpe e conciliarsi la misericordia di Dio.
        Forse alcuni di quelli che portarono la notizia della strage fatta da Pilato ebbero anche l’intenzione di provocarne una condanna da parte di Gesù, ed avere così occasione di accusarlo al governatore; ma il Redentore con la sua divina risposta, non diede loro il pretesto di malignare, anzi li richiamò al dovere della penitenza per richiamarli alla responsabilità che essi avevano in quella calamità pubblica, e in quella della rovina della torre di Siloe che, secondo la tradizione, fu provocata dal medesimo Pilato.

Le calamità pubbliche
        Le parole di Gesù aprono un nuovo orizzonte sul modo come debbono considerarsi le calamità pubbliche sociali, le guerre, le sopraffazioni e le tirannidi; le cause politiche o naturali che le determinano sono accidentali; la vera causa sta tutta nel peccato, ed essa produce tutto il suo effetto disastroso, quando non ha il contrappeso della riparazione e della penitenza. Qualunque altra valutazione delle sventure pubbliche è sbagliata. Anche le sventure private hanno questa dolorosa causa, e l’ha molto più la sventura delle sventure, ossia la perdizione eterna, e perciò Gesù dice con parole generali: Se non farete tutti penitenza, perirete tutti ugualmente.
        Dolorosamente siamo tutti peccatori e tutti dobbiamo sentire il bisogno della riparazione; la penitenza dev’essere prima di tutto interiore, nel rinnegare i propri falsi apprezzamenti e nel riconoscere come nostra guida la Legge e la volontà divina; dev’essere punizione della volontà e dei sensi ribelli, nella privazione volontaria di ciò che li alletta e li priva del freno, e dev’essere abbandono filiale e contrito all’infinita misericordia di Dio nel sacramento della Penitenza. Se non si orienta l’anima a Dio e non si sottopongono all’anima i sensi e le passioni, si cammina contro la divina volontà, e si va in perdizione.
        Le calamità pubbliche che affliggono le nazioni e le prove della vita sono, in fondo, le penitenze che il Signore stesso ci manda per salvarci. Le sventure pubbliche puniscono o purificano le nazioni peccatrici, e nel medesimo tempo sono per ciascun’anima una grande penitenza, forse la più grave e salutare, perché ineluttabile.
        Si avvicina, per esempio, una guerra, il flagello più terribile, soprattutto oggi; ecco che le città fanno la toletta funebre: oscurano le lampade, sgombrano i luoghi strategici, riducono al minimo la cosiddetta vita civile e si militarizzano. Si sente nell’atmosfera stessa un’aria di tristezza, gemono le madri, gemono le spose, e i giovani, per quanto lo dissimulino, hanno la morte alle spalle e capiscono che per loro può essere anche finita la vita.
        Che cos’è tutto questo apparato di tristezza?
        È la chiamata di Dio a penitenza, ed è la terribile e ineluttabile espiazione delle colpe commesse. Se le anime ascoltano in tempo la voce di Dio e anticipano la penitenza, a somiglianza dei Niniviti, il flagello si arresta; se continuano nella via del peccato sono travolte dal turbine.
        La vita, a volte, appare per molti un crudele destino; è un errore gravissimo. Ogni sventura ha il suo retroscena di peccato ed è sanabile con la penitenza. Dolorosamente le anime molte volte seguono il cammino opposto, rimangono nei loro peccati e li accrescono ribellandosi a Dio. Certi atteggiamenti disperati nel dolore sono blasfemi, ed aprono a satana interamente il varco nella nostra vita; allora non si trova più il bene, si cade di abisso in abisso, e si può giungere fino all’estrema rovina temporale ed eterna. Quando vediamo perciò una tribolazione, pensiamo che è un avviso di Dio, esaminiamo le nostre colpe, eliminiamole con la confessione e ripariamole con la penitenza; rimettiamoci sul cammino di Dio e il Signore ci perdonerà anche nella vita presente, ridonandoci la prosperità e la pace.

La parabola del fico infruttuoso
        A volte il Signore ci colpisce con una tribolazione e, per le preghiere degli altri o della Chiesa, l’arresta, aspettandoci ancora un po’ misericordiosamente a penitenza. Non bisogna allora abusare della divina misericordia e credere che il flagello sia passato.
        La parabola del fico infruttuoso è troppo eloquente per poterla prendere alla leggera: il Signore cerca da noi il frutto di opere sante e, quando la nostra vita non lo produce, la stronca col flagello. Non basta allora una risoluzione fiacca e momentanea di emenda per poter evitare la rovina: bisogna mutarsi interamente e cominciare daccapo a vivere cristianamente e santamente.
        Certe abitudini, certi vizi, certe miserie occorre eliminarli radicalmente dall’anima, facendo appello alla grazia e alla misericordia di Dio. Se non si fa così, la vita si aggroviglia ogni giorno di più nelle tribolazioni e, diventando preda di satana, diventa infelicissima.
        Quando annunciarono a Gesù la strage dei Galilei, Egli pensò certamente alla futura rovina di Gerusalemme ad opera dei Romani, e vide in quella strage, come nella rovina della torre di Siloe, un primo avviso di Dio al popolo ingrato. Quelle sue accorate parole: Se non farete penitenza, perirete tutti ugualmente, avevano sulle sue labbra un significato più ampio d’un semplice appello alla penitenza individuale, ed Egli chiamava la nazione tutta alla rinnovazione, con la minaccia dell’imminente rovina.
        La parabola del fico infruttuoso completò poi il suo accorato appello al popolo ingrato: da tre anni Egli predicava la penitenza e il regno di Dio, ed invano aveva cercato dall’ingrata nazione il frutto di tanta misericordia. Non rimaneva altro al Signore che reciderla dal numero delle nazioni e mandarla in rovina; eppure Egli stesso pregava per ottenere almeno un differimento del gravissimo flagello; ma la nazione ne avrebbe profittato?
         Dopo la morte di Gesù passarono ben quaranta anni di misericordiosa attesa prima che Gerusalemme fosse stata distrutta, e il popolo non fece penitenza; quando, poi, venne il giorno del rendiconto, la giustizia fu inesorabile, non per vendetta, ma perché non c’era altro da fare; il fico aveva resistito alle ultime cure dell’agricoltore, e non poteva essere utilizzato che come legna da ardere.
Padre Dolindo Ruotolo