domenica 10 luglio 2011


Commento al Vangelo della domenica
La parabola del seminatore
        XV domenica del T. O.
La prima parabola che propose al popolo era come uno sguardo che dava al cuore e alle disposizioni del suo uditorio, poiché in quel momento Egli gettava la semente della divina parola nelle anime e la gettava con vario frutto. Un seminatore che lasciasse cadere la semente sulla strada fra i sassi e fra le spine non sarebbe un seminatore accorto ma, avendo sovrabbondanza di semi, la sua stessa ricchezza gliene farebbe cadere una parte sulla strada, tra le pietre e tra le spine. Gesù Cristo è venuto in terra per seminare la divina parola, è venuto con una sovrabbondanza di misericordie per salvare tutti e per dare a tutti i mezzi di salute; Egli, dunque, semina dovunque, anche nei cuori duri, benché sappia che, in realtà, la sua semente andrà perduta; benefica tutti, muore per tutti senza preferenza di persone, e attende il frutto della corrispondenza umana.
È sempre Gesù che fa la grande semina della divina parola, perché gli apostoli e i loro successori lo rappresentano e agiscono in suo nome; la semente che Egli dona è sempre buona e atta a germinare, perciò non c’è caso nel quale l’uomo possa dire di aver ricevuto un aiuto insufficiente; non è cattiva la semente, ma la terra dove essa cade, quando non produce frutto, o lo produce imperfettamente.
Il seminatore viene dalla strada col grembiule pieno di semi e, logicamente, per entrare nella terra, percorre prima un tratto di strada, poi attraversa le macerie del campo, poi la siepe irta di spine e infine va nella terra buona e fino ai luoghi meglio esposti e più ubertosi. È questa la ragione per cui, dal grembiule sovraccaricato, sfugge parte della semente sulla strada, tra le pietre e tra le spine. Anche il predicatore della divina parola, per giungere alle anime capaci di fecondità, deve parlare a tutti, e passa quasi per la strada del mondo tra le pietre delle anime superficiali, e tra le spine di quelle assalite dalle passioni.
Il popolo ebreo fu per Gesù come la strada per giungere a tutte le anime e, in mezzo ad esso, la parola fu come divorata dal maligno, senza portare frutto. Dagli Ebrei la parola passò ai popoli circostanti e ai Greci, dove sembrò germinare perché accolta con esultanza, ma poi non fruttificò perché cadde tra le pietre della cultura umana e non pose radici. Dal mondo greco passò a quello romano, irto di spine di passione, e fu soffocata dalle sollecitudini del secolo presente e dalla seduzione delle ricchezze. Essa, però, trovò la terra buona nelle anime che sinceramente fecero parte della Chiesa, e fruttificò – come dice sant’Agostino –, il cento per uno tra i martiri, il sessanta tra i vergini, il trenta fra quelli che vivono santamente nel mondo.
Nel campo particolare delle anime avviene spesso che molti ascoltano la divina parola ma pochi ne traggono frutto, secondo quello che dice Gesù Cristo stesso spiegando la parabola.
Vi sono quelli che ascoltano più per curiosità che per trarne profitto, e la parola viene loro rapita dal maligno; ascoltano e poi dimenticano tutto, o non vi fanno più caso e ritornano ai loro vani pensieri.
Vi sono quelli che ascoltano, provano un diletto spirituale nell’evidenza della verità, propongono anche di confessarsi e cambiar vita ma, alle prime contraddizioni e persecuzioni, mutano pensiero e ritornano alla vita di prima.
Vi sono, infine, quelli che accolgono la divina parola, ma pretendono conciliarla con la sollecitudine delle cose terrene e delle ricchezze, e la soffocano nel loro cuore.
Per ricevere con frutto la parola di Dio bisogna essere terra buona, cioè bisogna avere le disposizioni interiori per meditarla, svilupparla e metterla in pratica. 
(Servo di Dio Sac. Dolindo Ruotolo) 

sabato 2 luglio 2011

Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.








XIV Domenica del Tempo Ordinario

San Tommaso Apostolo
25 In quel tempo Gesù disse: “Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra che hai tenuto nascoste queste cose ai dotti e prudenti, e le hai rivelate ai piccoli. 26 Così è, o Padre, perché così piacque a te. 27 Ogni cosa mi è stata data dal Padre mio, e nessuno conosce perfettamente il Figlio all’infuori del Padre, e nessuno conosce appieno il Padre tranne il Figlio, e colui al quale il Figlio l’avrà voluto rivelare.
28 Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete su di voi il mio giogo, e imparate da me che sono mansueto e umile di cuore, e troverete riposo per le anime vostre. 30 Il mio giogo, infatti, è soave, e il mio carico è leggero” (Mt 11,25-30).
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Per ricevere la luce di Dio, bisogna appartenere al Redentore, e sottoporsi al suo giogo, cioè al suo dominio che è soave e dolcissimo, e bisogna imparare da Lui come da Maestro. Non basta ascoltare i suoi precetti per intenderli, bisogna prima sottomettervisi ed accettarne la pratica perché i precetti di Gesù non sono teorie filosofiche ma sono via, verità e vita. Bisogna imparare da Lui che è mansueto e umile di cuore, nella mansuetudine che si sottomette al giogo; e nell’umiltà che sa rinunciare ai propri pensieri; bisogna imparare dal Maestro divino la mansuetudine e l’umiltà del suo Cuore che sono i segreti della sua intimità col Padre, poiché Egli si sottomette alla sua volontà che lo immola e, umiliandosi fino alla croce, ne glorifica la grandezza e la maestà.
Gli esegeti moderni sostengono che Gesù Cristo nel dirci: Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore, non abbia voluto proporsi come maestro di queste due virtù ma abbia voluto dire che Egli è un maestro che non fa paura che è mansueto e umile nell’insegnare, e lo è non a fior di labbra ma profondamente nel cuore. A noi, questa spiegazione sembra non solo monca nel contesto, ma contraria allo spirito stesso della Chiesa. Gesù, infatti, ci esorta a prendere il suo giogo e ci mostra il suo Cuore per mostrarci che cos’è questo giogo, tutto amore, tutto pace, e tutto bontà. Se il Re è amore, mansuetudine e umiltà, è logico che anche i sudditi lo siano, poiché i sudditi debbono imparare da Lui. Gesù vuole, proprio perciò – come è chiaro dal contesto –, che s’impari da Lui la mansuetudine e l’umiltà del suo Cuore.
La vita eterna consiste nel conoscere il Padre e il Figlio, come il Figlio Incarnato conosce il Padre e lo glorifica; Egli si sottomette alla sua volontà e si umilia fino alla croce; accetta con mansuetudine il giogo come Vittima e si offre alla croce. I suoi seguaci debbono fare lo stesso e poiché l’amore di Dio include quello del prossimo, debbono essere mansueti e umili anche nelle relazioni con i propri fratelli.
Gesù Cristo volle precisamente mostrare il suo Cuore e volle additarlo come rimedio supremo all’umanità che rifiuta il suo giogo nell’apostasia universale; il versetto del Vangelo è come il primo annuncio della rivelazione fatta a santa Margherita Alacoque, rivelazione che la Chiesa ha solennemente riconosciuta. Egli è il Maestro, e l’umanità apostata non vuole riconoscerlo e, rifiutando Lui, rinnega il Padre, rinnega Dio. L’orgoglio umano scuote il giogo della sapienza e dell’amore, e si dà con pazza violenza alla conquista dei beni terreni; Gesù sfata questa pazzia, affermando che, per raggiungere la pace e la felicità interna, bisogna umiliarsi, farsi piccoli, essere docili e mansueti innanzi a Dio e agli uomini, come Egli lo è stato. Non c’è altra via per mantenersi fedeli alla misericordia che Egli è venuto a portare in terra, e per sfuggire all’ingratitudine che Egli rimprovera a Corazin, a Betsaida e a Cafarnao.
In un mondo senza pace e senza amore – fondato ormai sulla violenza del più forte, e potremmo dire sul massacro del più debole –, non c’è altra via di salvezza che la mansuetudine e l’umiltà imparata dal Cuore Sacratissimo di Gesù.
Bisogna sapersi vincere nelle irruenze del carattere e nella prepotenza dell’orgoglio, e bisogna persuadersi che queste virtù non sono necessarie solo all’individuo, ma anche alla società. Non si può instaurare il dominio della forza brutale e dell’orgoglio che tutto vuole accentrare a sé e tutto vuol dominare, e pretendere che non ci sia altra via per conservare la preponderanza di una nazione sull’altra. Solo a questa condizione è possibile conservare nel mondo la pace.
La pace dell’anima è frutto dell’armonia con tutti e della placida moderazione delle proprie aspirazioni; la pace delle nazioni consiste nell’armonia interna ed esterna di uno Stato e nel mantenere la propria fisionomia, per così dire, di fronte alle altre nazioni senza presumere di volersi ingrandire a spese delle altre. È necessario sottomettersi a Gesù Cristo, poiché questo è il vero segreto dell’internazionalismo sapiente che diventa cattolico, apostolico, romano. L’internazionalismo che non è fondato sulla piena accettazione del giogo soavissimo del Vangelo non è unione di tutti i popoli, ma è massacro e barbarie, come si è visto dolorosamente nell’internazionalismo comunista che è passato come un uragano di ferro, di fuoco e di rovine in tutte le nazioni che ha infestate. ±

Tratto dal “Commento alla Sacra Scrittura – Vangelo di San Matteo”
Di don Dolindo Ruotolo