sabato 27 febbraio 2016

Senza la penitenza si va in perdizione

Commento al Vangelo: III Domenica di Quaresima 2016 (Lc 13,1-9)

Senza la penitenza si va inperdizione
        Mentre Gesù parlava al popolo, vennero alcuni a raccontargli di una strage compiuta da Pilato nell’atrio del tempio per soffocare una ribellione di popolo, e propriamente di Galilei. Spesso avvenivano queste ribellioni in occasione di feste religiose e quindi di maggiore assembramento di popolo, e perciò i Romani avevano un presidio stabile nella fortezza Antonia per soffocarle in tempo, nel sangue. La storia non ricorda la strage fatta da Pilato, la quale dovette essere una di quelle tante repressioni sanguinose comuni ai dominatori Romani; ma è evidente dal contesto che quelli che ne diedero annuncio a Gesù erano ancora sotto un’impressione di terrore.
        Gesù Cristo non considerò la causa politica di quella strage, ma la causa morale che era il maledetto peccato, e richiamò tutti alla penitenza. Le ribellioni non giovavano a nulla, quando lacausa dell’oppressione straniera stava nell’infedeltà alla Legge di Dio; invece di ribellarsi era necessario riparare le colpe e conciliarsi la misericordia di Dio.
        Forse alcuni di quelli che portarono la notizia della strage fatta da Pilato ebbero anche l’intenzione di provocarne una condanna da parte di Gesù, ed avere così occasione di accusarlo al governatore; ma il Redentore con la sua divina risposta, non diede loro il pretesto di malignare, anzi li richiamò al dovere della penitenza per richiamarli alla responsabilità che essi avevano in quella calamità pubblica, e in quella della rovina della torre di Siloe che, secondo la tradizione, fu provocata dal medesimo Pilato.

Le calamità pubbliche
        Le parole di Gesù aprono un nuovo orizzonte sul modo come debbono considerarsi le calamità pubbliche sociali, le guerre, le sopraffazioni e le tirannidi; le cause politiche o naturali che le determinano sono accidentali; la vera causa sta tutta nel peccato, ed essa produce tutto il suo effetto disastroso, quando non ha il contrappeso della riparazione e della penitenza. Qualunque altra valutazione delle sventure pubbliche è sbagliata. Anche le sventure private hanno questa dolorosa causa, e l’ha molto più la sventura delle sventure, ossia la perdizione eterna, e perciò Gesù dice con parole generali: Se non farete tutti penitenza, perirete tutti ugualmente.
        Dolorosamente siamo tutti peccatori e tutti dobbiamo sentire il bisogno della riparazione; la penitenza dev’essere prima di tutto interiore, nel rinnegare i propri falsi apprezzamenti e nel riconoscere come nostra guida la Legge e la volontà divina; dev’essere punizione della volontà e dei sensi ribelli, nella privazione volontaria di ciò che li alletta e li priva del freno, e dev’essere abbandono filiale e contrito all’infinita misericordia di Dio nel sacramento della Penitenza. Se non si orienta l’anima a Dio e non si sottopongono all’anima i sensi e le passioni, si cammina contro la divina volontà, e si va in perdizione.
        Le calamità pubbliche che affliggono le nazioni e le prove della vita sono, in fondo, le penitenze che il Signore stesso ci manda per salvarci. Le sventure pubbliche puniscono o purificano le nazioni peccatrici, e nel medesimo tempo sono per ciascun’anima una grande penitenza, forse la più grave e salutare, perché ineluttabile.
        Si avvicina, per esempio, una guerra, il flagello più terribile, soprattutto oggi; ecco che le città fanno la toletta funebre: oscurano le lampade, sgombrano i luoghi strategici, riducono al minimo la cosiddetta vita civile e si militarizzano. Si sente nell’atmosfera stessa un’aria di tristezza, gemono le madri, gemono le spose, e i giovani, per quanto lo dissimulino, hanno la morte alle spalle e capiscono che per loro può essere anche finita la vita.
        Che cos’è tutto questo apparato di tristezza?
        È la chiamata di Dio a penitenza, ed è la terribile e ineluttabile espiazione delle colpe commesse. Se le anime ascoltano in tempo la voce di Dio e anticipano la penitenza, a somiglianza dei Niniviti, il flagello si arresta; se continuano nella via del peccato sono travolte dal turbine.
        La vita, a volte, appare per molti un crudele destino; è un errore gravissimo. Ogni sventura ha il suo retroscena di peccato ed è sanabile con la penitenza. Dolorosamente le anime molte volte seguono il cammino opposto, rimangono nei loro peccati e li accrescono ribellandosi a Dio. Certi atteggiamenti disperati nel dolore sono blasfemi, ed aprono a satana interamente il varco nella nostra vita; allora non si trova più il bene, si cade di abisso in abisso, e si può giungere fino all’estrema rovina temporale ed eterna. Quando vediamo perciò una tribolazione, pensiamo che è un avviso di Dio, esaminiamo le nostre colpe, eliminiamole con la confessione e ripariamole con la penitenza; rimettiamoci sul cammino di Dio e il Signore ci perdonerà anche nella vita presente, ridonandoci la prosperità e la pace.

La parabola del fico infruttuoso
        A volte il Signore ci colpisce con una tribolazione e, per le preghiere degli altri o della Chiesa, l’arresta, aspettandoci ancora un po’ misericordiosamente a penitenza. Non bisogna allora abusare della divina misericordia e credere che il flagello sia passato.
        La parabola del fico infruttuoso è troppo eloquente per poterla prendere alla leggera: il Signore cerca da noi il frutto di opere sante e, quando la nostra vita non lo produce, la stronca col flagello. Non basta allora una risoluzione fiacca e momentanea di emenda per poter evitare la rovina: bisogna mutarsi interamente e cominciare daccapo a vivere cristianamente e santamente.
        Certe abitudini, certi vizi, certe miserie occorre eliminarli radicalmente dall’anima, facendo appello alla grazia e alla misericordia di Dio. Se non si fa così, la vita si aggroviglia ogni giorno di più nelle tribolazioni e, diventando preda di satana, diventa infelicissima.
        Quando annunciarono a Gesù la strage dei Galilei, Egli pensò certamente alla futura rovina di Gerusalemme ad opera dei Romani, e vide in quella strage, come nella rovina della torre di Siloe, un primo avviso di Dio al popolo ingrato. Quelle sue accorate parole:Se non farete penitenza, perirete tutti ugualmenteavevano sulle sue labbra un significato più ampio d’un semplice appello alla penitenza individuale, ed Egli chiamava la nazione tutta alla rinnovazione, con la minaccia dell’imminente rovina.
        La parabola del fico infruttuoso completò poi il suo accorato appello al popolo ingrato: da tre anni Egli predicava la penitenza e il regno di Dio, ed invano aveva cercato dall’ingrata nazione il frutto di tanta misericordia. Non rimaneva altro al Signore che reciderla dal numero delle nazioni e mandarla in rovina; eppure Egli stesso pregava per ottenere almeno un differimento del gravissimo flagello; ma la nazione ne avrebbe profittato?
         Dopo la morte di Gesù passarono ben quaranta anni di misericordiosa attesa prima che Gerusalemme fosse stata distrutta, e il popolo non fece penitenza; quando, poi, venne il giorno del rendiconto, la giustizia fu inesorabile, non per vendetta, ma perché non c’era altro da fare; il fico aveva resistito alle ultime cure dell’agricoltore, e non poteva essere utilizzato che come legna da ardere. 
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 20 febbraio 2016

LA TRASFIGURAZIONE DI GESU' CRISTO

3

La trasfigurazione di Gesù




Commento al Vangelo: II Domenica di Quaresima 2016
 (Lc 9,28-36)

La trasfigurazione di GesùCristo
        Le lotte contro Gesù aumentavano sempre, di giorno in giorno, poiché i sacerdoti, gli scribi e i farisei, non ammettendo in Lui una missione divina, credevano insopportabile che Egli insegnasse e facesse proseliti. Queste lotte, prima latenti, cominciarono a diventare più manifeste e sfacciate, scrollando anche la fede degli apostoli, già abbastanza fiacca. Era necessario perciò, per la gloria stessa di Dio, mostrare almeno un raggio di quella divina Maestà che tutto avvolgeva il Signore e che dovrà, un giorno, risplendere della sua santissima Umanità innanzi a tutte le genti.
        Con la divina sobrietà che distingue tutto ciò che viene da Dio, Gesù credé opportuno mostrarsi innanzi a tre testimoni soltanto della terra, e a due testimoni del cielo: Pietro, Giacomo e Giovanni in rappresentanza degli uomini, Mosè ed Elia, in rappresentanza di quanti avevano sospirato alla redenzione nell’Antico Patto. La Legge diceva, infatti, che sulla bocca di due o tre testimoni stava la verità.
        Se Gesù si fosse svelato innanzi a tutti gli apostoli, si sarebbe determinato un movimento di entusiasmo che Egli voleva evitare, e i nemici ne avrebbero preso pretesto per intensificare la lotta. D’altra parte, se i tre testimoni prescelti capirono poco della grandiosa manifestazione, la massa ne avrebbe capito ancor meno, e nell’entusiasmo del momento avrebbe reso vano l’altissimo scopo per il quale Gesù Cristo si svelava.
        San Pietro voleva stabilirsi sul monte e farvi tre tabernacoli, gli apostoli e i discepoli sarebbero andati più in là e avrebbero provocato un movimento capace d’intralciare tutto il piano di Dio. Gesù, poi, agiva per la Chiesa, principalmente per la Chiesa, e voleva lasciare nella Chiesa una testimonianza della sua divina gloria, affinché nei secoli futuri si fosse meglio capito che se Egli era veramente uomo, era anche veramente Dio. Bastavano perciò tre testimoni capaci, un giorno, di riflettere sulla grande manifestazione, intenderne il significato, e trasmetterne la testimonianza alla Chiesa.
        Gesù prese dunque con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e salì sopra un monte per pregare. Dato che Egli pregava quasi sempre di notte, deve supporsi che era già calata la sera quando vi s’incamminò con i suoi. È chiaro anche dal fatto che gli apostoli furono aggravati dal sonno: dopo una giornata di movimentata attività, nella calma solitudine del monte, per la stessa umidità dell’ambiente, si capisce che poterono essere presi dal sonno. Essi, però, essendo andati con Gesù per pregare, si sforzavano di tenersi desti, come può ricavarsi dal testo greco, il quale dice che stavano svegli malgrado il sonno e poterono accorgersi della grandiosa scena che si svolse sul monte.
        Gesù pregava, e la sua trasfigurazione ci fa intendere che cosa doveva essere la sua preghiera.
        Acceso d’infinito amore dinanzi al Padre, tutto rapito dalla sua gloria, Egli splendeva nel volto di luce divina, e la luce intensissima rese bianco tutto il suo vestito. Era la più sublime delle estasi, era il Verbo che glorificava il Padre e fruiva del Padre in un amore infinito, traendo l’umanità assunta nello splendore della sua gloria e nel profumo del suo amore; era il Verbo che erompeva, per così dire, dall’umanità assunta e la rendeva come diafana alla sua luce, attraversandola tutta e illuminandola.
        Lo spettacolo era sublime, immenso, grandiosissimo, e in Gesù si vedeva il vero Dio, come nel suo ordinario nascondimento si scorgeva il vero uomo. Il Verbo glorificava il Padre, conoscendolo e apprezzandolo, e l’umanità assunta splendeva in Lui e per Lui come una fiamma di olocausto. Era un’anticipata riparazione allo scempio che si sarebbe fatto del Corpo divino, ed era una manifestazione del modo come la redenzione avrebbe restaurato l’uomo, incorporandolo al Cristo e facendolo rifulgere della sua luce.
        Pregava Gesù, in quello splendore arcano e, come la sua preghiera superava la povera atmosfera della terra, così quello splendore divino doveva giungere fin nell’immensità del firmamento e oltre; quei raggi non poterono disperdersi nella bruna massa di aria, ma l’oltrepassarono; brillavano più di quelli degli astri, e dovettero far apparire nel firmamento il Corpo di Gesù come una rutilante stella di primissima grandezza. Se nelle stelle ci fossero stati abitanti, avrebbero visto certamente lontano lontano uno splendore nuovo, più grande di qualunque splendore, poiché il fulgore della divinità in quel momento, penetrava tutto l’universo, essendosi essa degnata di venire in terra per restaurare tutto.
        Pregava Gesù, e lo splendore della sua Anima e del suo Corpo era proporzionato all’umiliazione che doveva subire nella Passione. Era, infatti, conforme alla divina gloria che l’Uomo-Dio fosse immolato, ma era anche esigenza di quella gloria che Egli fosse riconosciuto per quello che era. Voleva essere sopraffatto per amore, ma non doveva in nessun modo apparire come uno travolto quasi casualmente dalla tempesta dell’empietà, e per questo Mosè ed Elia vennero come testimoni del disegno di Dio, annunciato dalla Legge e dai Profeti e ne discorsero con Lui.
        È mirabile quest’economia di giustizia e di ordine da parte di Dio, in un avvenimento che doveva sfigurare il Verbo Incarnato come un reietto, un maledetto, un verme sul legno della croce. Mosè ed Elia confermavano che quello che gli avrebbero fatto gli uomini era stato già preannunciato come un piano d’amore, e che Dio l’avrebbe permesso proprio Lui per infinita degnazione e misericordia. Questa solenne affermazione era, dunque, un’esigenza della divina gloria.
        Pregava Gesù, discorrendo con Mosè ed Elia della sua dipartita, era come un cantico sublime che si elevava a Dio Uno e Trino, come un salmo grandioso che si snodava in un parallelismo luminosissimo, poiché Mosè ed Elia esaltavano Dio per le sue promesse, e Gesù lo esaltava, accettandone in sé il compimento, e mostrandone la perfetta armonia nella sua vita. I due Testamenti erano vicini, l’ombra diventava luce di realtà e la realtà illuminava la verità dei simboli e delle figure; passava in questo cantico ammirabile tutta l’antica storia come un’armonia lontana e rispondeva nell’Uomo-Dio come una trionfante melodia d’amore. Era necessario per la gloria di Dio, poiché gli uomini avevano tante volte sfigurato il disegno divino, e non avevano ancora compreso soprattutto il disegno della croce.
        Questo cantico nuovo, ammirabile, sublime che armonizzava l’ombra con la realtà, diventava così una preghiera riparatrice per quello che gli uomini avrebbero fatto al Signore, senza la quale avrebbero meritato mille volte di più la sorte di Uz nel porre le mani sul Redentore, arca di Dio, e sarebbero stati inghiottiti dalla terra.
        Oh, se si fosse raccolto quel cantico nuovo d’amore! Ma ne ha raccolto la Chiesa santa l’eco sublime, e tutta la sua mirabile liturgia è un continuo osannante raffronto tra l’Antico e il Nuovo Testamento, un salmo grandioso, nel quale, alle voci della Legge e dei Profeti, risponde in perfetto parallelismo la voce della realtà, nelle misericordie della redenzione e negli splendori della santificazione delle anime.
        Parlando Gesù della sua morte e pregando con Mosè ed Elia rivolse certamente il suo Cuore anche agli uomini, perché essi erano l’oggetto del suo misericordioso amore. Per essi voleva morire e, morendo, voleva incorporarli a sé, per renderli lode vivente di Dio; ad essi voleva cedere i suoi meriti, arricchendoli, e lo splendore della sua misericordia li avvolgeva; ma essi dormivano, e gli stessi tre apostoli, privilegiati spettatori di tanta scena, erano aggravati dal sonno e stentavano a stare desti, nonostante che quell’immenso fulgore li avesse scossi. L’anima loro, evidentemente, non era compresa di quello che avveniva, pur vedendo fisicamente la scena; avvertirono solo una pace e un contento interno che li rendeva beati, ma non capivano la natura di quella gioia e di quella consolazione interna.
        Pietro più degli altri era come fuori di sé e, non andando col pensiero oltre la terra, pensò che era bene fermarsi là, ed erigervi tre tende: una per Gesù, una per Mosè e una per Elia. Parlava come può discorrere uno che è tra veglia e sonno; non aveva chiaro né l’intelletto né la coscienza, e non sapeva quello che dicesse. Parlò con un linguaggio di trasognato, e Gesù non gli rispose neppure, perché quella parola, poveramente umana, non poteva ascendere fino a Lui. Era immagine viva di quelle preghiere suggerite dalla carne e dal sangue che non superano la povera atmosfera terrena e non giungono a Dio.
        La grande luce non aveva ancora destato interamente gli apostoli, e Pietro parlò da insipiente; ma quando videro una nube che avvolgeva Gesù, Mosè ed Elia, forse per il contrasto medesimo, improvviso, fra l’intensa luce e l’ombra della nube, si svegliarono interamente, e li assalì un grande timore, perché in quella nube appariva il Padre per additare solennemente il suo Figlio come maestro dell’umanità. Da essa, infatti, uscì una voce solenne che disse: Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo.
        Quella voce non era terrena: era solenne, grandiosa, potente, e incuteva un riverenziale terrore, come la voce del Sinai.
        Il Tabor era veramente il Sinai della nuova alleanza, dal quale s’era rivelato il Figlio, come il cenacolo fu il monte dove si rivelò lo Spirito Santo. Sul Tabor la nube rappresentò anche lo Spirito Santo che unisce il Padre al Figlio e il Figlio al Padre nell’infinito Amore, ma nel cenacolo la sua manifestazione fu singolare, come lo fu quella del Figlio sul Tabor e quella del Padre sul Sinai.
         Il mistero che si compiva, dunque, in quella notte era veramente grandioso e i tre apostoli ebbero ragione di sgomentarsene. Non era ancora però il momento di svelarlo, e Gesù – come dice san Matteo (17,9) –, ingiunse loro di non parlarne ad alcuno finché Egli non fosse risorto da morte. Essi, infatti, tacquero, benché avessero dovuto essere straordinariamente commossi.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 13 febbraio 2016

Le tentazioni di Gesù nel deserto


Domenica 14 FEBBRAIO 2016

La tentazione di Gesù nel deserto


I Domenica di QuaresimaAnno C
Lc 4,1-13
 Dal Vangelo secondo San Luca
In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
Il mistero delle tentazioni di Gesù nel deserto
Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, essendosi assoggettato a tutte le nostre pene, volle ancora subire le tentazioni di satana. S. Luca dice chiaramente al vers. 13 che il diavolo, dopo averlo tentato nel deserto, si allontanò da Lui per ritornare in altro tempo, o come dice il testo greco: Fino ad un tempo propizio. Questo indica che Gesù non subì solo la tentazione nel deserto e che satana, benché sconfitto, ritornò altre volte all’assalto contro di lui. Nell’Orto del Getsemani e nella Passione lo assalì certamente, non solo nell’interno dell’anima, ma anche servendosi degli uomini perversi che lo tormentarono; lo si rileva dal contesto medesimo degli Evangeli, dallangustia che manifesto Gesù nell’Orto e dalla crudeltà dei suoi nemici, inspiegabile senza una intensa suggestione diabolica.
È impressionante il fatto che Egli, pieno di Spirito Santo dopo il Battesimo del Giordano, sia stato assalito da satana. Lo Spirito, certamente lo Spirito Santo, lo condusse nel deserto per prepararlo all’imminente ministero pubblico, e, proprio quando era ripieno di grazie particolari nella sua SS. Umanità, subì la tentazione.
Satana gli girò attorno fin dalla nascita, perché sospettava che fosse il Messia; cercò farlo sopprimere dall’empio Erode, e poté anche influire sinistramente sui Betlemiti, prima che nascesse, per renderli ostili o duri di cuore verso la Sacra Famiglia. Quando poi s’accorse dalla vita di Lui e dalla pienezza dello Spirito Santo che non era un uomo come gli altri, tentò sviarlo, per la stessa maligna invidia con la quale sviò Adamo. Era logico che il secondo Adamo non fosse esente dalle tentazioni, dovendo Egli riparare le spaventose conseguenze della prima tentazione.
È un grande conforto questo per le anime pie, che spesso nelle tentazioni si disorientano, e non sanno capire come la pienezza delle grazie particolari che hanno porti in loro lo scompiglio delle suggestioni più brutte da parte di satana. Si ripete in loro, membra più vive del Redentore, quello che avvenne a Lui medesimo per nostra istruzione e per nostro conforto.
Il calore non attrae subito le correnti fredde? Gli strati caldi si elevano e gli strati agghiacciati si precipitano sulla fiamma. Or satana, come gelo di morte, si precipita dove vede ardere una fiamma più intensa, non per assorbirne il calore ma per spegnerla, giacché, nel suo orgoglio, crede che il suo stato di morte sia preferibile a quello della vita, e nella sua ira funesta ha invidia della felicità che porta la vera vita. Appena dunque l’anima s’accende, per cosi dire, nello Spirito Santo, satana si precipita per turbarla.
Le tentazioni, perciò, non sono segno di decadimento, ma segno di un’azione più intensa dello Spirito Santo in noi. Tutto sta a non scambiarle per luce, a non crederle ragionamenti di logica, ed a non isolarsi nei tristi pensieri che suscitano, rifiutando la luce che ci viene da quelli che guidano l’anima nostra.
Chi rifiuta la direzione, si aggroviglia nella tentazione, LA RENDE SUA MENTALITÀ, la crede irrefutabile, e si espone al pericolo di farsi ingannare da satana. Come Gesù ricacciò la tentazione con la parola di Dio, cosi l’anima deve ricacciarla con la parola di chi le rappresenta Dio; alla suggestione di un falso ragionamento che le sembra luce deve rispondere non già ragionando ma fulminando satana con la parola che il Signore ci ha detto per il suo ministro.
Il digiuno di Gesù
La pienezza dello Spirito Santo dava all’anima divina di Gesù tale vita, e, diremmo, tale nutrimento interiore, che Egli digiunò per quaranta giorni e quaranta notti. S. Luca ha un’espressione propria del suo Vangelo su questo digiuno, e dice che Gesù non mangiò nulla in quei giorni. Dunque il suo digiuno fu completo. Digiunò per trarre dall’anima sua una fiamma di amore, per ridurre le attività corporali e dare la prevalenza a quelle spirituali, per mortificare il suo corpo divino, immolandolo nella privazione del cibo, e renderlo, poi, nutrimento delle anime nostre. Nel digiuno suo e nella sua penitenza Egli quasi seminò il grano del pane Eucaristico, che doveva poi stritolare nella Passione e lo rese nel suo amore cibo delle anime nostre. La povera mente umana si sente piccola piccola innanzi agli arcani di Dio!
Il digiuno e un’immolazione della propria vita, parziale, si, ma vera; e un sacrificio che si consuma alla presenza di Dio.
Quando s’immolava una vittima la si uccideva; rimaneva però il corpo inerte, testimonianza pubblica e reale che Dio solo e vita, perché fuori di Lui tutto muore. Quando si immolava l’olocausto, si uccideva e si bruciava la vittima, quasi sostituendone la vita con la fiamma, simbolo dell’amore che consuma in noi tutto quello che non e di Dio. Il digiuno e una riduzione della vita corporale, ed un olocausto delle sue tendenze materiali, fatto per amore di Dio. Come riducendo la corrente elettrica la lampadina abbassa il tono della sua luce, quasi morisse, cosi digiunando si abbassa il tono della vita materiale, che diventa in tal modo come immolata alla presenza di Dio.
Per questo il digiuno ha una grande forza impetrativa al cospetto di Dio, e per questo satana cerca ridurlo a minimi termini nella vita spirituale. Aggiungiamo subito, a scanso di equivoci, che il digiuno e strettamente collegato con lobbedienza, perché se la riduzione della vita corporale e un’immolazione, questa è vana senza l’immolazione dell’anima. Il corpo riduce la sua vita con la privazione, e l’anima quasi esce fuori dalla propria vita corporale con l’obbedienza. Perciò e detto esplicitamente che Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto. Non vi andò di sua volontà, ed aggiunse allimmolazione del corpo quella dello spirito. Aggiungiamo pure che i digiuni, comandati dalla Chiesa, benché così blandi, sono i più belli che si possano fare, perché allora e proprio lo Spirito Santo che per la Chiesa guida l’anima alla penitenza.
(Commento del servo di DIo DOn Dolindo Ruotolo)

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sabato 6 febbraio 2016

La barca di Pietro





Commento al Vangelo  V Domenica del T.O. C 2013(Lc 5,1-11)
La barca di Pietro
                 
Dio è mirabile nel suo linguaggio, e sotto umili cose esprime disegni grandiosi di sapienza e di amore. Chi non direbbe più solenni e stupende le scene del Pentateuco, di fronte alle parabole e ai racconti del Vangelo? Eppure quelle scene erano una figura mentre il Vangelo è la realtà; non solo, ma è l’annuncio di più grandi cose, è il quadro del mirabile sviluppo della redenzione. Per questo è chiamato Vangelo, annuncio della buona novella.
       Se si può dire una frase ardita, nell’Antico Testamento Dio ha lasciato alle sue parole un carattere più umano, e per questo a noi sembra grandioso; nel Nuovo, un carattere più divino, e per questo a noi sembra più semplice e meno grandioso. Siamo lontani dal divino, i nostri pensieri non sono quelli di Dio, e per questo valutiamo molto un monte di marmo e poco una gemma preziosa estratta dalla miniera.
       La scena di Gesù che insegna dalla barca di Pietro, sembra la più semplice e la più normale; innanzi, per esempio, al passaggio del Mar Rosso e al cantico di Mosè sembra piccola cosa, eppure è l’espressione di un’immensa grandezza, del Magistero divino affidato alla Chiesa e al Papa, come subito vedremo. Non è il passaggio di un popolo da una riva all’altra, ma il passaggio della luce divina della verità dal mare infinito alla nostra piccolezza; non è la figura della liberazione dal peccato nel Battesimo, com’era il passaggio del Mar Rosso, ma è la sintesi e come la semente feconda della più grande misericordia fatta all’uomo libero e intelligente: il Magistero infallibile della Chiesa e del Papa.
       I poveri critici e ipercritici, questi pigmei di fronte al pensiero di Dio, si affannano a scrutare la lettera, e credono di aver scoperto il sole quando hanno esumato uno scartafaccio antico, o hanno fatto l’anatomia naturale di un Testo Sacro; si affannano a colmare – dicono essi –, le lacune del Testo, e qua ne vedono uno corrotto, là uno monco, altrove uno che a fatica si armonizza. Scavano a tutta forza gli antri morti della storia, ostruiti da macerie, e credono di aver fatto tutto, quando hanno potuto raccattare una notizia più o meno dubbia da mettere insieme al Sacro Testo, senza pensare che uniscono la gemma falsa alla vera, e che si sforzano di mettere in evidenza quello che Dio ha voluto eclissare, perché inutile o dannoso allo scopo che Egli ha nel parlarci.
       I poveri critici e ipercritici non si accorgono di frustrare, con le loro piccole o false luci, lo scopo che Dio ha avuto nel lasciare certe oscurità nel Testo e nel tacere certe notizie. Sono riflessioni importantissime queste che debbono profondamente umiliarci innanzi a Dio, e abituarci a trattare la sua Parola con vero spirito di fede.
       Gesù Cristo, quando andò a predicare nella Galilea, chiamò una prima volta alla sua sequela Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, com’è raccontato in san Matteo (4,18ss) e in san Marco (1,16ss). Egli li incontrò sul lago di Genesaret quando gettavano le reti in mare, e li chiamò per farli pescatori di uomini. Alla sua voce, essi subito abbandonarono le reti e lo seguirono, ma è evidente dal contesto che non lo seguirono definitivamente; anzi, dopo poco, ritornarono alle reti e alle barche, pensando che era per loro necessaria la loro arte e professione per vivere. Seguirono Gesù, e quando videro che era povero e viveva di elemosine, pensarono che non potevano ragionevolmente prescindere dal loro guadagno, e ritornarono alla pesca. Questo si rileva dalla ricostruzione psicologica dell’atteggiamento di san Pietro nella pesca miracolosa, come subito vedremo.
       Nel chiamare i quattro pescatori, Gesù li avrebbe voluti tutti per l’opera sua, ed essi in un primo momento vi si prestarono; ma dopo pensarono, magari anche a scopo di bene, di non dovergli esser di peso, giudicarono che le elemosine che riceveva Gesù non potessero bastare loro, e ritornarono al lago per pescare di notte, sperando di guadagnare almeno qualcosa. Gesù li trovò dopo questa notte di pesca che fu infruttuosa, mentre lavavano le reti. C’erano ferme due barche, una apparteneva a Simone e l’altra a Giovanni, ossia a suo padre Zebedeo.
       La folla che seguiva Gesù si accalcava sulle rive del lago, ed Egli, per parlare meglio e farsi sentire da tutti, salì sulla barca di Simone, e lo pregò di allontanarsi un po’ da terra. Stando a sedere sul pontone della barca, ammaestrava il popolo. Non era un gesto vano né era un atteggiamento accidentale quell’insegnamento; Egli guardava lontano, al compimento dell’opera sua, ai secoli perenni nei quali avrebbe insegnato al mondo dalla sede di san Pietro, e avrebbe ammaestrato le genti dalla sua barca, ossia dalla Chiesa. Quel suo gesto era divino, e come tale era semplicissimo, e segnava in eterno il diritto della Chiesa cattolica e del Papa ad ammaestrare le genti.
       Tutti i sofismi delle eresie e tutte le violenze dei tiranni non hanno potuto e non potranno mai cancellare questo diritto. La barca di Pietro diventava, in quel momento, granitica, diventava una sede di bronzo, un monumento immortale. Il gesto di Gesù l’aveva come consacrata, mutandone la natura, e l’aveva resa conquistatrice di anime nel suo adorabile Nome.
       Essa ha attraversato i mobili secoli e li attraversa ancora fra le più fiere tempeste, ma non è mai sommersa e continua a raccogliere anime nella sua rete, anche quando par che le sfuggano e che non ne prenda più per l’apostasia universale.

La pesca miracolosa
       Gesù Cristo volle mostrare a Simone e agli altri tre apostoli, chiamati sulle rive del lago che Egli era Provvidenza bastevole a sostentarli, e volle, nel medesimo tempo, preannunciare la pesca miracolosa di anime che avrebbe fatta la Chiesa nel grande trionfo del suo regno, e perciò ingiunse a Simone di prendere il largo e gettare le reti. Da esperto nella sua arte, Pietro sapeva che non c’era speranza di pescare nulla, dato che per tutta la notte, ossia nelle ore più propizie, aveva invano gettato le reti; però la sua fede si era rinnovata per la vicinanza di Gesù e alla luce dei suoi insegnamenti, e senza esitare, nel suo Nome, gettò le reti.
       Immediatamente i pesci riempirono la rete in così grande quantità che quasi si rompeva; ed egli che era forse in compagnia di Andrea, fece con lui segno all’altra barca dov’erano Giacomo e Giovanni, perché li avesse aiutati; essi, remando a gran forza, si accostarono e, raccolti i pesci, riempirono le due barche che quasi affondavano.
        La fede di Simone a quel miracolo si risvegliò in pieno; egli era ritornato alla barca e alle reti perché aveva creduto imprudente non avere un cespite certo di guadagno, ed ora constatava che Gesù poteva non solo sopperire alle sue necessità, ma poteva farlo con abbondanza; sentì tutta la propria ingratitudine e la propria miseria e, gettatosi alle ginocchia di Gesù che era seduto sulla sponda della barca, e aveva i piedi nascosti dai pesci che la colmavano, esclamò:Allontanati da me, perché io sono uomo peccatore. E voleva dire: Tu mi hai chiamato, mi hai promesso di alimentarmi anche corporalmente, e io ho dubitato di te, ed ho creduto che valesse più il mio posto di pescatore che la tua provvidenza; lasciai tutto per te, e con volubilità sono ritornato non tanto alla mia barca, quanto al mio mestiere, rifiutando praticamente la tua chiamata; non sono degno che Tu mi accolga con te, allontanati, stai in cattiva compagnia: io non sono che un peccatore. Anche gli altri compagni di Pietro furono presi dai medesimi sentimenti, perché anch’essi avevano diffidato della divina provvidenza. Ma Gesù, pieno di bontà, rivolto a Pietro singolarmente perché a lui principalmente aveva voluto dare la lezione, e perché egli era il più addolorato, disse: Non temere d’ora innanzi sarai pescatore di uomini. Tutti, allora, tirate a secco le barche, abbandonata ogni cosa, lo seguirono definitivamente
Padre Dolindo Ruotolo