sabato 26 agosto 2017

LA CONFESSIONE DELLA DIVINITA' DI GESU' CRISTO

Commento al Vangelo della XXI domenica del T.O. (Mt 16,13-20)
LA CONFESSIONE DELLA DIVINITA' DI GESU' CRISTO


Tra le incertezze che agitavano l’anima degli apostoli a causa della propaganda degli scribi e farisei Gesù volle diffondere un raggio di luce viva, inducendo i suoi cari a risvegliare in loro quella fede che era quasi attutita. Egli andò nei pressi di Cesarea di Filippo – città posta ai piedi dell’Ermon –, e in un momento di maggior pace e solitudine domandò loro che cosa dicessero di Lui gli uomini. Essi gli risposero, accennandogli le varie opinioni che si avevano di Lui. Questa esposizione doveva far riflettere loro che le varie opinioni non erano la verità, perché questa non poteva essere che una sola.
Subito dopo, illuminandosi di luce divina e fissando con uno sguardo arcano i suoi cari, domandò: E voi chi dite che io sia? All’opinione degli uomini bisognava opporre la parola della verità, ed Egli volle che la pronunciasse decisamente Pietro che doveva essere il maestro della verità, lui e i suoi successori, fino alla consuma-zione dei secoli.
Una luce interiore gliela rivelò ed egli, acceso d’un tratto d’amore, senza esi-tare, gridò con sicurezza assoluta: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
Fu un momento solenne, una definizione dogmatica che si scolpì nel fonda-mento stesso della Chiesa, una luce di verità che si accese per illuminare i secoli. Fu come il crisma che consacrò la voce del principe degli apostoli, la luce di una nuova beatitudine, quella della verità che non conosce ombre che è assoluta e immutabile, e perciò Gesù, rivolto a Pietro, lo chiamò beato per quella rivelazione che gli era venuta dall’Alto e che non gli era stata suggerita dalla carne e dal sangue, cioè dalla debolezza dell’umana natura e dell’umana ragione. Lo chiamò beato anche per quello che voleva annunciargli, e si potrebbe dire che Gesù stesso, con questa parola, abbia assegnato al primo Papa e ai suoi successori il titolo della loro dignità: la beatitudine, la santità. Il Papa è chiamato santità perché è il vicario del Santo dei santi, è custode della verità e del bene: i due capisaldi della santità; è Colui che ha come programma del suo regno la santità.
Gesù, all’elogio fatto a san Pietro, fece seguire la promessa di un regno di nuovo genere, dicendogli: E io ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edifi-cherò la mia Chiesa, e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa.
In aramaico, la lingua usata da Gesù Cristo, non c’è differenza di genere tra il nome proprio Pietro e il nome comune pietra, ma l’uno e l’altro si esprimono con la parola kefas che significa rupe, macigno, perciò è chiarissimo, dal contesto mede-simo, che Gesù volle esplicitamente riferirsi a san Pietro come a fondamento della sua Chiesa. Egli non additò se stesso – come dicono i protestanti –, perché questo gesto non risulta in nessun modo dal Testo e dal contesto, ma parlò a san Pietro proprio come al futuro fondamento saldissimo della Chiesa. Le sue parole, nella lingua nella quale furono pronunciate, equivalgono a questo: Tu sei Pietro e su que-sta pietra io edificherò la mia Chiesa; non parlò, dunque, di altri che di Pietro e, promettendogli di farlo capo e fondamento del suo regno, gli promise la forza di di-fesa soprannaturale, la giurisdizione giudiziaria e il potere della sanzione.
Pietro, dunque, doveva essere il capo della Chiesa non per onore, ma il capo difeso da invisibili eserciti, il capo che comanda e sanziona, e alla cui voce risponde il Cielo, cioè la potenza di Dio.
Gesù Cristo non poteva, in una maniera più completa e sintetica, annunciare e promettere la suprema autorità del Papa nella Chiesa.
Le porte dell’Inferno cioè le potenze infernali, non potranno prevalere contro la Chiesa che è il nuovo popolo di Dio, proprio perché essa avrà un unico capo e sa-rà sorretta dalla compagine dell’unità. Dire che le porte dell’Inferno non prevar-ranno è lo stesso che annunciare la guerra che le potenze infernali faranno alla Chiesa, e la sua vittoria in ogni tempo, fino alla consumazione dei secoli, poiché essa non potrà mai morire.
Come è ammirabile la luminosa laconicità delle parole di Gesù Cristo e come sintetizzano la natura e la storia della sua Chiesa e della potestà del Papa! D’allora ad oggi nessuno potrà negare che esse si siano avverate, e che tra il fluttuare delle vicende umane siano rimasti sempre incrollabili la Chiesa e il suo capo! Dopo la ri-surrezione, Gesù donò a san Pietro ciò che gli aveva promesso (cf Mt 16,18) e i po-teri che gli diede, riguardando un’istituzione immortale, dovevano di necessità tra-smettersi ai successori.
San Pietro, nominato sempre per primo in tutti i Vangeli, esercitò difatti la sua supremazia, come si vede chiaramente negli Atti degli Apostoli. Egli, dunque, è il capo incontrastato della vera Chiesa. Del resto, sarebbe assurdo pensare che Gesù Cristo avesse potuto istituire un organismo che è una vera società visibile, senza un capo visibile; se l’avesse fatto, avrebbe creato un regno diviso, destinato a perire come si dividono e periscono le sette che si distaccano dal vicario di Gesù Cristo.
Oggi che l’onda limacciosa dell’ateismo, e quindi della violenza, tenta cancel-lare dalla faccia della terra ogni culto e ogni idea di Dio, i poveri protestanti, invece di farsi seminatori di scandali e di discordie, devono sinceramente convertirsi al Si-gnore e riunirsi alla sua Chiesa.
Se non lo fanno diventano – come già è avvenuto dove ferve la persecuzione contro la Chiesa –, i cooperatori degli scelleratissimi empi e i manutengoli dei loro tenebrosi disegni.
Niente può sostituirsi alla Chiesa e nessuno può soppiantare il suo augusto Capo; solo la Chiesa vive delle ammirabili ricchezze di Gesù Cristo, e solo il Papa le trasmette in essa, quasi cuore e cervello di quell’organismo meraviglioso.
Chi si apparta dalla sua autorità perisce come un organismo che ha i centri vi-tali paralizzati. La Chiesa e il Papa sono mirabili frutti della redenzione dai quali sbocciano tutti gli altri; chi li disprezza, raccoglie la zizzania, credendola grano, anzi raccoglie la rovina temporale ed eterna.
 Don Dolindo Ruotolo

sabato 19 agosto 2017

LA CANANEA

La Cananea

Commento al Vangelo della XX Domenica TO 201 A (Mt 15,21-28)



La Cananea

Gli scribi e farisei, nelle loro opposizion
i al Redentore, non si contentavano solo di parole, ma tentavano passare ai fatti e ordivano congiure contro di Lui, per liberarsene. Gesù Cristo, per impedire una recrudescenza del loro odio, si allontanò dalla pianura di Genesaret, dove si trovava, e passò nelle parti di Tiro e Sidone, cioè tra gente cananea. Egli annunciava così, con i fatti, che la parola della verità, rigettata dal popolo ebreo, sarebbe passata ai pagani; non andò in quei luoghi per evangelizzarvi il popolo, ma per indicare quello che sarebbe avvenuto in futuro e, conoscendo tutto, vi andò per mostrare con un esempio pratico agli apostoli, disorientati dalla propaganda farisaica che cosa significasse aver fede. È evidente dal contesto che Egli stesso attrasse a sé la povera Cananea che andò a supplicarlo per la figlia indemoniata; anzi può dirsi che sia andato esclusivamente per lei in quelle contrade, non avendovi operato altro.
La fama dei suoi miracoli si era sparsa in ogni luogo, e forse la Cananea aveva tante volte desiderato incontrarsi con Lui, per supplicarlo in favore della figlia. Forse aveva pregato con viva fede, credendolo il Messia; di fatto avvenne che, appena saputo della sua presenza, gli corse incontro, chiamandolo Figlio di Davide e Signore, e rivelandolo come Colui che doveva venire.
La sua preghiera fu semplicissima: ella espose il suo caso doloroso, e lasciò a Lui la cura di pensarci.
Pregò con fede nel chiamarlo Figlio di Davide, con umiltà nell’implorarne pietà e con fiducia, esponendogli il suo caso doloroso tra grida di suppliche. Gesù non le rispose nulla: sembrò insensibile a quell’angoscia materna, Egli che aveva un Cuore infinitamente tenero.
La donna non si scoraggiò ma continuò a gridare e gli apostoli, presi dalla compassione, lo supplicarono di accontentarla. Egli rispose che non era stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele.
Con queste parole non intese dire di non voler esaudire la preghiera di quella donna, ma volle mostrare agli apostoli, con una durezza che li addolorava, quanto era contrario alla carità la crudeltà di chi s’irrigidiva in una legge esteriore, senza tener conto del suo spirito.
Dal suo Cuore, però, partivano raggi di carità invisibili che colpirono la donna, la resero più ardita e la fecero avvicinare a Lui, implorando aiuto. Gesù rispose che non era bene prendere il pane dei figli per darlo ai cani. Chiamò cani i pagani, non perché il suo amore li stimasse tali, ma perché così li riguardavano gli scribi e i farisei.
Intenzionalmente volle far sentire agli apostoli, in un contrasto con una madre supplicante, quanto fosse ingiusto il disprezzo che gli Ebrei avevano dei pagani. Essi, vedendo quel disprezzo in confronto con Lui, Carità per essenza, ne distinguevano di più l’orrore. Egli, poi, dicendo una parola così dura alla povera Cananea, le fece sentire, contemporaneamente, con quale carità la riguardava; il suo Cuore divino la provava e le dava la grazia per resistere alla prova. La Cananea, infatti, rispose con maggiore fede che anche i cagnolini mangiavano le briciole che cadevano dalle mense dei loro padroni. Era indegna del pane dei figli, e come cagnolina voleva raccogliere solo una briciola di quella potenza taumaturga con la quale Egli colmava di benefici tanti poveri infelici. Questa era la più grande espressione di una fede umile e sincera, e Gesù, mutando d’un tratto atteggiamento, ed elogiando tanta fede, la esaudì e, a distanza, con una parola d’onnipotenza, le sanò la figlia.
La lezione era tutta rivolta agli apostoli titubanti; essi dovettero riconoscere che non avevano quella fede profonda che sa resistere alle prove; dovettero capire quanto superiore agli scribi e farisei era quell’umile donna che aveva nel cuore un tesoro di fede sul Messia, e si sentirono rinfrancati nello spirito. Gesù, poi, partito di là, e andato verso il mare di Galilea, cioè sulla riva orientale del lago di Genesaret, vi operò moltissimi strepitosi miracoli, confermando così la fede dei suoi apostoli.
Muti, ciechi, zoppi, storpi e molti altri infermi sperimentarono la sua potenza e ne furono consolati spiritualmente e corporalmente.
Quante volte, pregando, ci sembra che Gesù Cristo, la Madonna e i santi non ci ascoltino, e l’anima si disorienta, a volte, fino a sentir venir meno la fede! Quante volte, in questi momenti di tenebre, satana ci suggerisce che è vano pregare e ci getta in una cupa disperazione che è forse il tormento maggiore della vita! Eppure, in quei momenti di oscurità, proprio allora, dobbiamo intensificare la preghiera, perché la fede esca ingigantita dalla prova e ottenga grazie maggiori di quelle che ha richieste. Si può dire, con assoluta certezza, che nessuna preghiera è vana, e che quando non ci vediamo esauditi ci si prepara una consolazione più grande, temporale ed eterna. Non siamo degli abbandonati nel mondo, non siamo dei reietti: siamo figli del Padre celeste, ed Egli ci riserba il suo pane, cioè la ricchezza delle sue misericordie.

Padre Dolindo Ruotolo

lunedì 14 agosto 2017

L'incontro con Santa Elisabetta

Commento al Vangelo nella Solennità dell’Assunzione della B.V. Maria 2017 A
(Lc 1,39-56) – Messa del giorno
Don Dolindo Ruotolo
L’incontro con santa Elisabetta
Maria si pose in viaggio per le vie deserte dei monti e camminava frettolosamente. Cercava la solitudine, perché aveva un gran bisogno di amare in silenzio, e correva perché era quasi come spirito e non avvertiva il peso del corpo.
Chi ha provato un momento d’intimo amore con Dio sa quanta vita esso trasfonde in tutto il corpo, rendendolo più sottomesso all’anima, più docile strumento dello spirito; questa vita dovette essere immensa in Maria, tutta avvolta dalla fiamma dell’eterno Amore. Non poggiava quasi sul suolo e, come colomba librata al volo, divorava la via. Correva senza affannare, spinta come da un vento, perché la creazione le faceva quasi riverenza, e l’aria stessa si apriva innanzi a Lei, per non opporre resistenza ai suoi passi. Correva, esultando nel suo spirito, con passo sicuro e senza timore, perché la gioia pura dell’anima dà anche al corpo un novello vigore e una maggiore decisione nei suoi movimenti. I suoi sentimenti si arguiscono da quelli espressi a santa Elisabetta, espressione magnifica dell’anima sua benedetta: glorificava Dio, esultava in Lui Salvatore, vivente nel suo seno, si umiliava e considerava la sua grande missione nei secoli, attribuiva al Signore tutta la propria grandezza, e considerava le conseguenze della misericordia fatta da Dio alla terra, la dispersione dei superbi, l’umiliazione dei grandi e l’elevazione degli umili. Era piena di Dio, conversava con Lui, lo amava d’intenso amore, piena di riconoscenza per il compimento delle promesse da Lui fatte ad Abramo e alla sua discendenza; cantava nell’esultanza del suo spirito, ed esplose nella pienezza del suo amore innanzi alla santa cugina.
Il saluto di Maria
Giunse presto in casa di Zaccaria e salutò Elisabetta, dice il Sacro Testo. Non salutò il consorte di lei o per delicatezza, sapendolo muto e non volendolo mortificare parlando, o perché sapeva che era momentaneamente assente. Salutò con le parole allora più in uso. La pace sia con te, o con altra simile espressione e, al suono della sua voce, il bambino di Elisabetta trasalì di gioia nel seno di lei, ed ella fu ripiena di Spirito Santo.
La voce benedetta di Maria era come la voce stessa del Verbo Incarnato in Lei, perché Egli ne possedeva e ne elevava tutta la vita; era voce santa e santificante che operò quello che diceva come augurio di pace e, operandolo nello stesso tempo, santificò il Battista nel seno materno, e ne santificò la madre, riempiendola di Spirito Santo.
Elisabetta vide Maria nello splendore della sua sovrumana bellezza e ne rimase profondamente colpita. Il cammino, fatto sollecitamente, le aveva anche fisicamente ravvivato il colore del volto: l’espansione con la quale le si rivolse aveva fatto come affiorare tutta l’anima sua nelle linee del corpo purissimo; era come un’opera d’arte mirabile, un misto di semplicità e di maestà grande, un insieme di umiltà e di gloria, un’armonia di gioia profonda e di compostezza imperturbabile; era bellissima come non lo fu mai nessuna creatura, e rapiva perché spirava santità e pace da ogni movimento e da ogni parola.
Era ancora fanciulla: aveva poco più di quindici anni e, benché fosse già sviluppata, portava nella sua persona la casta e affascinante ingenuità propria dell’adolescenza. Era come un fiore aperto alla vita e, perché aperto per virtù dello Spirito Santo, conservava intatto quel candido fulgore d’integrità che è proprio delle vergini. Sembrava un angelo del Paradiso, più di un angelo, fulgente nei raggi della divinità che in Lei riposava, e diffondeva intorno una soavissima unzione di grazia che saziava lo spirito e lo inebriava d’amore verso di Dio. La sua voce non era voce di creatura umana: aveva qualcosa di misterioso, penetrava il cuore come grazia, e lo pacificava con una grande soavità; era come una melodia sommamente espressiva, tratta da uno strumento dolcissimo.

Il saluto di santa Elisabetta

Santa Elisabetta, perciò, al vederla così grande e così bella, esclamò per ispirazione interna dello Spirito Santo: Benedetta sei tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno. L’abbracciò, la strinse al cuore quasi con effusione materna, perché ella era già avanzata di età; ma, nello stringerla, sentì in lei qualcosa di divino, capì per grazia il mistero della sua Maternità divina, sentì che abbracciava la Regina del cielo e soggiunse: E da dove viene a me questa grazia che la Madre del mio Signore, cioè del mio Dio fatto uomo per la salvezza di tutti, venga a me?
Con queste ispirate parole fu come scolpita per i secoli la testimonianza della divina Maternità di Maria e della sua ineffabile grandezza. Ella non è indifferente ai salvati dal Redentore: lo porta loro, lo dona, effonde la sua grazia e la sua misericordia, dona la sua gioia, santifica in suo nome, ed è inseparabile da Lui nell’opera della salvezza.
Se fosse stata solo un canale per il quale passò il Redentore – come dicono stoltamente i poveri protestanti –, Elisabetta, ripiena dello Spirito Santo, si sarebbe rivolta non a Lei ma al Figlio divino che le stava nel seno; ella, invece, la esaltò benedetta fra le donne, e chiamò Frutto suo il Redentore, Frutto della sua pianta purissima che, evidentemente, Ella sola poteva dare. La pianta non è un semplice canale del frutto, lo genera, lo nutre, lo matura e lo dona; bisogna andare dalla pianta per averlo e, senza la pianta, è impossibile coglierlo.
Elisabetta vide in Maria tutto quello splendore di vita, e lo paragonò inconsciamente all’umiliante abbattimento nel quale il suo sposo, muto e sordo era venuto da lei dopo la visione dell’angelo, capì che la fede nella parola dell’angelo aveva realizzato in lei il grande mistero, come l’incredulità del marito gli aveva causato la mutezza e la sordità. Psicologicamente quell’infermità del marito le era stata motivo di non pochi fastidi nel governo della casa, e quindi esclamò: Te beata che hai creduto poiché si adempiranno le cose dette a te dal Signore.
Il cantico sublime di Maria
Maria, a quelle parole di lode, sentì l’anima sua tutta tratta in Dio; l’umiltà le dava il senso della sua nullità innanzi a Lui; la riconoscenza le faceva attribuire tutto alla sua infinita misericordia; la luce divina che la illuminava le faceva guardare i suoi disegni su di Lei e i trionfi delle sue misericordie nei secoli, fino alla fine del mondo; perciò, elevando gli occhi al cielo, esclamò: L’anima mia magnifica il Signore.
Mai uscì da labbro umano un cantico più sublime di gioia; mai un cuore si aprì a Dio con tanto riconoscente amore; mai l’umiltà più profonda fu armonizzata così mirabilmente con la verità, in modo da formare una melodia di annientamento e di grandezza, di piccolezza e d’immensità, di bontà e di forza che affascina l’anima e la unisce alla gioia e ai sentimenti di Maria.
Le reminiscenze scritturali del cantico di Anna, dei salmi e dei profeti che si trovano nel sublimissimo cantico non mostrano solo la familiarità di Maria con le Sacre Scritture, ma sono come la luce delle profezie e delle figure passate che s’incontrano con la realtà e col compimento delle promesse di Dio e, lungi dall’offuscare l’originalità del canto, lo rendono nella sua concisa semplicità più splendente e più bello. Esso è come il fiore di tutto l’antico patto ed è la gemma feconda del nuovo; è il compimento delle antiche speranze e la speranza nelle nuove misericordie; è la sintesi delle compiute aspirazioni del passato, è un rapido sguardo alla storia del futuro, fino al compimento dei secoli, è il programma della vita di un’anima redenta e la sintesi delle sue elevazioni d’amore; è, infine, lo sprazzo fulgente della vita del Verbo Incarnato e della medesima Madre che lo portava nel seno. In tutta la storia del regno di Dio è una voce sempre viva, in tutto lo sviluppo della Chiesa è un programma sempre attuale, in tutte le ascensioni dei santi, è una voce sempre armoniosa che può raccogliere in un suono d’amore le mirabili armonie della grazia in loro; è un cantico fecondo e verginale, come il Cuore dal quale sgorgò ricco di significati e semplice nella sua espressione che la Chiesa canta e ricanta ogni giorno, senza che esso esaurisca la sua gioiosa e fresca scaturigine, è il canto dei pellegrini che vanno verso la Patria eterna, degli apostoli che percorrono la terra diffondendo il lieto messaggio, dei martiri che attestano la verità col loro sangue, dei confessori che la propagano, delle vergini che la vivono, dei contemplativi che la gustano, degli angeli che la esaltano, delle creature tutte nelle quali ha echi d’amore, ed è nota squillante del cantico eterno nell’eterna gloria.
Se si recita, è una preghiera soave; se si canta è un inno trionfante che lancia lo spirito esultante in Dio; se si medita è come orto fiorito, ricco di profumi celesti. Ha un sapore sempre nuovo, un fascino sempre vivo, una delicatezza sempre verginale che i secoli non hanno potuto mai invecchiare, perché è un cantico di vita. Che gioia, o Vergine Santa, ricevere la grazia, ricevere Gesù e poter cantare con te: Magnificat anima mea Dominum! Che pace trovarsi sul Calvario della prova e poter ripetere con te, anche lacrimando, nella piena rassegnazione del cuore: Magnificat anima mea Dominum! Che dolcezza interiore elevarsi a Dio, sprezzando le gioie del mondo, e ripetere nel volo dell’anima al Bene eterno: Magnificat anima mea Dominum! Che poesia d’amore recitare con la Chiesa le grandi preghiere liturgiche, sentirsi sazi di elevazioni interiori, e volgere tutta l’anima a Dio in questo canto dell’anima tua, o Maria: Magnificat anima mea Dominum! Che conforto nelle aridità dello spirito, quando la povera nostra fontana si è come essiccata e non dà una goccia, ravvivare la scaturigine del cuore con questo tuo canto, e dare la vita alla povera terra inaridita: Magnificat anima mea Dominum!
Anche a costo di dilungarci, noi non possiamo passare oltre senza dare almeno uno sguardo fugace a questi aspetti luminosi del cantico di Maria, e a dilettarci nella molteplice rifrazione di questa gemma preziosissima del Nuovo Patto.
Non possiamo non commentare il profondo significato di questo canto d’amore che c’è stato donato per cantare a Dio la riconoscenza del nostro amore, perché uniti alla voce verginale della Mamma nostra, possiamo essere meno ingrati all’Amore che per noi discese dal cielo, e per amore ci redense col suo preziosissimo Sangue.

San Zaccaria non credé all’angelo e rimase muto e sordo fino al compimento della promessa; Maria credé e parlò, anzi cantò con una melodia che abbracciò tutti i secoli. Noi, figli suoi, cantando con Lei viviamo della sua grande fede, partecipiamo alla beatitudine del suo Cuore: Beata quae credidisti, e ci rendiamo meno inetti al compimento dei disegni di Dio in noi. 

sabato 12 agosto 2017

La tempesta del lago e Cristo Gesù

Commento al Vangelo della XIX Domenica TO 2017 A (Mt 14,22-33)

La tempesta del lago e Cristo Gesù


Al miracolo grandioso della moltiplicazione dei pani – come si rileva da san Giovanni (6,15) –, il popolo fu preso da tale entusiasmo che pensò di proclamare Re Gesù Cristo. L’idea di un Messia politicamente potente, radicata nella mente di tutti, e il pensiero di un re che avrebbe potuto provvedere alle necessità temporali della vita senza sforzo eccitarono il popolo a voler senza indugio inaugurare un regno di benessere materiale.
Il popolo, in quel momento, faceva capo agli apostoli che allora non erano immuni dal comune pregiudizio di un Messia glorioso, e perciò Gesù ordinò loro di passare all’altra riva del lago, mentre Egli licenziava le turbe. L’amor suo non poteva non rispondere agli atti di fiducia e di riconoscenza delle turbe, e chissà quante parole dolcissime dovette dire, e quante benedizioni dovette dare a ciascuno di quelli che gli tendevano le mani. Egli doveva anche sentire compassione per quella gente che si entusiasmava tanto per un beneficio temporale. Mai, come in quel momento, avevano avuto una manifestazione di fede più clamorosa, e mai questa fede era stata più meschina, tutta ristretta nelle cose fugaci della terra!
Licenziato il popolo, Gesù salì sopra un monte per pregare, mentre annottava; era la seconda sera. Gli apostoli erano lontani nel lago e, poiché il vento era contrario, la loro barca, sbattuta dai flutti, non riusciva ad approdare. Era la quarta vigilia della notte, cioè erano le tre del mattino.
Gli apostoli erano stati quasi tutta la notte alle prese con la tempesta, e forse avevano rivolto il pensiero a Gesù, per implorarne il soccorso. Gesù ascoltò il loro gemito e venne in loro soccorso, camminando sulle acque. Discendeva dal monte dove aveva pregato tutta la notte e, in quella sublimissima orazione il suo corpo attratto dall’estasi dell’anima, s’era fatto leggerissimo, molto più di quello che non avvenga nei santi, rapiti in alto. Scese dal monte, dunque, come in volo, e camminò sulle acque non rendendole solide con un miracolo, ma sorvolandovi sopra per l’altissima estasi della sua orazione. La sua andatura veloce, quasi come nube che passa, giustificò l’impressione degli apostoli che lo crederono un fantasma. Essi gridarono per lo spavento, ma Gesù li rassicurò, dicendo: Abbiate fiducia, sono io, non temete. Era distante dalla barca, com’è chiaro dal contesto, e forse il medesimo vento contrario sospingeva lontano il suo corpo, fatto leggero.

Lo slancio di san Pietro
Nell’impeto dell’amore, san Pietro gridò: Signore, se sei tu, comandami di venire da te sulle acque. Non voleva far saggio di un’acrobazia marina, in quel momento di angosciosa tempesta; gridò, per assicurarsi della verità; sentì che egli doveva confermare nella verità i suoi compagni. Gesù gli disse: Vieni. Pietro, a quella parola di comando che ordinava il mare ai suoi passi e ne formava per lui una via, si gettò dalla barca senza pensare più a quel che faceva. L’impeto dell’amore lo aveva tratto in estasi, e il suo corpo s’era fatto leggero come quello di Gesù. Dio non fa opere superflue, e negli stessi miracoli usa un’economia mirabile, utilizzando le cause seconde da Lui create. Non c’era bisogno di solidificare le acque, quando Gesù, attraendo l’anima di Pietro nel suo amore, poteva, con un’estasi, renderlo leggero. Il contesto medesimo ce lo fa arguire.
Nelle estasi, infatti, si sa che il corpo, elevato da terra, è così leggero che un soffio può farlo dondolare nello spazio. San Pietro, fatto leggero dall’amore, si slanciò ma, vedendosi investito dal vento e come travolto proprio per la sua leggerezza, temette, si concentrò in sé, uscì dall’estasi d’amore, ridiventò pesante, cominciò a sommergersi. Vedendosi in pericolo, gridò a Gesù: Salvami!E Gesù, stesa la mano, lo prese, lo rimproverò dolcemente della sua poca fede, e con lui salì nella barca. Subito il vento si quietò e gli apostoli, stupefatti, adorarono Gesù, confessandolo per vero Figlio di Dio. Approdarono così facilmente sul far del mattino alla terra di Genesar o Genesaret, dove concorse gran turba di ammalati che, al solo toccare il lembo della sua veste, furono sanati.

Allora Pietro riconosce il Signore
È Pietro che riconosce il Signore; è il Papa che in un atto di umile fiducia intende che non è un fantasma, cioè un frutto di pericolose fantasie l’opera dell’amore, e per primo si slancia verso Gesù, domandandogli il segno della verità nel poter Egli stesso superare la tempesta. Il Papa, benché con quell’esitazione gli darà quasi l’impressione di inabissarsi in un gorgo d’illusioni, farà conoscere la grande manifestazione dell’amore di Gesù, e allora la Chiesa approderà nel lido della pace, e i popoli infermi, al contatto con la sua vita, che è come l’inconsutile veste del Redentore, saranno risanati. Prima la moltiplicazione del Pane eucaristico, fatta dall’amore di Gesù, poi la tempesta spaventosa, poi il riconoscimento di Gesù da parte di san Pietro, e subito la tranquillità, il sereno, la guarigione delle infermità del mondo al contatto della Chiesa.
Gesù Cristo moltiplicò i pani, dandoli agli apostoli perché li avessero distribuiti al popolo; era logico che avesse fatto così, data la grande calca di gente. Nella Chiesa, Egli opera alla stessa maniera, moltiplicando il Pane eucaristico; lo dà col suo amore, e ne affida ai sacerdoti la distribuzione. Dopo la moltiplicazione del pane materiale, il popolo pensò di proclamare Re Gesù Cristo, ed Egli si appartò sul monte, solo; ma, dopo la moltiplicazione del Pane eucaristico, non si apparta, anzi si mostra e trionfa, perché allora è acclamato Re di tutte le genti. Nella tempesta, la Chiesa griderà a Lui ed Egli, sedatane la furia, approderà a Genesar, all’orto del Principe, cioè alle nazioni prima apostate da Lui, e le risanerà al contatto della sua vita eucaristica, attraverso le sante Specie che, quasi come vesti, lo avvolgono e lo nascondono.
Giovanni fu decapitato da Erode, sobillato da Erodiade; Erode ed Erodiade, rappresentanze della carne che insorge contro lo spirito e perde la testa.
Padre dolindo Ruotolo

sabato 5 agosto 2017

Un saggio della divina gloria di Gesù Cristo

Commento Vangelo della XVIII Domenica TO 2017 A (Mt 17,1-9) – Trasfigurazione di Gesù
Don Dolindo Ruotolo
Un saggio della divina gloria di Gesù Cristo
Il programma proposto da Gesù ai suoi seguaci: rinnegarsi e prendere la croce, aveva dovuto abbattere non poco gli apostoli, e perciò Egli, nella sua carità infinita, volle sollevarne lo spirito, con una manifestazione gloriosa che doveva imprimersi nella loro mente per i giorni tristi che sarebbero venuti.
Partendo dai pressi di Cesarea di Filippo, giunse alle falde di un monte che la tradizione individua nel Tabor e, presi con sé i suoi apostoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, ascese alla sua cima, elevata a 780 metri sul lago di Genesaret e a 400 sulla pianura di Esdrelon. Non prese con sé tutti gli apostoli, perché avrebbero fatto pubblicità inopportuna, ma volle solo tre testimoni affinché avessero potuto sostenere la fede vacillante negli altri apostoli, scossa dalla continua propaganda ostile degli scribi e farisei.
Dal modo come san Luca narra l’avvenimento, si rileva che dovette avverarsi nella notte (cf Lc 9,28ss); Gesù era infatti salito sul monte per pregare, ciò che faceva di notte, e ne discese il giorno dopo, passando la notte sull’altura. Le tenebre e la solitudine diedero all’avvenimento un maggiore risalto. Il Redentore si mise in orazione, e si raccolse tutto nella gloria del Padre. L’anima sua, attratta dalla divinità, si trovò in piena visione beatifica, e il Corpo fu reso glorioso dalla luce divina. L’ineffabile purezza di quel Corpo divino non offrì neppure il più piccolo ostacolo alla luce eterna che tutto l’avvolgeva, lo penetrava e lo rischiarava, di modo che fu tutto luce e splendore. Il volto divenne come sole, in un’ineffabile espressione di gloria e le vesti per la gran luce che emanava dal corpo, si fecero bianche come la neve o, come dice il testo greco, come la luce. Era uno spettacolo grandioso, ineffabile che rapiva l’anima, e la trasfondeva tutta di pace, di godimento e d’amore.
I tre apostoli – come nota san Luca –, prima aggravati dal sonno, si svegliarono certamente allo splendore di quella luce divina, videro due personaggi che discorrevano con Gesù e, per divina ispirazione, riconobbero in essi Mosè ed Elia.
Furono presi da timore e subito dopo da una gioia interiore così grande che non sapevano esprimerla.
Psicologicamente, nelle grandi gioie che danno all’anima un senso di riposo e di raccoglimento, la fantasia si accende e fa progetti per conservare o accrescere il benessere che si prova. Gli apostoli si voltarono intorno, videro giù le oscure valli e d’ogni parte le tenebre, ebbero orrore del mondo nel quale vivevano e pensarono subito di voler rimanere sempre in quella felicità.
Si scambiarono certamente delle parole, perché nelle grandi sorprese, ognuno crede che chi gli sta vicino non se ne renda abbastanza conto, e ci tiene a manifestare le proprie impressioni, e a tener desta l’altrui attenzione.
Scambievolmente si additavano lo splendore di quella gloria, e scambievolmente si dicevano di non volere ad ogni costo staccarsene; perciò san Pietro, parlando a nome di tutti, si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, è buona cosa per noi stare qui; se vuoi, facciamo qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia.
Egli non sapeva quello che diceva – dice san Luca –, e difatti le sue parole erano povere e inceppate, come lo sono sempre in una grande emozione di gioia, e innanzi ad una grande maestà. San Pietro avrebbe voluto dire tante cose e non sapeva quello che dovesse dire; voleva esprimere tanti progetti di felicità stabile, e non seppe proporre che l’erezione di tre tende. È profondamente psicologico, poiché, nelle grandi emozioni, i progetti della fantasia, quando si esprimono, sfumano e di tutta una ridda d’immagini che sembrano grandiose, non rimane che l’espressione di un semplice desiderio rozzamente manifestato. I progetti della fantasia sfumano come un sogno che si dilegua e la parola diventa anche più povera, non sapendosi adeguare a ciò che è già di per sé inafferrabile.
«Questo è il mio Figlio diletto: ascoltatelo»
Mosè ed Elia conversavano con Gesù e – come dice san Luca –, parlavano della sua dipartita dal mondo tra i dolori amarissimi della Passione. Essi rappresentavano la Legge e i Profeti, e parlavano del compimento di ciò che avevano predetto e figurato. Non è detto nel Vangelo se gli apostoli ascoltarono questi discorsi; è possibile, e in questo caso può credersi che san Pietro abbia proposto di rimanere stabilmente su quel monte non solo per conservare quella felicità, ma anche per sfuggire alle insidie di morte che si preparavano a Gesù Cristo. Egli non sapeva quel che dicesse, non potendo penetrare nel disegno del Signore. Avrebbe voluto dirigere gli eventi e prevenire quelli futuri, senza capire che doveva farsi guidare dalla parola del Redentore. Dio stesso, perciò, si degnò rispondere alle ansietà degli apostoli; una nube luminosa avvolse Gesù, Mosè ed Elia, e dalla nube, che era segno della presenza di Dio, si sentì la voce placida, solenne e grandiosa del Padre che disse: Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo. Non si trattava dunque di fare progetti, ma di seguire il Figlio divino e ascoltarlo. Quelle parole furono piene di tanta maestà che i tre apostoli caddero bocconi per terra e furono presi da un gran timore. La sublime visione era terminata, e Gesù li scosse e li esortò a non temere. Essi alzarono gli occhi e videro solo Gesù, ritornato come prima, nelle sue umili apparenze.
Albeggiava e cominciarono a scendere dal monte; sorse anche il sole, ma quella luce dovette sembrare loro un’ombra di fronte a quella che avevano vista. Ferveva in loro il desiderio di raccontare l’accaduto e può supporsi che facessero uno speciale progetto di confondere gli scribi e farisei.
La loro fede, infatti, si era accresciuta, ed essi, nel loro cuore, l’avevano ora ben salda; si stupivano come gli scribi dicessero che prima del Messia doveva venire Elia, e ne domandarono spiegazione. Gli scribi, per dimostrare alle turbe che Gesù Cristo non era il Cristo, affermavano recisamente che doveva essere preceduto da Elia, secondo le profezie. Gli apostoli, certi ormai della verità, domandarono come gli scribi avessero potuto fare quella affermazione. Gesù Cristo, leggendo nei loro cuori l’ansia di parlare dell’avvenimento grandioso della trasfigurazione, lo vietò loro fino a dopo la sua risurrezione. La divulgazione di un fatto così importante, per il malanimo degli scribi e farisei, sarebbe servita solo ad aumentarne l’ostilità e li avrebbe resi maggiormente rei.
Ad essi, come a gran parte del popolo, ignorante e prevenuto, sarebbe apparsa una fiaba, e si sarebbe così svalutato un dono di Dio. La parte del popolo che ci avrebbe creduto, si sarebbe abbandonata a dimostrazioni politiche, rendendo vano, in tante anime, il disegno di Dio, e concentrandole in una falsa aspirazione temporale. Gesù, dunque, volle che non se ne parlasse se non quando la gloria inoppugnabile della risurrezione l’avesse reso non solo credibile ma salutare per le anime.
Rispondendo poi alla domanda degli apostoli riguardante Elia, Gesù Cristo distinse due venute del profeta: una alla fine del mondo per restaurare tutto e vincere l’anticristo, e una mistica e simbolica in un grande santo che avrebbe preparato a Lui la strada nello spirito di Elia. Questa seconda venuta s’era già realizzata in san Giovanni Battista, austero e forte come Elia, e martire come lui. Il popolo non lo riconobbe, e gli scribi e farisei lo ostacolarono in tutti i modi, come ostacolavano Lui stesso, tendendogli insidie e desiderandone la morte. Se non avevano riconosciuto il Battista, e non avevano ascoltato la sua voce, pur avendo essa tanto prestigio, come avrebbero potuto credere alla gloria della trasfigurazione?

In quel momento non c’era da pensare che alla Passione e Morte, unica via scelta dalla Provvidenza per la redenzione degli uomini.