sabato 25 aprile 2015

Il buon Pastore e il mercenario

Commento al Vangelo: IV Domenica di Pasqua 2015 B (Gv 10,11-18)

Il buon Pastore e il mercenario
Il Messia era stato caratterizzato dai profeti come il Pastore del suo popolo (cf Is 40,11; Ez 34,23; 37,24; Zc 13,7, ecc.), e Israele era stato chiamato gregge del Signore (cf Ez 34,5; Mic 7,14; Zc 10,3, ecc.). Gesù Cristo affermò solennemente che questi vaticini si erano avverati in Lui, proclamandosi pastore, anzi, buon pastore non solo del popolo ebreo ma di tutti gli altri che Egli avrebbe uniti al primo suo gregge, formandone un solo ovile sotto un solo pastore. Dal modo com’Egli parlò, traspare tutta la sua tenerezza verso le anime e, dal contrapposto che fece tra il buon pastore e il mercenario, tutto il dolore che provava non solo per i falsi pastori del popolo ebreo, ma per i pastori falsi e mercenari di tutti i secoli. Io sono il buon pastore esclamò –; era venuto per dare la vita e per darla abbondantemente, e la dava alle sue pecorelle non solo pascolandole, ma immolandosi per loro; perciò soggiunse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle e, secondo l’espressione del testo greco, dà la vita in prezzo di redenzione.
Egli era l’unico pastore che pascolando si offriva, e salvando dalla morte le sue pecorelle s’immolava per esse. Nell’Eucaristia donò se stesso, offrendosi al Padre e immolandosi incruentamente, e sulla croce s’immolò cruentamente. Per confermare e rendere vivo questo grande pensiero, Gesù Cristo ritornò alla similitudine dell’ovile e delle pecorelle, e disse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle; il mercenario, invece, è chi non è pastore, e al quale non appartengono le pecorelle; egli, quando vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo rapisce e le disperde. Il mercenario poi scappa perché è mercenario e non gl’importa delle pecorelle.
I pastori di pecore conducono una vita solitaria nei campi e l’unica loro compagnia sono quei placidi animali che conducono al pascolo. Essi li amano come loro proprietà, e quasi come parte della loro vita; la docilità che esse hanno ad ogni loro cenno ispira ad essi una grande tenerezza, e la loro debolezza di fronte ai pericoli li rende solleciti nel difenderle. Un gregge è come una famiglia di cui il pastore si sente il capo, e perché le pecorelle lo riconoscono e ne ascoltano la voce, egli se ne sente quasi padre, e non esita ad affrontare dei gravi pericoli per difenderle, soprattutto contro le insidie dei lupi. Nelle solenni solitudini dei campi non c’è forse una scena più soave e commovente come quella di un gregge che pascola, e del pastore che lo vigila. Raccolte a gruppi, brucano le erbe, corrono di qua e di là, si riposano, e il loro belare è come un’armonia serena che si disperde lontano nelle ampie solitudini verdi e tranquille.
Gesù Cristo non poteva scegliere una similitudine più bella per significare l’unione delle anime a Lui, e la sua infinita tenerezza nel pascolarle.
L’arte ha raccolto in mille modi questa soave parabola, e ne ha formato innumerevoli quadri, dai quali traspare sempre la tranquilla pace delle anime che sono condotte ai pascoli da Gesù, e il suo infinito amore nel pascolarle. Egli è il buon Pastore, e le anime per essere guidate da Lui debbono essere docili, semplici, silenziose e affettuose come pecorelle. Egli le ama, le guida, le difende, le nutre e dà la vita per loro, Vittima perenne di redenzione e di amore sugli altari. È questa la sua sublime regalità, tanto diversa da quella dei reggitori di popoli, solleciti della loro gloria e del loro tornaconto. È questa la sua amorosa paternità per le anime, tanto diversa da quella di coloro che le reggono come mercenari, e che al primo pericolo che le minaccia fuggono e le lasciano in balia di quelli che le uccidono. Un pastore mercenario non ama le pecorelle, ma la paga che guadagna per il servizio che presta; il gregge anzi, gli è di fastidio, perché rappresenta il peso della sua giornata e, quando si trova di fronte ai lupi che lo assalgono, fugge per mettersi in salvo, non avendo nessun interesse a salvare le pecorelle.
Tali erano i pastori d’Israele, e tali sono i pastori degeneri che riguardano il ministero come un’occupazione qualunque e una fonte di guadagno. Non parliamo, poi, dei cosiddetti protestanti e di quelli di altre sette, i quali non solo sono mercenari, pagati per strappare le anime alla Chiesa, ma sono falsi pastori, ladri e assassini che non entrano nell’ovile per la porta, non hanno alcun mandato di reggere le anime e rappresentano essi medesimi i lupi rapaci che le uccidono e le disperdono.
Dopo aver detto che Egli è il buon pastore perché dà la vita per le pecorelle, Gesù Cristo soggiunge che Egli ha tanta premura per le sue pecorelle che le conosce ad una ad una, si comunica loro, ed esse lo conoscono. Come il Padre, conoscendo se stesso, genera il Figlio e gli comunica la vita infinita, e come il Figlio conosce il Padre, dandogli una lode infinita, così Gesù Cristo conosce le sue pecorelle, vivificandole ad una ad una, come se fosse tutto e solo per ciascuna, e dà la vita per loro, ad una ad una, di modo che ogni sua pecorella ottiene in pieno il frutto e i benefici della redenzione. Le pecorelle, poi, vivificate da Lui, lo amano perché lo conoscono e lo glorificano. C’è dunque, tra Gesù buon pastore e le sue pecorelle, un’unione d’amore che Gesù stesso paragona all’unione del Padre con Lui Verbo eterno. Egli dona loro la vita, ed esse lo glorificano e lo amano; Egli le cura singolarmente, una ad una, ed esse lo amano d’amore singolare.
Gesù parlava agli Ebrei, ed essi avrebbero potuto capire che essi solo erano i privilegiati, eletti per essere il suo ovile, e per averlo come Pastore; Egli, invece, doveva chiamare al suo Cuore tutte le genti della terra, e perciò soggiunse: Ho altre pecorelle che non sono di quest’ovile; anche quelle bisogna che io conduca; esse ascolteranno la mia voce, e si farà un solo ovile e un solo pastore. Egli chiamò i pagani alla fede, e alla fine dei tempi chiamerà alla Chiesa gli Ebrei dispersi, formando così di tutte le nazioni un solo ovile sotto un solo pastore, il Papa. Dopo un periodo di apostasia generale, Gesù, con l’effusione di nuove grazie, chiamerà tutti i popoli al suo Cuore, e Israele finalmente conoscerà la sua voce, lo crederà come Messia e Redentore, si unirà alla Chiesa Cattolica, e si formerà così un solo ovile di tutte le genti, in una grande glorificazione di Dio su tutti i cuori. Questa glorificazione sarà frutto del Sacrificio della croce, e del rinnovarsi di questo Sacrificio nell’Eucaristia, e il Sacrificio si realizzerà perché Gesù si offrirà completamente alla divina volontà, dando la vita sulla croce, riprendendola nella risurrezione, e rinnovandone, poi, l’offerta sugli altari. Per questo Gesù soggiunse: Il Padre mi ama perché io do la vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma io la dono da me stesso, e ho il potere di darla e il potere di prenderla di nuovo. Questo comandamento ho avuto dal Padre mio.

Ai pastori d’Israele che lo perseguitavano in nome della loro autorità, Gesù, dunque, annuncerà che Egli solo era il buon pastore, e che la loro autorità era tramontata. Ad essi, che avevano congiurato di ucciderlo, dichiarò che sarebbe morto solo per propria elezione, e che questo era conforme al piano della divina volontà. Annunciò la costituzione del nuovo suo ovile, formato dalle genti tutte della terra, e abbatté così, per sempre, le barriere che avevano separato Israele dagli altri popoli. Egli, prendendo la croce, avrebbe preso in mano lo scettro della sua regalità e il vincastro del suo pastorale ministero d’amore, portando al pascolo le sue pecorelle.

Padre Dolindo Ruotolo

sabato 18 aprile 2015

Gesù appare agli apostoli




Commento al Vangelo: III Domenica di Pasqua 2015 (Lc24,35-48)


Gesù appare agli apostoli

Rimessisi un po’ dall’emozione, i due discepoli raccontarono quanto era loro accaduto per strada e come avevano riconosciuto Gesù nella frazione del pane. Forse il loro racconto cominciò a suscitare diffidenze, come avviene spesso quando si riferisce a gente incredula un fatto soprannaturale, quando Gesù, improvvisamente, stando chiusa la porta entrò in mezzo a loro ed più soggetto esclamò: La pace sia con voi; sono io, non temete. Il suo Corpo glorioso, non alle leggi della materia, non conosceva ostacoli, e molto più di quel che non faccia un’onda elettrica, passò attraverso le mura e la porta. I congregati, già impressionati da quello che ascoltavano dai discepoli di Emmaus, ne furono turbati e atterriti, credendo di vedere uno spirito.
Se avessero creduto a quello che dicevano i discepoli, non avrebbero supposto di trovarsi di fronte ad un fantasma. Gesù, con una grande amorevolezza, per toglierli dall’angustia, soggiunse: Perché vi turbate, e quali pensieri sorgono nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi, sono proprio io; palpatemi e guardate, perché lo spirito non ha carne ed ossa come vedete che ho io. Detto questo, mostrò loro le mani e i piedi e li fece toccare loro, ma essi non crederono ancora, benché avessero il cuore pieno di gioia al divino contatto.
Questo ci fa vedere in quale stato di miscredenza ancora si trovassero e quanto fitte fossero le tenebre del loro spirito. Toccavano con mano, vedevano con gli occhi e non credevano. È terribile! Erano più increduli dello stesso san Tommaso, la cui mancanza di fede è diventata proverbiale; il loro intelletto era oscurato completamente, poiché rimaneva in loro ancora l’idea che il Maestro non avesse potuto risorgere.
Così fanno i miscredenti per partito preso: dicono di voler tutto osservare e controllare e, quando toccano con mano la verità, neppure credono, perché il loro cuore è guasto e annebbiato. Non cercano il motivo della credibilità ma quello della miscredenza, e non cedono di fronte all’evidenza, rinnegando praticamente lo stesso positivismo balordo per il quale dicono di non credere. Se si umiliassero e riconoscessero la loro ignoranza, riavrebbero la luce della verità e quella della fede, ma sono ostinati e non vogliono credere.
Di fronte all’ostinazione degli apostoli Gesù, lungi dall’abbandonarli come avrebbero meritato, ricorse ad un altro espediente: Essi erano fuori di loro per la gioia, come dice il Sacro Testo; non credevano ai loro occhi e al loro tatto, non per ostinazione di malizia, ma per la stessa sorpresa di ciò che vedevano; erano come fuori della realtà della vita, e non sapevano trarre la logica conseguenza di quello che vedevano; perciò Gesù, richiamandoli alla realtà e distraendoli da quello stupore che impediva loro di riflettere, esclamò: Avete qui qualche cosa da mangiare? Ed essi gli presentarono un pezzo di pesce arrostito e un favo di miele; Gesù ne mangiò alla loro presenza, e quello che avanzò lo diede loro perché ne avessero mangiato e l’avessero mostrato agli altri come testimonianza della sua risurrezione.
Gesù Cristo, avendo un corpo reale poteva mangiare, benché fosse glorioso. Il cibo penetrò veramente nello stomaco, e si mutò interamente in sua sostanza, senza bisogno di digestione. Egli si degnò di partecipare alla nostra vita per santificarla e, mentre prima della Passione aveva mangiato la Pasqua con le erbe amare, simbolo del pellegrinaggio terreno, dopo la risurrezione mangiò il favo di miele, simbolo delle dolcezze della gloria eterna.
Nella Cena, mangiò l’Agnello pasquale, figura di Lui stesso immolato, e dopo la risurrezione mangiò il pesce arrostito, simbolo del suo amore eucaristico; l’agnello vive nella terra, simbolo dell’anima pellegrina, e il pesce nel mare, simbolo dell’anima beata dell’immensità della gloria di Dio, nella quale è come sommersa per l’eterna beatitudine.
Di fronte all’evidenza di veder consumato il cibo che gli avevano dato, gli apostoli crederono, come appare chiaramente dal colloquio che Gesù ebbe con loro; ma nel loro spirito c’erano ancora delle tenebre sulla sua Passione e Morte, ed Egli le dissipò, richiamando la loro attenzione sul compimento delle profezie che lo riguardavano, da Lui già annunciate loro prima di patire. E perché avessero potuto intendere appieno quanto di Lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei profeti e nei salmi, cioè in tutta la Scrittura, ne comunicò loro l’intelligenza con una grazia particolare, perché avessero potuto intenderle e insegnarle agli altri, evangelizzando tutte le genti.
San Luca sintetizza, in queste poche parole, le raccomandazioni e le istruzioni che Gesù Cristo fece agli apostoli nei quaranta giorni nei quali rimase con loro, prima di congedarsi definitivamente e ascendere al cielo. Fu in questi trattenimenti che Egli promise lo Spirito Santo, e li esortò a trattenersi in Gerusalemme, per prepararsi a quella grande grazia che doveva trasformarli in messaggeri di misericordia, di perdono e di pace per tutta la terra.
Alla fine dei quaranta giorni, li condusse prima a Betania, per congedarsi da Marta, da Maria e da Lazzaro, e poi di là sul monte Oliveto, dove li benedisse e, sollevatosi verso il cielo, sparì dai loro occhi, assunto nella gloria.
Fu quella l’ultima e definitiva prova che diede della sua divinità, e per questo gli apostoli e quelli che erano con loro lo adorarono, riconoscendolo pienamente Figlio di Dio.
         Ritornarono poi a Gerusalemme pieni di gaudio, per le grazie ricevute, delle quali, ora, valutavano tutta la magnificenza, e stavano nel tempio continuamente, lodandone e benedicendone Dio. Essi, infatti, si svegliarono come da un sonno e, accorgendosi di non aver apprezzato abbastanza gli immensi doni ricevuti da Dio, cercarono di riparare alla loro manchevolezza, andando a ringraziarlo continuamente nel tempio.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 11 aprile 2015

Gesù Cristo appare agli apostoli

Commento al Vangelo della II Domenica di Pasqua 2015 B (Gv 20,19-31)

Gesù Cristo appare agli apostoli
Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.
La paura è sempre una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse: La pace sia con voi.
Il momento fu solenne, ed è difficile, per noi, formarcene una pallida idea.
Il Corpo di Gesù, essendo risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano sottigliezza, per la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde radiofoniche e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà ostacoli insormontabili ai corpi. Il Corpo glorioso è come spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e tutto energia, e può attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio. Gesù Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli apostoli. Non irradiava luce quasi fosse un sole, come può arguirsi da apparizioni di esseri ultramondani, ma era Egli, come un corpo tutto splendente, luce placidissima che non abbagliava.
Gesù, ritto nella sala, vestito non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima che elevava l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I discepoli, vedendo il Signore, gioirono. Era la gioia della vita piena che emanava da Colui che era la vita; era la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le ansie oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come faro luminoso, dal quale veniva tracciata la via del Cielo.
Gioirono i discepoli nella gioia della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella gioia, si estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è gioia più grande della purezza integrale: è una gioia che nasce dall’amore di Dio che si trasfonde nell’anima come luce di verità, come calore di carità, e come complesso di bontà. In noi c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia spirituale è sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere Gesù, si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una grande serenità, e dicendo: La pace sia con voi, li avvolse in quella pace che spira da Dio, Verità, Sapienza e Amore eterno.
Pace, tranquillità d’ordine, serena sicurezza, riposo d’amore nell’eterno Amore!

A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi…
Gioirono i discepoli, ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come il Padre ha mandato me così io mando voi.
Con delicatezza divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati.
Dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento (Sess. XIV, can. 3). Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le disposizioni interiori che lo animano.
Con divina delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo.

Gesù Cristo risana Tommaso dalla sua incredulità
Quando Gesù apparve agli apostoli, Tommaso non era con loro. Di carattere più indipendente, di volontà più ostinata, forse aveva creduto inutile starsene rinchiuso nel Cenacolo, o forse anche era andato a sbrigare qualche faccenda. Era colui che meno aveva creduto al messaggio delle pie donne e di Maria Maddalena, e può darsi che, sentendone parlare e discutere, si fosse così disorientato e urtato, da uscirsene. Per lui ormai era certo che Gesù era morto che le speranze riposte in Lui erano fallite, e che ostinarsi ad attendere ancora eventi che gli sembravano ormai impossibili era lo stesso che esporsi alla derisione e dar di volta al cervello. Il suo disorientamento si accrebbe quando, al ritorno, seppe dagli altri apostoli dell’apparizione di Gesù.
È evidente che gli dovettero raccontare tutto minutamente, e che, al suo ostinarsi nel non credere, dovettero ripetutamente fargli notare che essi avevano visto proprio le ferite delle mani, dei piedi e del costato, e che non c’era dubbio che fosse proprio Lui. Ma Tommaso credeva di scorgere nella gioia, nell’entusiasmo e nella certezza dei compagni, i segni di un’esaltazione fantastico, e perciò, alle loro insistenti affermazioni, rispose: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.

Gesù appare di nuovo, presente Tommaso, che è guarito dalla sua incredulità
Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo tutti raccolti nella casa, e Tommaso era con loro. Forse pregavano; certo erano in un momento di raccoglimento nel quale era più facile la mozione della grazia.
Crediamo che Maria si trovasse con gli apostoli, e che fu proprio Lei ad implorare la grazia della conversione per Tommaso. Come Madre amorosa che prendeva cura attiva dei figli affidatile da Gesù, conobbe o fu addirittura presente al disorientamento di Tommaso, e supplicò il Figlio suo divino a sanarlo. A Lei dovette suscitare tanto dolore l’incredulità di un apostolo, e vide in essa la rappresentanza dell’incredulità dei diffidenti e presuntuosi nella fede.
Quale gioia per gli apostoli e quale sorpresa per Tommaso! Egli si voltò, lo vide, lo riconobbe: era Lui! Allibì per un momento, temette, si turbò, ma Gesù gli effuse subito nel cuore la serena tranquillità, dicendo: La pace sia con voi. La tracotanza di Tommaso fu in un momento fiaccata, e nel suo cuore cominciò a sorgere un tumulto d’amore e di umiliazione. Gesù lo chiamò a sé, e lo invitò a mettere il dito nelle sue piaghe e la mano nel suo costato, dicendogli con infinito amore: Non voler essere incredulo ma fedele.
Il Sacro Testo non dice se Tommaso abbia messo il dito e la mano nelle piaghe di Gesù, ma noi crediamo che il Redentore ve l’abbia costretto. A quella vista, a quel contatto, Tommaso si prostrò e, adorandolo, disse: Signor mio e Dio mio. Non poté dire altro: il cuore gli scoppiava dal dolore e dall’amore, la fede divampava in lui, l’abbandono era pieno nel suo Redentore e nel suo Dio. Ma Gesù soavemente lo rimproverò, per completare la grande lezione che voleva dare ai secoli futuri, dicendo: Perché hai visto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto. Non è fede il credere perché si vede, ma il credere per l’autorità di Dio che parla per la Chiesa; è solo allora che l’anima riposa nella verità. Ogni propria constatazione può essere fallace, ogni esperienza personale può essere offuscata dalla fantasia, ogni propria persuasione può mutarsi col mutarsi delle circostanze che l’hanno formata; solo la parola di Dio è sicura, solo la voce della Chiesa ce la può accertare e solo credendo ciò che non si vede e non si tocca con mano si può dire di aver fede e di credere in verità veramente divine.

Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto
Siamo in tempi di stolto positivismo, nel quale si vuol tutto vedere e toccare con mano, trascurando le positivissime basi della verità, della sapienza e della vita. Tommaso dolorosamente ha fatto scuola, e i suoi seguaci l’hanno superato; egli voleva toccare con mano Gesù, essi si restringono alla materia e vogliono toccare solo quello che sembra ad essi vita. Si è detto che giovò più san Tommaso alla nostra fede con la sua incredulità che gli apostoli con la loro fede, perché la sua incredulità fu l’occasione di una solenne conferma della risurrezione di Gesù Cristo.
È una frase che bisogna intendere con un granello di sale. L’incredulità non giova mai, neppure quando dà occasione ad una maggiore chiarificazione della verità, certo non per suo merito.
La chiarificazione viene dalla fede della Chiesa, non dalla provocazione della miscredenza. In realtà, se san Tommaso fosse stato fedele e avesse creduto, la sua fede avrebbe diffuso, nei secoli, un’onda di fede. Egli, invece, è stato preso quasi come vessillo di quelli che non credono al soprannaturale, e che pretendono di vedere e scrutare tutto.
Chi non ha, nella sua vita, un momento di stolta titubanza innanzi alla verità della fede? Chi non si lascia qualche volta turlupinare da satana che presenta come tenebre ciò che è luce? Chi non desidera, almeno qualche volta, toccare con mano la realtà dei misteri? Umiliamoci e, ricordando le parole di Gesù: Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto, cerchiamo questa santa beatitudine della fede che non vede e crede. Gesù non disse: Beati coloro che non vedono e credono, ma disse: Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto, indicando così, chiaramente, che la beatitudine di chi crede senza vedere si riepiloga in Cielo, dopo la vita presente; allora quelli che in vita non hanno visto e hanno creduto, avranno la gioia immensa di vedere tutto nel lume della gloria, in Dio stesso. La fede cieca, anche sulla terra dà la gioia della pace, poiché l’anima che crede riposa in Dio; ma la gioia della vita vera è riservata nell’eternità, dove tutto è chiaro, e dove si gode, contemplando la verità e l’armonia di ciò che si è creduto in terra.

Gesù Cristo disse: Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto, alludendo forse anche ai santi dell’Antico Testamento che sospirarono a Lui, e soprattutto alla fede di san Giuseppe e della Vergine Madre sua, ammirabili esemplari di fede profonda, perché lo contemplarono nella fralezza della sua vita mortale, nel nascondimento della sua maestà e nell’umiliazione estrema cui si ridusse per amore. Maria, poi, lo contemplò sul Calvario e nel sepolcro con vivissima fede, e fu l’unico Cuore nel quale rimase intatta, anzi ingigantita, la fede, quando tutto sembrò fallito, per la tragedia della Passione.
Padre dolindo Ruotolo

sabato 4 aprile 2015

La Risurrezione di Gesù Ccristo



Commento al Vangelo della Domenica di Pasqua 2015 (Mc 16,1-7)

La risurrezione di Gesù Cristo
Gli apostoli stavano rinchiusi per timore di essere catturati, e non ebbero neppure il coraggio d’andare al sepolcro; forse furono informati che vi era la guardia. Le pie donne, invece, ignare di questo e spinte dall’amore, comperati la sera del sabato gli aromi funebri, appena terminata, al vespro, la festa, si avviarono di prima mattina, il giorno seguente, primo della loro settimana, per imbalsamare il Corpo del Redentore. Fecero un cammino piuttosto lungo e giunsero al sepolcro mentre spuntava il sole.
L’amore le spingeva, ma si ricordarono che la pietra posta sulla tomba era molto grande, e si domandavano fra loro come avrebbero fatto a trovare qualcuno che l’avesse tolta in quell’ora. Alzati però gli occhi, si accorsero che era stata già tolta, ed entrarono trepidanti nella caverna. Trasalirono di stupore, vedendovi non il Corpo del Redentore, ma un angelo sotto sembianze di giovane, vestito di bianco perché tutto luminoso, il quale disse loro: Non abbiate timore; voi cercate Gesù Nazareno crocifisso; Egli è risuscitato, non è qui. E, mostrato loro il luogo dov’era stato deposto, le esortò a darne notizia ai suoi discepoli e in particolare a Pietro, dando loro convegno in Galilea. La Galilea era un luogo più pacifico, dove la riunione dei molti discepoli che Egli aveva, poteva destare minori rappresaglie. Gesù Cristo, in realtà, si mostrò subito, ripetutamente, ai suoi apostoli, come si mostrò certamente e prima di tutti, a Maria Santissima, per consolarla; ma volle la riunione di tutti i suoi apostoli e discepoli in Galilea.

La missione degli apostoli
San Marco ricapitola in pochi versetti gli avvenimenti che si verificarono dopo la risurrezione, perché erano molto noti in mezzo ai fedeli, ai quali, prima di tutto, si annunciavano, predicando il Vangelo, a conferma della fede. Egli accenna all’apparizione fatta a Maria Maddalena, a quella che ebbero i discepoli di Emmaus, e a quella che ebbero gli apostoli, e conclude ricordando la missione che Gesù diede loro e la sua Ascensione al cielo; ma in questi pochi accenni quante mirabili scene sono sintetizzate, quante delicatezze del Cuore adorabile di Gesù e – bisogna pur dirlo –, quante ingratitudini da parte dei suoi discepoli! La morte dolorosa di Gesù li aveva disorientati, ed essi avevano perso talmente la fede nel suo trionfo, da credere impossibile la risurrezione. Credettero visionarie le pie donne tornate dal sepolcro, e stentarono a credere persino quando Gesù medesimo apparve ad essi. Anzi, le stesse testimonianze della risurrezione disorientarono talmente due di loro che pensarono di ritornarsene al loro villaggio di Emmaus, non avendo più speranza alcuna nelle promesse del Maestro divino.
È doloroso pensare tutto questo, ed è più doloroso constatare che il cuore umano è sempre duro di fronte alle amorose espansioni del Signore.
Si crede facilmente ai disseminatori di errori e di stoltezze, e si è sempre titubanti innanzi allo splendore dell’eterna Verità.
Eppure la fede è confermata da tali innumerevoli argomenti di luce che bisogna essere ciechi per non vederne l’importanza e la realtà. Non crediamo a favole più o meno dotte: crediamo alla verità, e camminiamo nella nostra povera valle, alla luce degli eterni splendori. La nostra fede ci fa cacciare veramente i demoni che infestano la vita presente, ci fa parlare il linguaggio del Cielo, ci fa vincere i vizi che come serpenti ci insidiano, ci libera dal veleno del male e ci rende forti e sani nelle vie del nostro pellegrinaggio. Credendo, noi abbiamo come meta gloriosa il Cielo, dove Gesù Cristo è asceso per prepararci la dimora della felicità eterna. Non siamo dunque duri di cuore, e ripetiamo spesso il nostro atto di fede al Signore, per essergli fedeli e vincere il mondo.

La fede vera
L’evangelizzazione delle nazioni non è terminata: continua e continuerà fino al termine dei secoli; abbiamo tutti il dovere di cooperarvi con la preghiera e con l’azione, affinché il regno di Gesù Cristo si dilati, e si formi di tutte le genti un solo ovile sotto un solo Pastore. Ogni anima cristiana deve preoccuparsi della salvezza delle altre, perché è inconcepibile un cristiano ristretto nel suo egoismo. Il mondo è duro di cuore e non presta fede a quelli che attestano la verità; ma noi dobbiamo vincere la sua durezza con la nostra fede e la nostra carità. Non basta per noi una fede superficiale, fatta più di una certa condiscendenza ad una tradizione nazionale o familiare, anziché di profonda convinzione e adesione a Dio che rivela e alla Chiesa che ci illumina e ci guida: occorre una fede piena, capace di manifestazioni grandi e potenti e di frutti miracolosi di grazia.
Gesù Cristo enumerò alcuni miracoli esterni che sarebbero stati segni della fede viva: cacciare i demoni, parlare nuove lingue, prendere in mano i serpenti, e in generale trattare anche con gli animali nocivi senza averne danno, essere immuni dai veleni e guarire gl’infermi.
Questi miracoli avvennero veramente nei primi tempi della Chiesa, e avvengono nelle missioni, a conferma della verità, anche oggi; ma quando non c’è bisogno di questi segni impressionanti, la nostra fede dev’essere così grande, da produrli spiritualmente in noi e negli altri; la nostra fede dev’essere piena, e tale da ripudiare ogni suggestione diabolica.
Demoni sono gl’insidiatori della fede; demoni i falsi profeti, i falsi filosofi e i creatori di ideologie anticristiane; ora, questi demoni dobbiamo avere la forza di cacciarli, e se non lo facciamo è segno che crediamo poco.
Il mondo ha un linguaggio ignobile e, nella migliore ipotesi, tutto naturale e ristretto nella materia; noi dobbiamo parlare la lingua del Cielo, e mostrare, nelle parole più comuni della vita, la nostra spiritualità.
Non possiamo appartarci dal mondo nel quale viviamo, ma dobbiamo passarvi senza riceverne nocumento, come chi maneggia i serpenti e non ne è morso, beve il veleno e non ne riceve danno.

Il mondo è pieno d’infermità corporali e spirituali, e noi dobbiamo curarle con la nostra fede che sboccia nella carità. Una fede senza carità è una fede paralitica o morta; i miracoli non sono solo quelli che fanno i santi per dono gratuito di Dio, ma sono anche quelli della carità. Un cuore che si espande per amore di Dio che consola che soccorre che muta un’anima abbrutita in un fiore del campo di Dio e un corpo dolorante in un’oasi di pace e di conforto mostra in sé una grande fecondità di fede, e glorifica la verità anche innanzi ai miscredenti.
Padre Dolindo Ruotolo