sabato 31 ottobre 2015

La beatitudine vera di chi peregrina in terra

Commento al Vangelo – XXXI Domenica del TO 2015 B (Mt 5,1-12)

La beatitudine vera di chi peregrina in terra

L’uomo tende alla beatitudine, alla piena felicità, alla gioia, perché fu creato da Dio per godere eternamente. L’essenza medesima del fine per cui viviamo è questa, poiché il Signore ci ha creati per la sua gloria; e per renderci sua voce di gloria ci riempie della sua grazia, nel compimento, poi, della sua volontà che è sommo bene, ci comunica la sua felicità. La beatitudine, quindi, sta tutta in Dio, ed è da Lui solo che la si può attingere: sta nella conoscenza delle sue perfezioni e nel compimento della sua volontà.
La beatitudine è un premio, e come tale suppone la prova; perciò, prima di raggiungerla eternamente in Cielo, noi subiamo la breve e passeggera angustia della vita presente. Quest’angustia tende ad addestrarci alla ricerca di Dio, alla sua conoscenza, al suo apprezzamento e al compimento della sua volontà.
La vita, quindi, è più gravosa quanto più è impigliata nell’ambito della terra, ed è più beata quanto più se ne distacca.
Tutte le raffinatezze della vita del tempo non sono che fili di una rete che tarpa ogni volo dell’anima, e che rende più ardua la conoscenza di Dio e il compimento della sua volontà; esse, perciò, hanno un segreto di somma infelicità.
È l’esperienza quotidiana che ce ne convince, e bisogna pur avere il coraggio di liberarsi da tutte le menzogne convenzionali, con le quali satana, il mondo e la carne ci trasportano sulle false altezze unicamente per farci precipitare o per farci adorare le brutture dello spirito maligno.
È per convenzionalismo – bisogna riconoscerlo –, che noi stimiamo grandi certe altezze della vita terrena, dicendo grande la filosofia, la scienza, la politica, le arti, la letteratura ma, in realtà, nessuno oserebbe dire che queste cose rendono beata la vita. Sono alture sulle quali si ascende a grande fatica e che, raggiunte, fanno scorgere solo i monti impervi che non si raggiungono, e gli abissi che ad ogni passo falso minacciano d’inghiottirci.
Se si vuol essere giusti, bisogna confessare che nel mondo il reparto più colmo d’infelicità è proprio questo che appare come una meta delle aspirazioni umane. Chi ha raggiunto una vetta scoscesa, strapiombante nell’abisso, sembra un dominatore a chi lo guarda da lontano, ma egli solo conosce le vertigini di quella posizione sulla quale non vorrebbe essere mai giunto. Da quelle altezze non si va oltre, si discende, e la discesa ha sempre le vertigini dell’abisso. Tutto è avvelenato d’assenzio e di amarezze indicibili in questa vita, anche le ricchezze che sembrano i beni più immateriali e più semplici, mezzi infallibili di nuovi beni; tutto come l’ortica, anche quando non appare, dà punture fastidiose. Noi, infatti, abbiamo, per così dire, due capacità nella vita: una materiale che è limitatissima e che, ricolma, preme sulle pareti e le strazia, ed una spirituale che esige un vuoto sempre maggiore per essere riempita di ciò che viene da Dio.
Tutto quello che è eccessivo nella materia dà la pena dell’indigestione, e tutto quello che pretende riempire la capacità dello spirito con la materia, dà lo spasimo dell’avvelenamento.
Sono verità che magari non si ha il coraggio di sperimentare, perché si ha l’orecchio assordato dagli inviti del mondo, del demonio e della carne, ma sono verità che si controllano, nostro malgrado, nella vita quotidiana.

Chi vive in città, e specialmente nelle fragorose metropoli moderne, riguarda la pace della campagna come un’oasi nel deserto: è attratto dalla rude semplicità primitiva, gli sembrano poeticamente attraenti le pareti disadorne, i piatti di creta, gli orcioli che fanno da bottiglie; i piedi nudi sul terreno brullo sembrano più belli delle calzature eleganti, lo scialle che incornicia il volto schiettamente sano di una contadina, sembra più attraente di tutte le eleganze mondane; si respira a pieni polmoni, si è come prigionieri liberati per un momento dai ceppi, o come uccelli fuori gabbia che raggiungono trillando i rami. È un momento di felicità relativa, dovuta alla semplicità di una povertà che non è miseria, ma è sazietà più proporzionata alla nostra capacità materiale. Il contadino non capirà magari la superiorità della sua condizione rispetto ai cittadini, come i bambini non intendono la felicità della loro spensierata età, ma non si può negare che quella vita ci fa invidia e fa invidia, molto più, a chi è tutto irretito nelle cose del mondo. Non è la povertà vera dello spirito, per l’incosciente scontentezza che l’accompagna, ma in se stessa è un’immagine e, se è accompagnata dalla pienezza spirituale che trae l’anima alle altezze eterne, è un saggio di vera felicità.
Don Dolindo Ruotolo 

sabato 24 ottobre 2015

Il cieco di Gerico

Commento al Vangelo – XXX Domenica del TO 2015 B (Mc 10,46-52)
Il cieco di Gerico

Gesù Cristo mostrò subito agli apostoli quale doveva essere la natura della loro potestà e come dovevano esercitarla. Stando nei pressi di Gerico, un cieco di nome Bartimèo, sentendo che passava Gesù Nazareno, cominciò a gridare a gran voce, implorando pietà. San Matteo dice che erano due ciechi, e noi, a suo luogo, spiegammo la difficoltà che presenta questa differenza nei due racconti. Nell’armonia del quadro evangelico, quest’unico cieco che grida è l’immagine e la rappresentanza dell’umanità addolorata che implora pietà dal Redentore, e che, cieca, immiserita, impotente a salvarsi da sé, si rivolge a Colui che può salvarla. Il popolo sgrida il cieco e vuol farlo tacere, come il mondo cerca di tacitare, con la forza, il grido degli afflitti, perché lo stima un fastidio. Le grandi civiltà non riescono ad eliminare le afflizioni del popolo, ma lo fanno tacere con le leggi repressive, acuendone l’esasperazione e le sofferenze. Gesù Cristo, invece, va incontro ai miserabili, li chiama al suo Cuore, li consola, e dona loro la misericordia e la pace. Anche in questo, le vie del mondo sono essenzialmente diverse da quelle di Dio.
Oggi le nazioni apostate, accecate dagli errori, siedono lungo le vie della vita terrena e non vedono nulla; sentono solo la loro miseria e cercano l’elemosina di un sollievo. Ma chi può darlo loro? Da quanti anni il povero cieco cercava l’elemosina senza che alcuno avesse potuto sollevarlo veramente nella sua principale infelicità! Solo Gesù poté risuscitargli la fede, chiamarlo a sé e guarirlo; solo gridando a Gesù, Re universale, le povere nazioni apostate possono ritrovare la fede, avvicinarsi al Redentore e riconquistare la vista dello Spirito e, con la vista, la tranquillità e la pace.
L’umanità grida, oggi, tra gli spasimi di una povertà morale mai conosciuta, perché è cieca! Elemosina lungo la via e non ha alcuna speranza di risorgere; elemosina il suo stentato sostentamento, ed è come abbandonata! Gesù la chiama quando tutti, opprimendola con l’inganno, tentano di strapparle il grido della preghiera e abbrutirla.
Essa deve ascoltare solo il suo Redentore e gridare più forte, perché la voce della preghiera le ottenga la grazia di una rinascita spirituale. Sta’ di buon animo dissero al cieco quando Gesù lo chiamò –; alzati, Egli ti chiama. E quegli, gettato via il mantello, balzò in piedi, e andò da Lui. L’umanità sembra perduta, ma le si può dire veramente: Sta’ di buon animo; alzati, Egli ti chiama, perché veramente il Signore chiama con i suoi flagelli. Essa deve gettare via il mantello delle iniquità che la ricoprono; deve balzare in piedi per un impeto di fede e deve andare da Gesù, con la ferma fiducia di guarire.

Il grido del mondo
Chi poteva considerarsi più privo d’ogni speranza come il povero cieco? Quando la pupilla si è spenta, nessuna forza umana può riattivarla. Eppure Gesù riaprì quegli occhi e, riaprendoli, attrasse a sé quell’infelice che lo seguì per la strada. Nessuna speranza può considerarsi fallita quando si va da Gesù con vera fede, perché Egli è onnipotente. Anche oggi lo stato del mondo non è senza speranza, perché Iddio ha fatto sanabili le nazioni; occorre solo che esse, accecate dall’apostasia e ridotte in estrema miseria, elevino il grido del loro cuore a Gesù, e vadano a Lui che chiama, gettando via, con coraggio, quel manto di falsa civiltà e di più falsa libertà che le ha ridotte nell’impossibilità di vedere.
Ci lamentiamo di certi cataclismi che succedono nel mondo, e ci sembrano inutili; eppure essi sono permessi o voluti da Dio per strappare alle generazioni umane quel manto di barbarie morale che si mostra come manto di civiltà e di progresso.
È inutile illudersi: certe forme di progresso sono spaventoso regresso; le grandi industrie, per esempio, hanno portato nel mondo la grande miseria, e l’hanno depravato fino all’idolatria della macchina e del lavoro, come è avvenuto in Russia.
La vita moderna, con i suoi complessi ingranaggi che sempre più si moltiplicano, rende impossibile la vita dello spirito, abbrutisce gli operai, opprime, toglie ogni libertà, rende nevrastenici e immorali, e questo non è civiltà, ma barbarie.
Gettiamo via le pesanti sovrastrutture che la stoltezza umana e l’insidia diabolica hanno fatto sull’ordine della vita, e gridiamo a Gesù che ci viene incontro nella sua misericordia: Signore fa’ che vediamo.

Vediamo il Cielo attraverso le nebbie della materia; vediamo Dio attraverso la creazione; vediamo Gesù attraverso i veli eucaristici; vediamo le meraviglie della Chiesa Cattolica e, con gli occhi aperti alla verità, seguiamo Gesù nelle povere vie della nostra vita.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 17 ottobre 2015

Dio esige che gli rendiamo gloria

Commento al Vangelo della XXIX Domenica del TO 2015 B (Mc 10,35-45)

Dio esige che gli rendiamo gloria
Il tratto del Vangelo che stiamo meditando ci presenta, come in un contrasto eloquente, le vedute umane e quelle di Dio, la ricerca dei propri interessi che degradano e quelli della gloria di Dio che elevano. I farisei interrogano Gesù Cristo sul divorzio perché non vedono che l’interesse della carne; vorrebbero che la Legge di Dio si adattasse alle loro passioni, e che la bellezza del connubio, immagine della vita di Dio che si conosce, genera e si ama, si riducesse alla ricerca di un piacere brutale che avvilisce, isterilisce e si consuma nella discordia e nell’odio.
Gli apostoli riguardano come un fastidio i fanciulli e li allontanano da Gesù, mentre essi, nella loro innocenza, sono templi vivi della divina gloria.
Il giovane che vuol seguire Gesù cerca l’onore ma rifugge dalla rinuncia; Pietro, che con gli apostoli lo segue, domanda, a nome suo e di tutti, la ricompensa del suo sacrificio.
Eppure la via del Redentore era tanto diversa, ed Egli, per contrastare le vedute terrene dei suoi apostoli, la ricorda loro con i fatti e con la parola: si mette in viaggio verso Gerusalemme, la città dove aveva nemici accaniti e potenti, e annuncia chiaramente che va incontro all’immolazione e al sacrificio completo. Questa è la sua via. Gli apostoli camminano a malincuore, si stupiscono come mai il Maestro abbia, secondo loro, l’imprudenza di andare in una città tanto pericolosa, e lo seguono timorosi.
Egli li precede, va avanti a tutti perché vuol dare la vita per la gloria del Padre e per la salvezza di tutti. Com’è bella questa scena!
Gesù va avanti, non teme il pericolo perché l’amore lo spinge. Gli apostoli non capiscono ancora e stentano a seguirlo.
Il Redentore non li illude con falsi miraggi; anzi, li chiama in disparte, e parla loro in tono profetico delle grandi pene che lo aspettano, della sua morte e della sua risurrezione. In disparte Egli può parlare loro più confidenzialmente, può effondere il suo amore e confortarli, ma gli apostoli non approfondiscono il suo discorso e, sentendolo parlare di risurrezione, immaginano che alluda al suo regno glorioso e al suo trionfo sui nemici, e passano dallo scoramento alle fantastiche speranze. Indice di questo stato d’animo è la domanda fatta da san Giacomo e da san Giovanni. Essi si avanzano e, come è detto in san Matteo, interpongono anche la mediazione della loro madre (cf Mt 20,20-27), per essere più sicuri di essere esauditi, e vogliono, in certo modo, impegnare la parola di Gesù, dicendo: Vogliamo che qualunque cosa ti domanderemo, Tu ce lo conceda. Gesù Cristo sapeva bene quello che volevano domandargli, ma li interrogò, perché avessero riflettuto a quello che presumevano avere. Certe aspirazioni fantastiche, infatti, quando vengono espresse, perdono quel fascino particolare che hanno e quando vengono dette innanzi agli altri possono incontrare una speciale opposizione che le sfata o, per lo meno, danno un senso di pudore.
Giacomo e Giovanni non esitarono, e domandarono un posto privilegiato a destra e a sinistra nella sua gloria.
In un momento nel quale Gesù parlava della sua Passione, Egli considerava chi sarebbe stato alla sua destra, e alla sua sinistra; sul Calvario che era come il trono del suo vero regno d’amore; Egli doveva essere, ahimè, messo a livello dei malfattori, e stare fra due ladri.
Forse a questo alludeva quando disse loro: Non sapete quello che domandate: Potete voi bere il calice che io bevo, ed essere battezzati col battesimo col quale sono battezzato?
Egli non poteva andare nel regno della sua gloria senza passare per il Golgota, e se gli apostoli avessero voluto stargli a destra e a sinistra nella sua gloria, avrebbero dovuto stargli vicini anche nella Passione e morte. Essi, invece, erano tanto lontani in quel momento da volerlo seguire nel dolore! Risposero, è vero, risolutamente che potevano bere il calice del Maestro, ma non sapevano quello che significasse, e forse capirono di dovergli fare da coppieri o da servi nel suo regno, dandogli la coppa per bere e l’acqua per lavarsi.
Gesù soggiunse, con un senso di tristezza, guardando il futuro, che essi avrebbero certamente bevuto il suo calice e ricevuto il suo battesimo di sacrificio quando sarebbero stati martirizzati, ma che il sedere alla sua destra o alla sua sinistra non stava a Lui concederlo, ma era per quelli ai quali era stato preparato.
Dalle meschine aspirazioni di un posto privilegiato in un regno temporale, Gesù trasporta i suoi apostoli alla visione del regno eterno, e dice che Egli non può concedere là un posto d’onore particolare a chiunque lo domanda, perché in Cielo tutto è ordine e gerarchia dipendente dalle disposizioni di Dio e non dal capriccio delle creature.
È evidente che Gesù non risponde ai due apostoli come Dio, ma come Redentore e come Re, perché essi avevano fatto appello al suo regno; ora, come Redentore, Egli era Mediatore tra Dio e l’uomo, e non poteva disporre ma intercedere; come Re, poi, in quanto uomo, Egli non poteva prescindere dalla divina volontà. Il Padre lo avrebbe fatto Re dell’universo anche in quanto uomo, ma il suo regno sarebbe stato il regno della divina volontà sugli uomini e su tutte le creature.
All’orgogliosa ambizione dei due apostoli, Gesù oppone la sua umiltà e, parlando in quanto uomo, interamente sottomesso alla volontà del Padre, dichiara che Egli non può assegnare i posti d’onore nel suo regno. Dicendo poi, com’è riferito da san Matteo, che quei posti li avrebbero avuti quelli ai quali erano stati preparati dal Padre suo, allude alla giustizia con la quale viene distribuito nel Cielo ogni premio, e che non basta desiderare un privilegio, ma bisogna meritarlo con le opere buone.
Gli altri apostoli considerarono la domanda di Giacomo e di Giovanni come una pretesa che poteva manomettere i loro diritti, e contrastava le loro ambizioni; ognuno di loro aveva in cuore un desiderio e un progetto da far valere nel regno di Gesù Cristo, da loro concepito come un regno temporale, e ognuno credé di essere danneggiato dalla proposta dei due loro compagni.
L’indignazione che ebbero rivela questo loro stato psicologico: quando, infatti, si prospetta da un capo la possibilità di mutamenti nell’ordine sociale, i suoi seguaci fanno immediatamente i progetti di quello che essi possono farvi e, con la fantasia, assegnano a loro stessi e a ciascuno gli uffici, proporzionandoli non al merito ma all’ambizione. In queste concezioni fantastiche tutto quello che sembra contrastarle causa un’indignazione, perché la fantasia eccitata confina con la pazzia e questa non tollera né contrasti né opposizioni.
Giacomo e Giovanni, domandando di sedere uno a destra e uno a sinistra nel regno di Gesù Cristo, pensavano di esercitare un dominio sui loro compagni, o per lo meno questi interpretarono così il loro desiderio, e se ne indignarono, perciò, grandemente; si rileva dall’esortazione che loro fece Gesù per pacificarli. Ognuno presume di avere qualità eccellenti per stare a capo, e ognuno aspira al comando perché, al proprio orgoglio, ripugna obbedire. Tutti gli apostoli credevano occultamente di poter comandare sugli altri, e il vedere che due di loro pretendevano una preminenza, li indignò.
Evidentemente cominciarono fra loro a discutere animatamente; perciò Gesù li chiamò a sé, evitando, con questo, che la discussione degenerasse. Li chiamò, e fece sentire loro che Egli era il loro Capo amorosissimo con quel gesto d’invito paterno, troncando nel loro cuore, d’un tratto, quel senso d’indipendenza e di comando che li aveva presi, e manifestò quale doveva essere, nella sua Chiesa, il concetto del comando e del dominio.

Egli additava così un’altra delle sue vie contrastanti quelle del mondo: i prìncipi della terra dominano sui loro sudditi, ed esigono di essere serviti; invece i capi della Chiesa dovevano essere come servi di tutti, poiché chi comanda per beneficare e per salvare deve dare e non ricevere, deve sacrificarsi e non soggiogare, e dev’essere come immagine viva del Redentore venuto sulla terra per servire le anime e per dare la sua vita per la redenzione di molti, cioè di tutti come tesoro di meriti, e di molti, ossia di quelli che effettivamente avessero voluto usufruire del comune tesoro di salvezza.

Padre Dolindo Ruotolo

sabato 10 ottobre 2015

Il giovane che voleva salvarsi

Commento al Vangelo della XXVIII Domenica del T.O. B 2012 (Mc 10,17-30)
Il giovane che voleva salvarsi


Dal medesimo contesto del Vangelo può rilevarsi che Egli era tutto compreso da questi pensieri, poiché rivolse uno sguardo di particolare amore e attenzione a un giovane che gli si presentò, per domandargli che cosa avesse dovuto fare per acquistare la vita eterna. Non dimentichiamo che Gesù Cristo era Dio, e come tale aveva tutto presente: le sue parole non erano mai ristrette in una visuale limitata, e riguardavano i secoli. Psicologicamente, diremmo quasi: se Gesù non avesse avuto il Cuore tutto pieno d’amore per la gioventù di tutti i secoli, non avrebbe manifestato una particolare benevolenza a un giovane che veniva a Lui più con una velleità di perfezione che con una vera volontà di essere santo.
Quel giovane, infatti, venne da Lui correndo e manifestando così l’entusiasmo dal quale era stato preso, e genufletté innanzi a Gesù, perché era come affascinato da quel volto divino. Corse, e nell’avvicinarsi e vederlo così sorridente, si entusiasmò della sua divina bellezza e bontà, e lo chiamò buono: Maestro buono che farò per acquistare la vita eterna?
Forse da lontano aveva visto con quanto amore aveva accolto i fanciulli, ed era rimasto conquiso da quella bontà così insolita agli arcigni farisei. Gesù volle fargli riflettere che quella bontà non era un tratto di gentilezza umana, ma scaturiva dalla divina bontà che diffonde la misericordia e la grazia, e soggiunse: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono fuori di Dio solo. Egli, poi, continuava ad aver presenti i secoli futuri, i tristi secoli della profanazione dell’infanzia e della gioventù, e volle proclamare contro i falsi padri e i falsi amici dei giovani che Dio solo è buono, Dio solo può attrarre con la sua bontà, e che la pretesa paternità dei tiranni verso i giovani è solo un inganno per accalappiarli.
I giovani – come questo del Vangelo –, corrono, perché sono dominati dall’impeto dell’entusiasmo; genuflettono, perché hanno una dedizione piena nel loro entusiasmo, e riguardano come buoni quelli che li attraggono, perché sono dominati dalla bontà e anche dalla bellezza.
Gesù volle dire che solo la bontà e la bellezza di Dio dovevano dominarli, e che essi non potevano avere aspirazioni fantastiche, ma dovevano avere come unica guida la Legge di Dio. Per questo soggiunse: Tu sai i comandamenti: Non commettere adulterio, non ammazzare, non rubare, non dir falsa testimonianza, non frodare nessuno, onora tuo padre e tua madre. Dunque è assurdo che vi siano altri decaloghi; è empio e nello stesso tempo ridicolo che un uomo di partito ardisca imporre i suoi precetti. La gioventù non può essere educata che nella legge di Dio e, se una qualunque altra legge prescinde da questa, serve solo a confonderla e a corromperla.
Forse il giovane del Vangelo, entusiasmato della bontà di Gesù, tratto da un desiderio confuso di misticismo e di perfezione fantastica, comune ai giovani nei loro impeti generosi, immaginò di sentire da Gesù precetti nuovi e regole complesse di vita spirituale; perciò provò un certo disinganno alla risposta che ebbe, e soggiunse, non senza una punta di compiacenza, che quelle cose le aveva osservate fin dalla sua prima giovinezza.
Il Redentore, a questa confessione di fedeltà alla Legge, guardò con tenerezza il giovane e lo amò. Forse gli manifestò questo amore abbracciandolo o ponendogli la mano sul capo; certo gli diede segni di particolare bontà.
Ma non conosceva Gesù che quel giovane era già un osservante della Legge? E allora, perché gliela ricordò? Non sapeva che non avrebbe aderito al suo invito di maggiore perfezione? E allora perché lo invitò?
Lo guardò e lo amò; eppure proprio allora quel giovane stava per abbandonarlo pieno di scoraggiamento.
Sembrano tutte oscurità insolubili, eppure non lo sono se si riflette ai pensieri profondi del Redentore: Egli parlava prima di tutto ai giovani più che a quel giovane, e volle affermare solennemente il dovere che essi hanno di porre, come base della loro vita, la Legge di Dio.
Volle provocare dal giovane una confessione di piena osservanza, per mostrare a tutti i giovani che non è affatto impossibile, alla loro età, custodire tutti i comandamenti di Dio. Sapeva che il suo invito ad una maggiore perfezione non sarebbe stato accolto, ma lo fece lo stesso, perché la sua misericordia non cessa di chiamarci e non si abbrevia su di noi solo perché gli siamo ingrati.
Egli si rivolse, inoltre, allora ai giovani ricchi, ai quali la vita sembra sorridere con maggiori attrattive, e mostrò anche ad essi la via dell’eroismo. La loro condizione di privilegio temporale non può giustificare in loro una minorazione spirituale, ed essi possono benissimo giungere alla vetta dell’eroismo, lasciare tutto, darlo ai poveri e, spogli dei beni temporali, cercare quelli eterni. Così hanno fatto, nella Chiesa, moltissimi santi, e l’invito di Gesù non è rimasto inutile; il giovane al quale parlò se ne andò rattristato e sconsolato, ma tanti giovani, ai quali indirettamente si rivolse, hanno accolto a migliaia il suo invito e la Chiesa è popolata sempre di poveri volontari che scelgono Dio solo come loro porzione e per loro eredità.

Le ricchezze che rendono poveri, la povertà che arricchisce
Il giovane che parlava con Gesù aveva molti possedimenti; non era semplicemente un ricco ma un proprietario, e perciò era impigliato in mille affari e preoccupazioni temporali. Per ascendere veramente a una grande perfezione avrebbe dovuto liberarsene, perché è quasi impossibile badare alle cose celesti tra gli assilli di quelle temporali.
L’esortazione di Gesù Cristo non era per lui un invito all’eroismo, ma diremmo un invito alla logica, e anche alla vera tranquillità; era logico lasciare tutto per conquistare Dio, ed era fonte di pace liberarsi dal peso delle cose terrene. Si potrebbe anche, psicologicamente, supporre che quel giovane fosse andato da Gesù proprio in un momento di angustie temporali; forse gli era sopraggiunto qualche disastro, qualche disinganno, qualche perdita, perché è raro che un’anima si muova verso ideali più grandi senza un disinganno della vita.
Ad ogni modo, quando egli ascoltò che per essere perfetto doveva lasciare tutto, si sentì come ricadere nel campo della realtà e, per reazione psicologica, si sentì più attratto ai suoi beni. Diciamo per reazione psicologica, perché noi siamo spiriti di contraddizione: vorremmo che gli altri assecondassero le nostre vedute pessimistiche e, quando non le assecondano, vi reagiamo; domandiamo consiglio non per ascoltare la verità, ma per sentirci confermati nelle nostre persuasioni; l’opposizione le fa rinascere più forti; ci appelliamo al parere di un sapiente, perché inconsciamente crediamo che non possa essere diverso dal nostro; se egli ci contraddice, il nostro giudizio immediatamente s’ingigantisce e vuole riaffermarsi; vogliamo essere incoraggiati non dissuasi, spinti non arrestati, elogiati non contrariati. Questo tumulto di sentimenti dovette agitarsi nel cuore del giovane alle parole di Gesù, e per questo si rattristò. Egli, poi, se ne andò sconsolato, perché vedeva impossibile andare dietro a Gesù, dati gli affari che aveva da sbrigare nei suoi possedimenti; aveva concepito una profonda simpatia per Lui, e il pensare di non poterlo seguire lo sconsolò, e se ne andò triste.

Quanto è difficile che i ricchi entrino nel regno di Dio!
Gesù Cristo vide, in quel gesto, tutta una storia, e col suo sguardo divino vide passare, in quel giovane, le generazioni dei ricchi del mondo che avrebbero ripetuto il suo gesto. In quel momento quel poveretto era una rappresentanza e una figura di quelli che s’impigliano nelle cose della terra, e perciò Gesù esclamò: Quanto è difficile che quelli che possiedono ricchezze entrino nel regno di Dio!
I discepoli rimasero stupiti per le sue parole, non tanto per il loro significato spirituale che non approfondivano, ma perché le crederono un assurdo. Persuasi, infatti che il regno di Dio, ossia il regno del Messia, dovesse essere un regno visibile e temporale, sembrava ad essi logico e naturale che i primi a farne parte dovessero essere i ricchi e i grandi del mondo. Anzi, sembrava loro che il reclutare un ricco nelle loro fila dovesse essere un gran vantaggio, sperando nell’aiuto che le sue ricchezze avrebbero potuto dare allo sviluppo della loro opera.
È questo, infatti, il punto debole di quelli che compiono qualche opera santa; è la breccia per la quale penetra nel cuore la fiducia umana e per la quale sfugge la piena fiducia che bisogna avere in Dio.
Per questo Gesù soggiunse, pieno d’affetto, compatendo alla loro debolezza, e pieno di dolore, considerando la loro mancanza di fede: Figliolini, quanto è difficile che entrino nel regno dei cieli quelli che confidano nel denaro.
In quella parola di tenerezza: Figliolini, traspariva anche il dolore di Gesù per il giovane che si era allontanato; Egli guardava con maggior affetto paterno i suoi cari perché allora glien’era sfuggito uno, e il suo Cuore pareva che se li volesse stringere al petto per non farli sfuggire. Che pena dev’essere per il Redentore delle anime perdere un’anima! Che pena gli facciamo noi, se non rispondiamo ai suoi inviti d’amore!
Nella risposta data agli apostoli, Gesù Cristo determinò che non intendeva parlare dei ricchi come tali, ma di quelli che confidavano nel denaro. Con questo, volle disingannare i suoi cari nel loro pensiero occulto che un ricco sarebbe potuto essere un aiuto al loro apostolato. Per mostrare loro le difficoltà, anzi che le ricchezze potevano opporre gravi difficoltà al regno di Dio, usò un proverbio che allora era comune per indicare una cosa impossibile: È più facile a un cammello entrare per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio. Dicendo queste parole Egli penetrò i loro cuori e li illuminò; fece intendere loro che il regno di Dio non era un semplice frastuono di apparenze, ma consisteva nel suo dominio paterno nelle anime, e perciò essi, passando da un concetto temporale a uno spirituale, si stupirono maggiormente, pensando che era impossibile praticamente la salvezza dei ricchi.
Come avviene nelle anime non ancora formate, essi passarono da un estremo all’altro, e considerarono come impossibile la salvezza dei ricchi, allo stesso modo come avevano creduto un vantaggio averli nelle loro fila. Gesù Cristo corresse il loro pessimismo, esortandoli a confidare nella grazia di Dio a cui nulla è impossibile; la salvezza è facile quando si confida negli aiuti celesti, è ardua quando l’anima si lascia attrarre e dominare dalle ricchezze. Le opere di bene, fondate sulle speranze umane falliscono; quelle fondate sull’aiuto divino prosperano. Ecco il grande segreto del regno di Dio.

Chi lascia tutto e segue Gesù…
San Pietro, vedendo Gesù rattristato e amandolo di particolare amore, volle consolarlo, dicendogli: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. Voleva dirgli con un senso di soddisfazione: “Puoi essere contento di noi, poiché abbiamo fatto quello che tu desideri”.
Non rifletté al poco che avevano lasciato né pensò che essi non erano dei ricchi; al suo amore sembrò sufficiente l’essersi staccato da tutto e l’averlo seguito.
Fu questo il sentimento dominante nelle parole di Pietro. Ma la psicologia umana, e la sua, in particolare, ha tante sfumature che non è facile approfondire: nel fondo dell’espressione di dedizione c’era un senso di compiacimento e una certa ostentazione di generosità, contrapposta all’atteggiamento del giovane che se n’era andato triste. C’era anche un pallido segreto d’interessamento spirituale, unito a uno più marcato di vantaggio temporale.
Gesù parlava di salvezza eterna, e Pietro se ne preoccupava un po’, in quel momento; parlava del regno di Dio, e l’apostolo non sapeva rinunciare alle proprie speranze temporali; perciò san Matteo dice che egli soggiunge: Quid ergo erit nobis? Che cosa sarà di noi? O anche: Che cosa ne avremo noi? Non parlava per solo interesse ma, conoscendo il Maestro nella sua ineffabile bontà, pensava che non potevano rimanere senza una ricompensa; questo sentimento era in lui quasi inconscio, ma era quello che più dominava la sua vita e quella degli apostoli, e perciò Gesù gli rispose, incoraggiandoli con una promessa che era apparentemente in prevalenza temporale, e che, in realtà, era quasi come un esame pratico di coscienza per loro, una misura che doveva far considerare loro, con umiltà, che non avevano fatto gran che nella loro rinuncia.
Gesù, infatti, non parlò di loro, ma in generale di chi abbandona la casa, i fratelli, le sorelle, il padre, la madre, i figli e i possedimenti per Lui e per il Vangelo, cioè per amarlo sopra tutte le cose e per esercitare il sacro ministero; parlò delle anime generose di tutti i tempi che si sarebbero consacrate a Lui, rinunciando a tutto, o che avrebbero tutto lasciato per l’apostolato; vide, negli apostoli, la loro rappresentanza, e parlò in un senso più ampio; nel medesimo tempo, enumerò delle rinunce che essi non avevano fatte perché poveri, e volle far considerare loro che dovevano avere un atteggiamento d’umiltà.
Egli promise, a quelli che avrebbero rinunciato a tutto per suo amore, il centuplo in questa vita in case, fratelli, sorelle, madri, figli, e campi, in mezzo alle persecuzioni, cioè nelle stesse persecuzioni del mondo e nelle stesse angustie di una vita immolata. Promise che avrebbero avuto case da abitare, fratelli, sorelle, madri e figli spirituali che li avrebbero consolati nelle angustie; che avrebbero avuto campi, cioè il necessario alla vita, nonostante le ristrettezze della vita del mondo e, nel secolo futuro, avrebbero avuto la vita eterna. Questo lo sperimentarono gli apostoli e lo sperimentano i religiosi.
Gesù non promise, com’è evidente, una vita comoda né scevra di pene, perché questo non sarebbe stato un vantaggio per lo spirito; promise il centuplo in mezzo alle persecuzioni, cioè la sicurezza degli aiuti temporali fra le necessità della vita e le angustie dei tempi, promise conforti spirituali e aiuti temporali in tanta generosa abbondanza, da essere come il centuplo di quello che si sarebbe ceduto per amore. Egli ha mantenuto e mantiene la sua promessa. Se ci sono gli scontenti della vita religiosa o sacerdotale che si credono delusi vedano bene prima se veramente hanno lasciato tutto col cuore, e se l’hanno lasciato per Gesù Cristo e per il Vangelo. Lasciare il poco unicamente per avere il più non sarebbe fare un sacrificio vero ma una speculazione e, dolorosamente, molte anime speculano sui loro apparenti sacrifici.
Per questo Gesù soggiunge misteriosamente che molti primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi, per dire che nella vita eterna avremmo avuto la sorpresa di vedere tra gli ultimi molti di quelli che hanno creduto di aver dato tutto a Dio, e di vedere tra i primi quelli che hanno rinunciato apparentemente a poco ma vi hanno rinunciato con tutto il cuore. Egli voleva delicatamente elogiare gli apostoli che avevano lasciato ben poco, ma quel poco era tutto quello che avevano, e voleva così sostenere la loro speranza in un premio eterno.

Ecco una scena piena di contrasti: un ricco che rifiuta l’invito di Gesù, e diventa estremamente povero di beni spirituali; dei poveri che rinunciano al poco che hanno e diventano immensamente ricchi di beni spirituali e degli aiuti, anche temporali, della provvidenza. Ecco da una parte il regno del mondo, ricco di risorse, che non riesce a eliminare la povertà, e il regno di Dio votato alla povertà, e ricco di grazie e di aiuti. Certo, non è da tutti lasciare ogni cosa per amore di Dio, ma quelli che lo fanno non debbono pentirsene, qualora servano al Signore fedelmente. Niente manca a chi è fedele ai suoi impegni spirituali, e la sua vita, spoglia di ogni ingombro di lusso, è illuminata sempre dalla grande speranza del Paradiso.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 3 ottobre 2015

La questione del divorzio

Commento al Vangelo della XXVII Domenica del TO 2015 B (Mc 2,16)
San Francesco d’Assisi

La questione del divorzio

Gesù partì dalla Galilea e giunse nella Giudea per andare a Gerusalemme e subirvi la dolorosissima Passione; ormai la sua vita volgeva all’epilogo, e il suo immenso amore abbracciava tutte le genti, per redimerle.
Come doveva essere doloroso al suo Cuore, in questi momenti solenni, vedere la doppiezza, l’incredulità e l’ingratitudine degli scribi, dei farisei e dei sacerdoti, sempre più lontani dall'intenderlo!
Egli camminava, pensando alla salvezza di tutti, e i suoi nemici lo insidiavano per trarlo in inganno e per avere il pretesto di condannarlo. È una cosa penosissima considerare queste stonature dell’ingratitudine umana!
I farisei interrogarono Gesù sulla questione del divorzio, perché, in tempi di corruzione e di grande immoralità, era quella che avrebbe potuto più facilmente attirargli contro l’odio dei grandi, infetti quasi tutti d’impurità; essi prevedevano quale poteva essere la risposta di Lui, ed erano certi che si sarebbe compromesso.
Anche questo doveva essere penosissimo per il Cuore del Redentore: parlare di divorzio quando Egli si preparava a celebrare le sue nozze d’amore nel Sangue del suo sacrificio, e parlarne quando la sinagoga, ripudiandolo, avrebbe consumato il più peccaminoso degli adultèri spirituali!
Gesù Cristo rispose, domandando che cosa avesse comandato Mosè, cioè che cosa era scritto nella Legge.
Appellandosi a Mosè voleva richiamare in vigore l’antico precetto di Dio com’era nella Genesi, e non la concessione di Mosè, fatta per evitare maggiori disordini (cf Dt 24,1). Ma i suoi oppositori non capirono, e si appellarono alla disposizione di tolleranza, della quale avevano più facile ricordo, per l’uso e l’abuso che ne facevano. In realtà il santo legislatore non aveva potuto volere che per un capriccio si sciogliesse un vincolo posto da Dio, ma aveva voluto fare un’eccezione rara che doveva essere valutata innanzi al Signore. Ora, per la corruzione dei cuori, l’eccezione era diventata quasi la regola, e il divorzio aveva traviato talmente la coscienza da farlo credere una necessità e un’esigenza dell’uomo.
Con grande autorità, il Redentore richiamò la Legge alla sua primitiva purezza, perché il nuovo regno che Egli veniva a fondare era regno di perfezione e di santità nel quale non si poteva indulgere al traviamento dei sensi.
L’uomo non si sposa per trovare un misero diletto materiale ma per compiere una missione insieme con la donna che sceglie. Egli è una sola cosa con lei, e come è impossibile separare un membro vivo da un altro, senza produrre nell’organismo un dolore e un danno, così è impossibile separare l’uomo dalla donna che ha sposata, senza produrre, in essi e nella stessa società, un danno incalcolabile.
Dio stabilì questa legge al principio, quando creò l’uomo; la confermò nella Legge rivelata, e nessuno può separare ciò che Egli ha congiunto.
Ad un ragionamento così stringato non c’era nulla da opporre, e i farisei dovettero darsi per vinti. Gli apostoli però, rientrati in casa, interrogarono nuovamente Gesù sull’argomento. Sembra un po’ strano che proprio essi non se ne mostrassero ancora convinti, ma essi stavano più a contatto col popolo, e raccoglievano dalla strada, più facilmente, l’eco dei continui divorzi che si facevano, poiché l’argomento che più appassiona è sempre quello delle nozze e dei pettegolezzi che vi hanno relazione. Data dunque la corruzione generale, le parole di Gesù sembrarono loro di difficile attuazione, e perciò vollero altre spiegazioni.
Il Redentore confermò ciò che aveva detto, aggiungendo che i matrimoni fatti dai divorziati erano veri adulteri, poiché il vincolo posto da Dio non può essere mai infranto dal capriccio dell’uomo.
È orribile pensare a quelli che oggi divorziano nelle nazioni apostate da Dio, e al numero incalcolabile degli adulteri legali che si consumano nel mondo. Le statistiche delle cosiddette nazioni civili sono scoraggianti in questo argomento, e quelle delle nazioni comuniste fanno orrore! In Russia, per esempio, sono stati numerosi i casi di matrimoni sciolti nel giorno stesso nel quale sono stati fatti, e sciolti con una semplice dichiarazione, senz’altro processo. È vero che quelli non sono matrimoni, mancando della benedizione di Dio, ma appunto per questo gli adultèri vi si moltiplicano in una maniera tanto turpe che fa ribrezzo. Dove cade l’uomo quando si allontana dalla Legge di Dio!

Gesù guardava lontano, all’unione spirituale
dell’anima consacrata con Lui
In san Matteo (19,12) è detto che Gesù, all’argomento del matrimonio, fece seguire quello della verginità volontaria per amore di Dio; Egli aveva, dunque, innanzi al suo sguardo, non semplicemente una questione legale, ma una questione spirituale; considerava le nozze per quel che significano, come immagine delle sue nozze con la Chiesa, e considerava la verginità come il mezzo di una più profonda e completa unione con Lui. L’uomo lascia il padre e la madre per stare con la moglie, e l’anima lascia tutto quello che è sensuale per stare unita al Signore. Chi lascia la moglie per sposare un’altra è adultero, e l’anima che è infedele allo stato verginale è adultera spiritualmente, poiché lascia lo Sposo divino per una misera creatura, e lo lascia per il capriccio d’una passione.
Chi è infedele alle nozze terrene è meritevole del disprezzo di tutti, e chi è infedele a quelle celesti è degno del disprezzo del Signore.
Si può dire che anche il cristiano che ripudia la Legge di Dio nella propria vita, e si dà al mondo, seguendone gli usi e le massime, è un adultero.

Gesù guardava all’unione dei popoli con Dio
L’unione di Dio col suo popolo, infatti, è sempre figurata nella Scrittura come un connubio spirituale, e il cristiano che segue il mondo viene meno alla fedeltà di un amore giurato. Come si può, dunque, abbracciare, con tanta facilità, qualunque nuova dottrina, e farsi con tanta leggerezza quasi permeare da idee e da usi contrari allo spirito di Gesù Cristo?
Vengono i falsi profeti; affascinano come può affascinare una donna corrotta; promulgano nuove massime; pretendono creare una nuova famiglia umana sulle basi delle loro concezioni fantastiche ed empie; formano le loro combriccole come caricatura della Chiesa, e chi li segue è adultero, perché rinnega la Legge di Dio per la stolta parola dell’uomo!
È così che le nazioni, a mano a mano, apostatano dalla Chiesa, e cadono in quelle confusioni banali alle quali assistiamo noi stessi, diventando le sinagoghe di satana.
Le civiltà che non sono fondate sul Vangelo e sulle Leggi della Chiesa durano quanto dura un adulterio: finché dura la passione disordinata, o finché si riesce a farla durare a forza di belletti e di seduzioni l’adulterio sembra il più felice degli stati coniugali; ma quando la passione cade, quelle società diventano e si manifestano per quello che sono: un disordine e una rovina.
Sorgono i falsi profeti, seducono le plebi con le promesse roboanti, fingono di mantenerle con i belletti delle leggi draconiane e della disciplina prepotente. Si autoelogiano, asserviscono la stampa, e fanno apparire come un successo meraviglioso delle nuove idee quello che è solo una presa in giro. Credono di aver creato una nuova società da sostituirsi alla Chiesa, e hanno commesso solo un adulterio. Appena cadono i belletti della politica, o una nuova passione agita le turbe, la casa adultera si sfascia; si sfascia, e gli edifici che sembravano di ferro cadono come misere costruzioni di fragile terriccio.
Non ci facciamo illudere più; siamo stati abbastanza ingannati dalle grazie di tale… prostituzione; domandiamo a chi si presenta come riformatore la sua carta d’identità, la sua carta di fedeltà alla Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana; se non ce l’ha, non gli prestiamo fede: è un misero mezzano di nuovi adultèri dello spirito!

La predilezione di Gesù per i fanciulli
Gesù Cristo, Purezza per essenza, amava immensamente la verginità e l’innocenza. Egli, perciò, dopo aver parlato dell’adulterio e del matrimonio, accolse con più grande amore i piccoli che gli venivano presentati, pascolandosi così fra quei gigli. Il Sacro Testo ci presenta questo contrasto così bello. Con quale amore dovette considerare Gesù quei piccoli, senza malizia e senza passioni degradanti che gli tendevano le mani e gli sorridevano, immagine viva e delicata del santo connubio che Egli voleva stringere con le anime!
Gli apostoli non potevano capire questi profondi pensieri del loro Maestro, e sgridarono le persone che gli presentavano quei piccoli, riguardandoli come un fastidio. Ma Gesù fu altamente disgustato del loro atteggiamento, e disse con infinita tenerezza verso i pargoli di tutti i tempi e di tutte le genti: Lasciate che i piccoli vengano a me, e non lo vietate loro, poiché di questi è il regno di Dio.
È evidente dal contesto che gli apostoli dovettero non solo mostrarsi annoiati dalla ressa dei piccoli, ma dovettero strapazzarli, allontanandoli rudemente, come è così comune vedere anche oggi quando ci sono assembramenti di fanciulli. Questi, infatti, sono invadenti, vanno dritto a quello che li attrae, non ascoltano richiami, si precipitano, vociano, tendono le mani, e non intendono altro.

Gesù fu altamente disgustato dell’irruenza degli apostoli, perché sentì nel suo Cuore gli strapazzi fatti ai suoi piccoli, e fu disgustato perché glieli allontanavano. Ogni spinta, ogni percossa, ogni scappellotto che si dava loro, era come dato al suo amabile e sensibile Cuore e l’allontanarli era come uno strapparli al suo amore. Egli perciò, difendendoli, li accolse come gli eredi del regno dei Cieli e come il modello di tutti quelli che volevano entrarvi; li abbracciò, li strinse al Cuore e li benedisse.
Padre Dolindo Ruotolo