sabato 28 gennaio 2017

La beatitudine vera di chi peregrina in terra


Commento al Vangelo – XXXI Domenica del TO 2015 B (Mt5,1-12)


La beatitudine vera di chi peregrina in terra


L’uomo tende alla beatitudine, alla piena felicità, alla gioia, perché fu creato da Dio per godere eternamente. L’essenza medesima del fine per cui viviamo è questa, poiché il Signore ci ha creati per la sua gloria; e per renderci sua voce di gloria ci riempie della sua grazia, nel compimento, poi, della sua volontà che è sommo bene, ci comunica la sua felicità. La beatitudine, quindi, sta tutta in Dio, ed è da Lui solo che la si può attingere: sta nella conoscenza delle sue perfezioni e nel compimento della sua volontà.
La beatitudine è un premio, e come tale suppone la prova; perciò, prima di raggiungerla eternamente in Cielo, noi subiamo la breve e passeggera angustia della vita presente. Quest’angustia tende ad addestrarci alla ricerca di Dio, alla sua conoscenza, al suo apprezzamento e al compimento della sua volontà.
La vita, quindi, è più gravosa quanto più è impigliata nell’ambito della terra, ed è più beata quanto più se ne distacca.
Tutte le raffinatezze della vita del tempo non sono che fili di una rete che tarpa ogni volo dell’anima, e che rende più ardua la conoscenza di Dio e il compimento della sua volontà; esse, perciò, hanno un segreto di somma infelicità.
È l’esperienza quotidiana che ce ne convince, e bisogna pur avere il coraggio di liberarsi da tutte le menzogne convenzionali, con le quali satana, il mondo e la carne ci trasportano sulle false altezze unicamente per farci precipitare o per farci adorare le brutture dello spirito maligno.
È per convenzionalismo – bisogna riconoscerlo –, che noi stimiamo grandi certe altezze della vita terrena, dicendo grande la filosofia, la scienza, la politica, le arti, la letteratura ma, in realtà, nessuno oserebbe dire che queste cose rendono beata la vita. Sono alture sulle quali si ascende a grande fatica e che, raggiunte, fanno scorgere solo i monti impervi che non si raggiungono, e gli abissi che ad ogni passo falso minacciano d’inghiottirci.
Se si vuol essere giusti, bisogna confessare che nel mondo il reparto più colmo d’infelicità è proprio questo che appare come una meta delle aspirazioni umane. Chi ha raggiunto una vetta scoscesa, strapiombante nell’abisso, sembra un dominatore a chi lo guarda da lontano, ma egli solo conosce le vertigini di quella posizione sulla quale non vorrebbe essere mai giunto. Da quelle altezze non si va oltre, si discende, e la discesa ha sempre le vertigini dell’abisso. Tutto è avvelenato d’assenzio e di amarezze indicibili in questa vita, anche le ricchezze che sembrano i beni più immateriali e più semplici, mezzi infallibili di nuovi beni; tutto come l’ortica, anche quando non appare, dà punture fastidiose. Noi, infatti, abbiamo, per così dire, due capacità nella vita: una materiale che è limitatissima e che, ricolma, preme sulle pareti e le strazia, ed una spirituale che esige un vuoto sempre maggiore per essere riempita di ciò che viene da Dio.
Tutto quello che è eccessivo nella materia dà la pena dell’indigestione, e tutto quello che pretende riempire la capacità dello spirito con la materia, dà lo spasimo dell’avvelenamento.
Sono verità che magari non si ha il coraggio di sperimentare, perché si ha l’orecchio assordato dagli inviti del mondo, del demonio e della carne, ma sono verità che si controllano, nostro malgrado, nella vita quotidiana.

Chi vive in città, e specialmente nelle fragorose metropoli moderne, riguarda la pace della campagna come un’oasi nel deserto: è attratto dalla rude semplicità primitiva, gli sembrano poeticamente attraenti le pareti disadorne, i piatti di creta, gli orcioli che fanno da bottiglie; i piedi nudi sul terreno brullo sembrano più belli delle calzature eleganti, lo scialle che incornicia il volto schiettamente sano di una contadina, sembra più attraente di tutte le eleganze mondane; si respira a pieni polmoni, si è come prigionieri liberati per un momento dai ceppi, o come uccelli fuori gabbia che raggiungono trillando i rami. È un momento di felicità relativa, dovuta alla semplicità di una povertà che non è miseria, ma è sazietà più proporzionata alla nostra capacità materiale. Il contadino non capirà magari la superiorità della sua condizione rispetto ai cittadini, come i bambini non intendono la felicità della loro spensierata età, ma non si può negare che quella vita ci fa invidia e fa invidia, molto più, a chi è tutto irretito nelle cose del mondo. Non è la povertà vera dello spirito, per l’incosciente scontentezza che l’accompagna, ma in se stessa è un’immagine e, se è accompagnata dalla pienezza spirituale che trae l’anima alle altezze eterne, è un saggio di vera felicità.
Don Dolindo Ruotolo 

sabato 21 gennaio 2017

La prima predicazione di Gesù e l'elezione dei primi apostoli

Matteo cap. 4 par. 8-9


                                        

8. La prima predicazione di Gesù e l'elezione dei primi apostoli
Dopo aver subito la prova nel deserto, Gesù Cristo cominciò la sua vita di apostolato. Giovanni era stato messo in prigione da Erode Antipa, a causa di Erodiade, come è detto al capitolo 14, e per questo vi era nella Giudea un grande fermento, data la stima che il popolo aveva del Battista. Il Testo dice che Gesù aveva udito che Giovanni era stato messo in carcere, proprio per indicare il fermento popolare che spargeva la notizia in ogni parte. Non volendo per delicatezza di carità verso san Giovanni prendere il suo posto in luoghi che risuonavano tuttora della predicazione di lui, si ritirò nella Galilea, e licenziatosi da Maria Santissima che abitava tuttora in Nazaret, andò ad abitare a Cafarnao, città a quei tempi abbastanza importante per il commercio, situata sulla riva occidentale del lago di Genesaret. L'apostolato che vi esercitò dovette essere così grande da far ricordare la profezia d'Isaia (9,1-2) nella quale era annunziata la voce del Messia risonante ai confini della terra di Zàbulon e di Néftali, sulla strada del mare di Genesaret, ad oriente del Giordano, cioè nella Perea, e fino alla parte della Galilea confinante con la Siria e con la Fenicia, chiamata Galilea delle genti perché abitata da molti pagani.
Quei popoli giacevano nelle tenebre dell'errore e del peccato, e la voce di Gesù era per loro una grande luce, perché annunziava il regno di Dio ed il vicino compimento della redenzione, esortandoli a far penitenza dei loro peccati.
Gesù Cristo era ancora solo, ma l'affluenza medesima del popolo che a Lui accorreva, attratto dalla sua parola e dai suoi prodigi, esigeva che Egli fosse aiutato nel suo ministero, e perciò cominciò a chiamare i primi apostoli.
Non si rivolse ai grandi della terra, non scelse uomini di scienza e di prestigio, ma poveri ed ignoranti pescatori, semplici e schietti, come sono quelli che esercitano questo mestiere. Li chiamò non solo con la voce ma con la grazia interiore, ed essi, benché intenti al loro mestiere, lasciarono tutto e lo seguirono. Gesù Cristo scelse il momento opportuno per chiamarli, utilizzando le loro interne disposizioni naturali. Erano due coppie di fratelli: Simone, chiamato poi Pietro, ed Andrea suo fratello, Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo; tutti e quattro avevano seguito il Battista (Gv l,35ss) ed erano stati presenti al battesimo del Redentore, imparando dal loro Maestro a riconoscerlo per Messia. Imprigionato Giovanni, erano ritornati al loro mestiere, certamente scoraggiati, e l'invito di Gesù li trovò perciò più disposti a seguirlo.
Il Sacro Testo sintetizza l'apostolato di Gesù Cristo dicendo che Egli andava per tutta la Galilea, insegnando nelle sinagoghe, che erano edifici rettangolari dove il popolo si riuniva per pregare e per leggere i Libri Santi; andava predicando la nuova Legge e sanava le malattie di quanti venivano a Lui presentati; scacciava satana dagli ossessi; curava i lunatici, ossia gli epilettici, chiamati così per l'influenza che, secondo la comune credenza, esercitavano sui loro eccessi le fasi lunari, e risanava i paralitici. La fama di questi prodigi si sparse fin nella Siria, e gran turba di popolo cominciò a seguirlo dalla Galilea, dalle dieci città poste al di là del Giordano, chiamate perciò Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea, e dalla Perea, all'Oriente del Giordano.
Giovanni fu messo in prigione, e sembrò una sventura, poiché si soffocava una voce potente di rinnovazione in mezzo al popolo. Eppure proprio allora Gesù intensificò il suo a-postolato di verità e di carità. Il sacrificio non è mai infecondo nelle vie di Dio, e dall'immolazione nasce sempre un maggior bene in mezzo alle anime.
Dalla regione più nobile Gesù si ritirò in quella più umile della Galilea, per ricercare le anime semplici, giacché è più facile che le parole veramente grandi siano ricevute dagli umili: i cosiddetti grandi del mondo in realtà sono materiati di miserie, e sono sordi alle voci della verità.
 



9. Per la nostra vita spirituale
La predicazione di Gesù Cristo, come quella di san Giovanni, cominciò con un'esortazione alla penitenza e un annunzio del regno di Dio, i due fondamenti dell'ascensione di un'anima: purificarsi, umiliandosi innanzi a Dio, ed aspirare a Lui solo facendolo regnare nel cuore e nella vita.
Il Redentore chiama i suoi primi apostoli, e sceglie quattro pescatori. Oh, come Dio deride l'orgoglio umano, e come ferma i suoi occhi sugli umili! Doveva rinnovare il mondo orgoglioso e sceglie pochi rozzi pescatori! Chi non avrebbe creduto che avesse dovuto fare appello ai grandi ed ai potenti?
I poveri pescatori ascoltarono immediatamente la sua voce e lasciarono tutto; lezione grande per noi quando siamo chiamati dalla grazia ad una vita più perfetta. Non basta rispondere fiaccamente all'invito di Dio, bisogna troncare ogni vincolo che ci unisce al mondo, ed incamminarsi risolutamente per la nuova via. Bisogna abbandonare le reti cioè tutto quello che ci stringe nelle maglie della natura e degli attacchi terreni, bisogna uscire dalla mobilità della vita mondana, come da un mare in tempesta, e prendere terra con ferme risoluzioni nelle vie di Dio, che sono agli antipodi di quelle del mondo. Il distacco generoso da tutto ciò che è terreno ci fa fare voli nelle vie di Dio e ci fa seguire Gesù liberandoci dal languore dell'anima, dalle insidie di satana e dalle nostre infermità spirituali.
Molti chiamano gli uomini alla loro sequela, specialmente oggi che abbondano i falsi profeti; ascoltiamo solo l'invito di Gesù Cristo, e siamogli fedeli sino alla morte, rinnegando per suo amore noi stessi.
Potrebbe sembrare quasi un'anormalità il rinnegarci, dato che certi doni di natura ce li ha dati Dio stesso; ma rinnegandoci non perdiamo quei doni, li trasformiamo e li eleviamo in una sfera immensamente più grande.
Dio mi ha dato l'intelletto perché io gliene facessi un olocausto nella fede; quando rinunzio alla mia povera ragione e credo, l'intelletto non rimane vuoto, ma ripieno della luce e della verità divina.
Dio mi ha dato la volontà perché io gliene facessi un o-locausto nella Legge; la mia rinunzia la rende liberamente attiva nelle grandi e sapienti disposizioni della divina volontà.
Dio mi ha dato le forze fisiche ed ha formato il mio corpo di fragile carne, perché io gliene facessi un olocausto nella mortificazione; la mia rinunzia non diminuisce la carne, la trasumana e la rende angelicata, elevandola fino ai confini dello spirito.
Dio mi ha dato la vita perché io gliene facessi un'offerta nella medesima morte corporale, nella quale la vita si consuma per trasformarsi in vita eterna ed in risurrezione gloriosa.
Dio mi chiama alla sua sequela ed io lascio le reti che stringono la mia povera e limitata natura, lascio la mia fragilità, e mi slancio verso di Lui per trovare la vita.
Non è una perdita, è un guadagno, e se i pescatori di pesci, rinunziando alle reti ed alle barche, divennero pescatori di uomini, noi rinunziando a noi stessi diventiamo ricercatori di eterni tesori, e ci eleviamo ad una perfezione arcana. Gesù Cristo medesimo ci mostra che cosa valga una rinunzia e quali frutti produca: Egli non volle servirsi della sua potenza per provvedersi miracolosamente di cibo, come avrebbe preteso satana; volle abbandonarsi al Padre, e il Padre gli mandò gli angeli per servirlo; più tardi immolò completamente se stesso nella più profonda umiliazione, e fu costituito Re dell'universo.
La rinunzia è guadagno; è la liberazione di ciò che impaccia l'anima; è lo slancio pieno della libertà, della ragione e della volontà nelle altezze cui tendono; è il pieno respiro dell'essere nostro nell'atmosfera celeste; è il vuotarsi per essere riempiti, l'impoverirsi per essere arricchiti, il morire per vivere.
Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 14 gennaio 2017

Anche noi siamo testimoni di Cristo

Commento al Vangelo – II Domenica del T. O. 2017 A 
(Gv 1,29-34)




Anche noi siamo testimoni di
Cristo

        Giovanni sulle rive del Giordano, dava il battesimo della penitenza per rendere testimonianza a Gesù Cristo e preparare le anime al suo regno. È necessario approfondire questo tratto provvidenziale della sua vita e ricavarne le conseguenze.
        L’anima peccatrice ha un fitto velo innanzi alla mente che le impedisce di vedere la verità, e il velo le è tirato dall’orgoglio. Sembrerebbe incredibile, eppure è vero: più l’anima si degrada e più s’inorgoglisce, presume di sé, reagisce al bene e rifiuta la verità. È un fatto che può controllarsi ogni momento, e che ci fa vedere di quale natura è il nostro orgoglio maledetto. I superuomini da strapazzo sono tutti avviliti da particolari miserie che tolgono loro la vista interiore, e li rendono ripugnantemente presuntuosi.
        L’anima non può vedere se non si umilia; è come il miope che, per affissare lontano, deve impiccolire e socchiudere gli occhi, affinché i raggi giungano a fuoco sulla rètina. Il battesimo di san Giovanni era un atto di umiliazione, e produceva, nell’anima, uno stato salutare di impiccolimento che le rendeva meno difficile l’ascolto dell’annuncio dell’imminente redenzione, e più facile seguire, un giorno, il Redentore riconosciuto.
        L’anima andava a sottomettersi al messaggero di Dio, si riconosceva peccatrice, anelava alla giustificazione, riceveva il battesimo d’acqua, e capiva che ci voleva ben altro per ottenere la pace completa della giustizia. Si suscitava in lei il desiderio della rinascita, sentiva ripugnanza al peccato, se ne voleva liberare, ed era disposta a correre a Colui che Giovanni di proposito, e con profonda ragione, chiamò Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Il fiume stesso al quale accorrevano le turbe aveva qualche cosa di mistico, nel nome e nei ricordi storici che orientavano l’anima verso Dio in una salutare umiliazione, e in una piena fiducia.
        Giordano, fiume del giudizio che mostra o ricaccia il giudizio, discesa, ricordava il giudizio di Dio chemostra la verità e ricaccia il falso giudizio della nostra mente, facendo discendere l’anima nelle profondità della coscienza per giudicarsi ed umiliarsi.
        Le sue acque avevano qualcosa che ricordava il fluire del tempo, poiché passavano, passavano senza posa.
        Esse si arrestarono solo quando il popolo pellegrino dovette attraversare il letto del fiume, e il ricordo di questo grande miracolo risuscitava nell’anima il concetto della potenza e della misericordia di Dio. Le promesse fatte dal Signore ai patriarchi rivivevano in quel ricordo e in quel concetto, e il popolo sentiva più vivo il desiderio del Redentore.
        Giovanni rendeva testimonianza principalmente con la sua vita al Redentore. La sua parola sarebbe stata vana senza la vita santa e penitente che conduceva. Battezzando, egli faceva quasi fluire con l’acqua il fascino del suo esempio e l’unzione della sua virtù, e suscitava nelle anime il desiderio del bene, umiliandone salutarmente l’orgoglio.
        Anche noi dobbiamo rendere testimonianza a Gesù, ed essere, in certo modo, precursori della grazia di Dio nelle anime. Situati sulle rive vertiginose del tempo,discendiamo nelle profondità della nostra coscienza,giudicandoci per quello che siamo, e ricacciando da noi i falsi giudizi del mondo.
        Il giudizio della coscienza che si umilia e si pente dei suoi peccati è come il battesimo d’acqua della penitenza interiore che prepara al Battesimo di Spirito Santo della grazia sacramentale. L’anima prima si esamina e si giudica, poi corre dal Redentore, Agnello di Dio e, fatta pura dalla sua misericordia, diventa sua testimonianza innanzi agli altri, ai quali dona la prima luce riflessa di verità, perché discernano lo stato della loro coscienza ed anelino a Dio.
        Dobbiamo riconoscere umilmente che spesso noi siamo falsi testimoni del Signore con la nostra vita senza luce di verità e senza calore salutare di bene. Non mostriamo né fede viva né amore vero al Signore e, con tanti stolti giudizi sulla sua provvidenza e sulla sua giustizia, lo riguardiamo e lo facciamo riguardare in una luce falsa.
        Chi verrà dopo di me – diceva san Giovanni –, è più di me perché era prima di me; noi praticamente riguardiamo Dio come inferiore a noi, e osiamo giudicarlo col nostro inetto e falsissimo giudizio, invece di adorarlo profondamente, e curvare gli altri alla sua adorazione col nostro esempio. Eppure se pensassimo che dalla sua pienezza noi riceviamo grazia su grazia, e se pensassimoalla grazia e alla verità che ci vengono per Gesù Cristo, dovremmo essere in ogni tempo e in ogni circostanza come inni viventi della sua magnificenza e della sua gloria! Noi, anzi, dolorosamente, rendiamo orgogliosa testimonianza di noi stessi a scapito di Dio, proprio all’opposto di quello che fece san Giovanni.
        Quando i sacerdoti e i leviti, mostrando di averlo in grande considerazione, gli domandarono: Tu chi sei?,Egli, lungi dal rispondere con parole che potevano conciliargli la stima, rispose recisamente che non era né il Cristo né Elia né il profeta. Rispose negando, tanto era profonda la sua umiltà e la sua familiarità col proprio nulla.Non sono – ecco la risposta spontanea del suo cuore –, non sono, sono un nulla di fronte al Redentore, e sono solo una voce che grida per la sua gloria.
        Noi, all’opposto, abbiamo sul labbro sempre il nostro io, e ci crediamo sapienti, profeti, infallibili, forti, invincibili, esaltati sugli altri.
        Dovremmo dire:
        io non sono il Cristo,
        non ho unzione di grazia, sono un povero peccatore;
        non sono Elia, cioè non sono né signore né forte, perché sono fragile e vile nelle mie potenze;
        non sono il profeta, ossia uno spirito superiore;
        sono un povero stolto senza luce di sapienza e senza fiamma di vera carità.
        San Giovanni, strettamente parlando, non fece un atto di umiltà nel confessare che non era il Cristo; se avesse voluto profittare dell’interrogazione dei sacerdoti e dei leviti per usurpare un titolo che non gli competeva, sarebbe stato un mentitore; la prontezza, però, con la quale proclamò la verità, e l’orrore che aveva di poter essere scambiato per il Cristo rivelano la sua profonda umiltà.
        Noi non facciamo nulla di eccezionale nel proclamarci miserabili innanzi a Dio, ma facciamo un atto di giustizia che non deve farci insuperbire, e che deve farci riconoscere per quello che siamo e dobbiamo essere: voci di glorificazione sua in ogni atto della nostra vita e nel deserto del mondo. Questo nostro dovere deve comprenderci tutti, e deve farci temere di disonorare il Signore innanzi al mondo scellerato che lo rinnega e l’offende. Il maledetto rispetto umano potrebbe farci tergiversare innanzi agli altri che ci interrogano con gli sguardi maligni, con parole pungenti o con indegni inviti al male:
        Chi sei tu? Sei tu cristiano?
        Allora dobbiamo confessare e non negare che siamo di Dio che gli crediamo, lo onoriamo, lo amiamo, e che a nessun costo vogliamo offenderlo. E, se si ha l’ardire di parlar male di Dio, invece di mostrarci titubanti, dobbiamo proclamare la sapienza e la gloria, confessando che non siamo degni neppure di nominarlo, ad imitazione di san Giovanni che si proclamò indegno di sciogliere il legaccio dei calzari di Gesù.
         San Giovanni rese direttamente testimonianza a Gesù Cristo, additandolo alle turbe come Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, ossia additandolo come Redentore, riconoscendolo vero Dio, e confermando la sua testimonianza con quella dello Spirito Santo. Non basta a noi rendere testimonianza a Dio; dobbiamo renderla anche al Redentore, all’Agnello di Dio,partecipando ai grandi doni che Egli ci fa nella Chiesa, con i santi Sacramenti e specialmente col Sacrificio e col Pane eucaristico. La Chiesa stessa ci invita a rendergli questa testimonianza, poiché dispensando il cibo celeste ripete le parole del Precursore alle turbe: Ecce Agnus Dei, ecce qui tollis peccata mundi. Essere cristiani e non partecipare alla vita di Gesù Cristo che giova? Quale testimonianza può rendere al Redentore un’anima senza redenzione che si mostra nuovamente pagana e si degrada miseramente nel male? Siamo dunque voci che gridano nel deserto del mondo, voci di fede, di amore e di vita soprannaturale che invitino le genti al trono di Gesù Cristo, e le facciano vivere del suo dolcissimo amore.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

domenica 8 gennaio 2017

Il Battesimo di Gesù

 Commento al vangelo di Matteo 3,3-4 S. Matteo 

 Il Battesimo di Gesù

Mentre Giovanni parlava, ecco Gesù venire verso di Lui per essere battezzato; veniva ammantato di umiltà, e perché caricato dei peccati di tutti, veniva per accomunarsi ai peccatori, meritando loro il perdono, ma dalla sua persona traspariva un raggio della divina Maestà, ed il Battista si rifiutò di battezzarlo, dicendogli che egli aveva bisogno di essere battezzato da Lui. Ma Gesù insistette, volendo adempire ogni giustizia, cioè volendo compiere la divina volontà e desiderando dare al popolo l'esempio di ogni virtù; insistette con tanta risolutezza che Giovanni lo battezzò. Allora si aprirono i cieli, lo Spirito Santo discese sul capo di Gesù come colomba luminosa, e la voce del Padre lo proclamò Figlio suo prediletto; era la luce della Santissima Trinità che illuminava la terra; il Padre si manifestava nella voce solenne, il Figlio Incarnato, e lo Spirito Santo nella colomba. Giovanni aveva ricevuto il segno certissimo della divinità di Gesù, e quel segno forse riservato a Lui solo, infiammò la sua parola di novello zelo nell'additare al popolo il Salvatore del mondo.
 Il cammino dell'anima e dell'apostolo: aprire il cuore alla grazia con la penitenza, purificarsi e rinascere
La nostra innocenza originale fu rovinata dal primo peccato, e l'innocenza riconquistata per il Battesimo fu rovinata dai nostri peccati; l'anima divenne un deserto, ed in questo deserto si levò la voce della grazia e della misericordia del Signore, Giovanni, per chiamarla a penitenza ed a vita novella. Le interne ispirazioni, la voce delle tribolazioni della vita, conseguenza del peccato, e la voce dei ministri del Signore rappresentano la misericordia che chiama e sono un dono della grazia che ci vuole rinnovare. Non si può presumere di rinascere senza preparare le vie al Signore, e bisogna ricevere prima il mistico Battesimo dell'umiliazione ed immergersi nei sentimenti di compunzione, per attrarre e rendere salutare la misericordia che ci rinnova. Nessuno si converte a Dio da una vita disordinata se non prepara il suo cuore, e se non trova chi lo esorta ad umiliarsi, e gli fa l'ufficio caritatevole di Precursore della misericordia.
L'apostolato laico e il ministero sacerdotale
Gli apostoli laici dell'Azione Cattolica sono come i precursori della grazia nelle anime: vanno nel deserto del mondo; non apportano la salvezza ma la preparano, non rinnovano le anime ma le umiliano salutarmente, facendo loro riconoscere l'abisso nel quale sono cadute,, e le esortano alla penitenza. Essi non possono presentarsi ammantati di mondo, non possono partecipare alla sua vita, ma nell'umile penitenza, nella preghiera e nel disprezzo delle cose terrene debbono rendere penetrante ed efficace la loro opera di richiamo.
Se questo si dice di un'anima che compie un apostolato, molto più deve dirsi di un sacerdote che è ministro della grazia. Se non è rivestito di preghiera e di penitenza, grida invano al mondo, e se non ha cinti i lombi di castità, come Giovanni li aveva cinti di cuoio, invano insinua la purezza della coscienza.
L'apostolato precursore della grazia e il sacerdote debbono cibarsi di penitenza e di dolcezza, per penetrare le anime ed attrarle a Dio. Non è senza ragione che è notato che san Giovanni si cibava di miele; la sua austerità era come temperata da quella dolcezza semplice, e il cibo della penitenza era condito di soavità. Chi zela la salvezza delle anime non può indulgere alla carne, non può cedere al mondo; deve andare contro corrente, ma deve pure condire con la dolcezza la sua severità, al fine di renderla salutare e penetrante.
Il cammino della rinnovazione interiore comincia al Giordano, che significa fiume del giudizio, che mostra e respinge il giudizio, la discesa.Precisamente: l'anima comincia col giudicare se stessa nel rimorso delle proprie colpe; mostra alla coscienza il giudizio di Dio, e respinge quello del mondo, discendendo nel pensiero della propria nullità. Dopo essersi esaminata immergendosi quasi nel pensiero delle proprie colpe, le confessa prima a se stessa, rifuggendo da qualunque scusa, e si prepara a confessarle al ministro di Dio. È importantissimo il riflettere che i penitenti del Giordano confessavano le loro colpe a san Giovanni, poiché anche nel preludio della redenzione le anime già si confessavano. Come possono dire i poveri protestanti che la confessione sia un'invenzione dei sacerdoti, e come possono pretendere di confessarsi solo a Dio?
Vennero sulle rive del Giordano anche i farisei, i separati, osservatori scrupolosi di precetti esterni, e i sadducei, i giusti, che pur menando una vita pagana, pretendevano di essere giusti. San Giovanni inveì contro di loro, chiamandoli razza di vipere, e li esortò a fare frutti degni di penitenza. Essi dunque nel movimento di generale rinnovazione e di salutare penitenza, rappresentavano i disturbatori, come sono un disturbo ed un ostacolo al ritorno sincero al Signore sia gli scrupoli farisaici, sia la presunzione di essere giusti e di non avere nulla da riformare nella propria vita. Bisogna porre la scure alla radice dell'albero, e sradicare dal proprio cuore ogni cattivo germe per rendersi capaci di essere accolti nel regno dell'eterna gloria.
Quando l'anima si umilia nel riconoscimento sincero delle proprie colpe, allora viene a lei Gesù Cristo, come andò sul Giordano, e compie Egli la penitenza dell'anima, perché in realtà la nostra rinnovazione si compie per i suoi meriti e per la sua espiazione. Può dirsi veramente che Egli si fa battezzare nella penitenza, rinnovando nelle anime le misericordie del Calvario, e per Lui viene a noi la grazia dello Spirito che ci rende nuovamente figli di Dio ed oggetto delle sue compiacenze. Il cammino dell'anima peccatrice non potrebbe essere meglio tracciato: grida una voce nel deserto del suo cuore, una voce austera, quasi Giovanni rivestito di peli di cammello, la voce della grazia che si fa sentire attraverso le tribolazioni della carne, figurate in quel rozzo vestito stretto ai lombi; le tribolazioni la richiamano alla penitenza, ed essa prepara la via alla rinnovazione interiore umiliandosi. Corre al Giordano da Gerusalemme e dalla Giudea, cioè innanzi alla visione della pace eterna ed al dovere che ha di lodare Dio l'anima si giudica e s'immerge nella considerazione delle proprie colpe. Il demonio cerca di turbarla o con le minuzie dell'esame di coscienza, o con la presunzione di non avere colpa; la illude con una falsa speranza, come illude i poveri protestanti, che sperano la salvezza dalla semplice loro qualità di cristiani, o dal semplice fatto di discendere dal Cristo; ma l'anima retta ascolta il richiamo di Dio, confessa le sue colpe, brucia la paglia delle sue miserie nel fuoco del dolore, ed allora Gesù Cristo viene a lei, la giustifica, le dona i suoi meriti, le attira la grazia e la rende nuovamente figlia di Dio.
Quello che Dio fa con le anime lo fa anche con le nazioni quando vuole richiamarle alla vita cristiana: le tribolazioni le scuotono, la voce degli apostoli della verità le illuminano, ed esse, strette dalle angustie terribili che loro cagiona il male, sentono il bisogno di ritornare alla Chiesa. A noi sembra oggi di vedere tutte le nazioni in gravissimi dissesti ed è vero, ma questi dissesti le preparano a poco a poco a riconoscere la loro miseria morale; forse le nazioni che più sembrano confuse dal regime di barbara oppressione sono quelle che sono più vicine ad essere rinnovate dalla misericordia, e il battesimo di umiliazione e di dolore che le tormenta è forse il primo passo negativo verso un ritorno del Redentore in mezzo a loro. Invece di turbarsi bisogna pregare, e invece di credere fallita l'azione della Chiesa, bisogna sperare, e preparare la rinascita con le nostre preghiere e la nostra penitenza.
Non c'è opera di Dio che non abbia un periodo di preparazione, e questa preparazione è proporzionata ai fini del Signore. Certi avvenimenti penosi della vita possono sembrare un'oscura fatalità, ed invece sono la voce che grida nel deserto del cuore per prepararlo alla missione che Dio esige da lui. Umiliamoci e rispondiamo alla voce del Signore, offrendoci sempre pronti alla sua volontà. Voci che gridano nel deserto sono quelle che contrastano con la nostra natura e ci costringono ad aspirare a Dio: le incomprensioni, le piccole o le grandi tempeste della vita familiare, le croci giornaliere, i disinganni dell'amicizia, tutto ci grida che siamo del Signore e dobbiamo preparare la via alla sua grazia perché ci faccia veramente santi. Se il Signore ci chiama ad una missione più grande, la preparazione è più ardua, ed allora capitano nella vita quegli eventi che sembrano strani: persecuzioni, angustie di spirito, umiliazioni terribili; bisogna in questi casi operare, amare, umiliarsi e lasciarsi condurre dal Signore per cooperare all'avvento del suo regno ed alla sua glorificazione nel mondo. Tante vocazioni sublimi ed opere grandi di bene falliscono quando non si ascolta la voce che chiama e prepara; perciò è necessario lasciarsi condurre con mano dalla volontà di Dio, e vivere con pieno abbandono alle sue disposizioni, anelando solo alla sua gloria, e guardando la meta finale del nostro angoscioso cammino, che è la gloria e la felicità eterna.
Padre Dolindo Ruotolo

giovedì 5 gennaio 2017

I magi e l'adorazione del Redentore


Commento al Vangelo  (Mt 2,1-12)
                                Epifania del Signore

I Magi l’adorazione del 
Redentore
       Quando nacque Gesù Cristo, regnava nella Giudea Erode, chiamato il Grande, si direbbe per una storica ironia, perché se fece molti lavori pubblici, fu un crudelissimo tiranno, e ottenne il regno a furia d’intrighi col senato romano. L’evangelista fa notare intenzionalmente che regnava Erode, un Idumeo straniero che rappresentava per di più l’autorità dei Romani, per far notare che Gesù Cristo, secondo la profezia di Giacobbe (cf Gn 49,10), era nato quando lo scettro regale era stato tolto a Giuda. Erode era padre di quell’Erode, tetrarca della Galilea che fece poi decapitare il Battista e schernì Gesù Cristo nella sua Passione. Alla sua morte, infatti, il regno venne diviso dai Romani in quattro tetrarchie e dato ai suoi figli; terminò così anche quella parvenza di regno che egli era riuscito a conquistare.
       Gesù Cristo nacque a Betlemme di Giuda, chiamata anche Efrata, piccola borgata situata a circa due ore di cammino a sud di Gerusalemme. Vi era un’altra Betlemme situata nella tribù di Zabulon in Galilea, e l’evangelista aggiunge al nome della città la regione cui apparteneva, per mostrare che il Redentore era nato nella città di Davide come suo discendente, e aveva compiuto, con la sua nascita, la profezia di Michea, ricordata ad Erode stesso dai principi dei sacerdoti.
       Non può dirsi con precisione da quanto tempo era nato il Redentore, quando alcuni sapienti dell’oriente, chiamati perciò con parola generica Magi, si recarono a Gerusalemme per adorare il nato Re, essendo stati chiamati alla sua culla da un astro fulgentissimo che era apparso nel cielo.
       Questi Magi studiavano astrologia, e non ignoravano la profezia di Balaam (cf Nm 24,17), con la quale si annunciava l’apparizione di una nuova stella in Giacobbe alla nascita del promesso Messia. All’apparizione della stella che era come una meteora luminosa, si sentirono internamente ispirati ad andare a Gerusalemme per far ricerca del nato Re, e intrapresero il lungo viaggio. Essi venivano probabilmente dall’Arabia e, secondo la comune tradizione, erano tre, sapienti e principi, tenuti in grande considerazione nel loro paese. La stella quasi li invitava al viaggio, perché si librava nell’atmosfera come un segno che indicava la direzione del cammino da intraprendere, e mostrava di muoversi in quella direzione. Non era dunque un astro che aveva un moto circolare, non poteva essere un’illusione, non poteva essere un segno confondibile con un fenomeno sidereo qualunque: era un segno celeste, una chiamata di Dio.
       La fede dei Magi fu grande, perché il viaggio non era facile, e fu grande soprannaturalmente, perché essi non avrebbero avuto interesse ad andare a conoscere un neonato re, se non avessero sentito e creduto che quel Re era il Salvatore promesso. Era la primizia dei pagani che il Signore chiamava alla fede – come dice la Chiesa –, era la rappresentanza del mondo che veniva a rendere omaggio all’Uomo Dio, e veniva a scuotere un po’ l’indifferenza con la quale era stato ricevuto in terra che pur lo aveva aspettato.
       È evidente dalla Tradizione e dal medesimo contesto del Vangelo che la stella li accompagnò durante il viaggio, e che si eclissò forse quando entrarono nella terra d’Israele.
       Dio che è infinita economia e non compie opere superflue, fece eclissare il segno straordinario dove era possibile essere guidati dai lumi naturali di chi stava al pubblico potere. Potrebbe anche supporsi che le nubi avessero eclissato la meteora e che essa rimanesse solo occultata nell’atmosfera. Comunque sia, i Magi, non sapendo dove andare, si rivolsero al re Erode, come a colui che avrebbe dovuto essere informato della nascita dell’atteso Messia. Con la semplicità che caratterizzava i popoli orientali, essi domandarono dove fosse nato il re dei Giudei, avendo visto la sua stella in oriente. Erode che aveva consumato tanti delitti per avere e conservare il regno, fu costernato a questa notizia, perché sapeva benissimo che gli Ebrei aspettavano un liberatore, e che da tutti si diceva prossimo l’evento. Dissimulò, pertanto, il suo turbamento e, nel suo crudele animo, fece già il piano di sbarazzarsi del nato Re, uccidendolo. Chiamò i capi delle classi sacerdotali e i dottori della Legge, e domandò loro con insistenza dove sarebbe dovuto nascere il Cristo. La sua domanda suscitò un turbamento in tutta Gerusalemme, perché la carovana degli stranieri che vi erano giunti, l’annuncio del compimento delle promesse, e forse soprattutto il timore della crudeltà del tiranno, sconvolto dall’annuncio della nascita del re aspettato, faceva temere al popolo qualche brutta sorpresa. L’ingratitudine umana, poi, non ha limiti, dolorosamente; il popolo si era adattato al regime di oppressione e, come tutti i popoli decaduti, preferiva rimanere supinamente oppresso, anziché venire in urto con chi lo dominava.
       Il Vangelo dice espressamente che Erode si turbò e con lui tutta Gerusalemme; non fu dunque un moto di commozione per l’annuncio del nato Re, ma un timore grande di nuove oppressioni da parte del tiranno, e di complicazioni penose che rese il popolo solidale col perfido monarca.
       Il prestigio dei Magi non doveva essere indifferente, se Erode prese in tanta considerazione la loro domanda, e la stimò così vera, da radunare il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, per sapere da loro la risposta che avrebbe dovuto dare. Si sapeva che le profezie riguardanti il Redentore erano determinate, e questo non poteva ignorarlo lo stesso Erode; non era dunque difficile rispondere ai Magi, facendo capo alle Scritture. Il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, infatti, fu unanime nell’affermare che il Redentore doveva nascere a Betlemme di Giuda, secondo la profezia di Michea.
       L’evangelista non cita letteralmente la profezia, ma il senso che dà è preciso. Michea dice che Betlemme è piccola fra le mille città di Giuda ma, nascendo da essa il Redentore, è grande; san Matteo dice nel medesimo senso che essanon è la minima tra le città principali di Giuda, perché da essa esce il condottiero che deve reggere il popolo d’Israele.
       Avuta la risposta, Erode chiamò segretamente a sé i Magi, perché volle evitare che il popolo li accompagnasse e andasse dal nato Messia, e s’informò minutamente del tempo nel quale era loro comparsa la stella. La risposta dei sacerdoti lo aveva anche di più insospettito e preoccupato, perché essa aveva un grande valore innanzi al popolo, e avrebbe potuto provocare una sommossa contro la sua usurpata autorità. Astuto com’era, finse di volersi recare anch’egli ad adorare il nato Re, e mandò i Magi a Betlemme perché l’avessero ricercato, e gli avessero riferito minutamente intorno al luogo dove si trovava. Voleva saperlo per poi farlo uccidere, e s’informò del tempo della comparsa della stella perché, al suo animo crudele, abituato alle stragi, già balenava l’idea di non ucciderlo direttamente attirandosi l’odiosità popolare, ma di coinvolgerlo in una strage comune.
       Appena udita la risposta del re, i Magi partirono, ed ecco che la stella, visto nell’oriente ed eclissata ai loro sguardi, riapparve nel cielo, con immensa gioia del loro animo, indicò la via da percorrere e si fermò sulla grotta dov’era ricoverato Gesù; è probabile, infatti, che la Vergine Santissima fosse stata costretta a rimanere in quella grotta, continuando l’affluenza dei forestieri a Betlemme per il censimento. Forse la dolcissima Mamma si fermò perché Gerusalemme era poco distante da Betlemme, ed attese il compimento dei giorni legali per presentare al tempio il Bambino; forse fu disposizione di Dio che il Verbo Incarnato rimanesse ancora in quella povertà estrema, per manifestarsi così ai pagani. Il fatto certo è che Maria stava ancora a Betlemme all’arrivo dei Magi, e si trovò sola col Bambinello, essendo andato san Giuseppe o a lavorare o a disbrigare faccende.
       I Magi non videro nulla di straordinario, ma videro ciò che era immensamente straordinario da ferire l’anima d’amore: videro Maria col suo Bambino divino e furono talmente colpiti dalla santità della Madre e dalla maestà del Figlio che si prostrarono e lo adorarono, non a mo’ di saluto, perché non avrebbero potuto salutare un infante, ma lo adorarono come Re e come Dio, e gli offrirono doni, come soleva farsi ai re, e doni particolari che si addicevano al Redentore: l’oro, l’incenso e la mirra. Con l’oro lo riconobbero Re, con l’incenso lo confessarono Dio, con la mirra riconobbero la sua condizione di Vittima.
         Innanzi a Gesù Cristo e a Maria Santissima si sentirono infiammati d’amore, provarono una felicità mai sentita nella loro vita e, avvertiti in sogno di non ritornare da Erode, temendo di essere vigilati dal tiranno, se ne ritornarono per un’altra strada, segretamente, al loro paese. 
Don Dolindo Ruotolo