sabato 15 marzo 2014

Un saggio della divina gloria di Gesù Cristo

Commento al Vangelo: II domenica di Quaresima 2014 A (Mt 17,1-9)

Un saggio della divina gloria di Gesù Cristo
Il programma proposto da Gesù ai suoi seguaci: rinnegarsi e prendere la croce, aveva dovuto abbattere non poco gli apostoli, e perciò Egli, nella sua carità infinita, volle sollevarne lo spirito, con una manifestazione gloriosa che doveva imprimersi nella loro mente per i giorni tristi che sarebbero venuti.
Partendo dai pressi di Cesarea di Filippo, giunse alle falde di un monte che la tradizione individua nel Tabor e, presi con sé i suoi apostoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, ascese alla sua cima, elevata a 780 metri sul lago di Genesaret e a 400 sulla pianura di Esdrelon. Non prese con sé tutti gli apostoli, perché avrebbero fatto pubblicità inopportuna, ma volle solo tre testimoni affinché avessero potuto sostenere la fede vacillante negli altri apostoli, scossa dalla continua propaganda ostile degli scribi e farisei.
Dal modo come san Luca narra l’avvenimento, si rileva che dovette avverarsi nella notte (cf Lc 9,28ss); Gesù era infatti salito sul monte per pregare, ciò che faceva di notte, e ne discese il giorno dopo, passando la notte sull’altura. Le tenebre e la solitudine diedero all’avvenimento un maggiore risalto. Il Redentore si mise in orazione, e si raccolse tutto nella gloria del Padre. L’anima sua, attratta dalla divinità, si trovò in piena visione beatifica, e il Corpo fu reso glorioso dalla luce divina. L’ineffabile purezza di quel Corpo divino non offrì neppure il più piccolo ostacolo alla luce eterna che tutto l’avvolgeva, lo penetrava e lo rischiarava, di modo che fu tutto luce e splendore. Il volto divenne come sole, in un’ineffabile espressione di gloria e le vesti per la gran luce che emanava dal corpo, si fecero bianche come la neve o, come dice il testo greco, come la luce. Era uno spettacolo grandioso, ineffabile che rapiva l’anima, e la trasfondeva tutta di pace, di godimento e d’amore.
I tre apostoli – come nota san Luca –, prima aggravati dal sonno, si svegliarono certamente allo splendore di quella luce divina, videro due personaggi che discorrevano con Gesù e, per divina ispirazione, riconobbero in essi Mosè ed Elia.
Furono presi da timore e subito dopo da una gioia interiore così grande che non sapevano esprimerla.
Psicologicamente, nelle grandi gioie che danno all’anima un senso di riposo e di raccoglimento, la fantasia si accende e fa progetti per conservare o accrescere il benessere che si prova. Gli apostoli si voltarono intorno, videro giù le oscure valli e d’ogni parte le tenebre, ebbero orrore del mondo nel quale vivevano e pensarono subito di voler rimanere sempre in quella felicità.
Si scambiarono certamente delle parole, perché nelle grandi sorprese, ognuno crede che chi gli sta vicino non se ne renda abbastanza conto, e ci tiene a manifestare le proprie impressioni, e a tener desta l’altrui attenzione.
Scambievolmente si additavano lo splendore di quella gloria, e scambievolmente si dicevano di non volere ad ogni costo staccarsene; perciò san Pietro, parlando a nome di tutti, si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, è buona cosa per noi stare qui; se vuoi, facciamo qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia.
Egli non sapeva quello che diceva – dice san Luca –, e difatti le sue parole erano povere e inceppate, come lo sono sempre in una grande emozione di gioia, e innanzi ad una grande maestà. San Pietro avrebbe voluto dire tante cose e non sapeva quello che dovesse dire; voleva esprimere tanti progetti di felicità stabile, e non seppe proporre che l’erezione di tre tende. È profondamente psicologico, poiché, nelle grandi emozioni, i progetti della fantasia, quando si esprimono, sfumano e di tutta una ridda d’immagini che sembrano grandiose, non rimane che l’espressione di un semplice desiderio rozzamente manifestato. I progetti della fantasia sfumano come un sogno che si dilegua e la parola diventa anche più povera, non sapendosi adeguare a ciò che è già di per sé inafferrabile.

Questo è il mio Figlio diletto: ascoltatelo
Mosè ed Elia conversavano con Gesù e – come dice san Luca –, parlavano della sua dipartita dal mondo tra i dolori amarissimi della Passione. Essi rappresentavano la Legge e i Profeti, e parlavano del compimento di ciò che avevano predetto e figurato. Non è detto nel Vangelo se gli apostoli ascoltarono questi discorsi; è possibile, e in questo caso può credersi che san Pietro abbia proposto di rimanere stabilmente su quel monte non solo per conservare quella felicità, ma anche per sfuggire alle insidie di morte che si preparavano a Gesù Cristo. Egli non sapeva quel che dicesse, non potendo penetrare nel disegno del Signore. Avrebbe voluto dirigere gli eventi e prevenire quelli futuri, senza capire che doveva farsi guidare dalla parola del Redentore. Dio stesso, perciò, si degnò rispondere alle ansietà degli apostoli; una nube luminosa avvolse Gesù, Mosè ed Elia, e dalla nube, che era segno della presenza di Dio, si sentì la voce placida, solenne e grandiosa del Padre che disse: Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo. Non si trattava dunque di fare progetti, ma di seguire il Figlio divino e ascoltarlo. Quelle parole furono piene di tanta maestà che i tre apostoli caddero bocconi per terra e furono presi da un gran timore. La sublime visione era terminata, e Gesù li scosse e li esortò a non temere. Essi alzarono gli occhi e videro solo Gesù, ritornato come prima, nelle sue umili apparenze.
Albeggiava e cominciarono a scendere dal monte; sorse anche il sole, ma quella luce dovette sembrare loro un’ombra di fronte a quella che avevano vista. Ferveva in loro il desiderio di raccontare l’accaduto e può supporsi che facessero uno speciale progetto di confondere gli scribi e farisei.
La loro fede, infatti, si era accresciuta, ed essi, nel loro cuore, l’avevano ora ben salda; si stupivano come gli scribi dicessero che prima del Messia doveva venire Elia, e ne domandarono spiegazione. Gli scribi, per dimostrare alle turbe che Gesù Cristo non era il Cristo, affermavano recisamente che doveva essere preceduto da Elia, secondo le profezie. Gli apostoli, certi ormai della verità, domandarono come gli scribi avessero potuto fare quella affermazione. Gesù Cristo, leggendo nei loro cuori l’ansia di parlare dell’avvenimento grandioso della trasfigurazione, lo vietò loro fino a dopo la sua risurrezione. La divulgazione di un fatto così importante, per il malanimo degli scribi e farisei, sarebbe servita solo ad aumentarne l’ostilità e li avrebbe resi maggiormente rei.
Ad essi, come a gran parte del popolo, ignorante e prevenuto, sarebbe apparsa una fiaba, e si sarebbe così svalutato un dono di Dio. La parte del popolo che ci avrebbe creduto, si sarebbe abbandonata a dimostrazioni politiche, rendendo vano, in tante anime, il disegno di Dio, e concentrandole in una falsa aspirazione temporale. Gesù, dunque, volle che non se ne parlasse se non quando la gloria inoppugnabile della risurrezione l’avesse reso non solo credibile ma salutare per le anime.
Rispondendo poi alla domanda degli apostoli riguardante Elia, Gesù Cristo distinse due venute del profeta: una alla fine del mondo per restaurare tutto e vincere l’anticristo, e una mistica e simbolica in un grande santo che avrebbe preparato a Lui la strada nello spirito di Elia. Questa seconda venuta s’era già realizzata in san Giovanni Battista, austero e forte come Elia, e martire come lui. Il popolo non lo riconobbe, e gli scribi e farisei lo ostacolarono in tutti i modi, come ostacolavano Lui stesso, tendendogli insidie e desiderandone la morte. Se non avevano riconosciuto il Battista, e non avevano ascoltato la sua voce, pur avendo essa tanto prestigio, come avrebbero potuto credere alla gloria della trasfigurazione?
In quel momento non c’era da pensare che alla Passione e Morte, unica via scelta dalla Provvidenza per la redenzione degli uomini.
Don Dolindo Ruotolo

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