sabato 2 maggio 2015

L'unione dell'anima con Gesù Cristo

Commento al Vangelo: V Domenica di Pasqua 2015 B (Gv 15,1-8)


L’unione dell’anima con Gesù Cristo
Gesù Cristo esortò gli apostoli ad alzarsi da tavola e andar via, ma non uscirono immediatamente, perché dovettero rassettare la sala del banchetto. Mentre raccoglievano i residui della mensa, Gesù continuò il suo discorso con loro. Egli, che già si chiamò pane di vita e si paragonò al granello di frumento, vedendo gli apostoli che toglievano i vasi del vino, o forse anche vedendo qualche tralcio disseccato di vite che poteva essere nella sala per attizzare il fuoco, esclamò: Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Gesù era il coltivatore divino della vigna novella che era venuto a piantare in mezzo al popolo eletto, ma in quel momento si era donato vivo e vero come Cibo e come Bevanda, ed era Egli stesso la vite che dava il frutto soave, e lo dava perché le anime, congiunte a Lui, avessero prodotto anch’esse il loro frutto, in Lui e per Lui. Dandosi sacramentalmente, Egli si era come moltiplicato e aveva promesso di darsi a tutti i suoi fedeli, unendoli a sé; era dunque, per l’Eucaristia, come una vite che doveva coprire dei suoi tralci tutto il mondo e i fedeli erano i suoi tralci, congiunti a Lui, per attingere da Lui il succo vitale e produrre il frutto. Il Padre suo, sotto questo aspetto, era il vignaiolo e il coltivatore di questa vite divina, poiché Egli aveva mandato il Figlio suo in terra perché, salvando le anime, le avesse congiunte a sé e le avesse rese come suoi tralci vivi e fecondi. Per mezzo dei Sacramenti, e soprattutto per l’Eucaristia, i fedeli, congiunti a Gesù Cristo come i tralci alla vite nel suo mistico Corpo, avrebbero attinto la sua vita e prodotto in Lui e per Lui frutti di eterna gloria.
L’espressione più bella della schiavitù d’amore al Re divino sta proprio nel paragone della vite e del tralcio, simbolo del Corpo mistico unito al suo capo in una dedizione piena che è in Lui legame d’amore e libertà piena da ogni vincolo di morte. Il tralcio non è libero quando è congiunto alla vite, perché la sua vitalità dipende da essa; ma questa dipendenza non è oppressione o mancanza di attività proprie, è invece espansione di vita, fioritura e produzione di frutto. Se il tralcio si stacca dal ceppo e pretende di vivere da sé, muore, è reietto, è schiavo del terreno in cui giace inerte, è schiavo di chi lo raccoglie per gettarlo nel fuoco ed è schiavo del fuoco medesimo che lo consuma. L’anima che si dona interamente a Gesù, senza restrizioni, rinuncia alla propria inerzia e, per la dolce schiavitù d’amore, è tutta vivificata da Lui. Essa, più che rinunciare alla propria libertà, dona a Lui l’intera libertà di elevarla e santificarla, e vive di una libertà divina, immensamente più vera e più bella della propria effimera libertà. Sta, infatti, nell’essenza della libertà, non tanto il potere di operare il male o di degradarsi, ma la possibilità di elevarsi in Dio senza restrizione, in una continua ascesa verso le vette della perfezione e della santità.
La libertà del male è un difetto della libertà non un vantaggio, com’è un difetto il servirsi di una tastiera libera di pianoforte per strimpellarvi note confuse e accordi stridenti.
Si è veramente liberi al pianoforte quando si è legati alla melodia e al ritmo, e quando vi si suona ogni specie di musica, senza esser costretto da un diaframma ad una sola suonata o, peggio, senza esser costretto dalla paralisi del braccio o delle dita a percuotere i tasti senza nesso alcuno.
Gesù Cristo è la vera vite, cioè è il vero centro della vita delle anime, congiunte a Lui nella Chiesa e per la Chiesa. Ora, come nella vigna l’agricoltore toglie via dalla vite quei tralci che non portano frutto e pota salutarmente quelli che ne portano poco, così Dio recide dal Corpo mistico del Redentore le anime che non portano frutto alcuno, perché non assorbono più la sua vita, e purifica con le tribolazioni, le prove e le tentazioni, le anime che danno con facilità corso alle proprie miserie, e si espandono nel mondo, come un povero tralcio che si allunga lontano dal tronco, si avvinghia agli sterili pali, e disperde tutto l’umore che dovrebbe farlo fiorire e fruttificare.

Se rimarrete in me e le mie parole rimarranno in voi,
qualunque cosa vorrete e la domanderete vi sarà concessa
Gesù, rivolto agli apostoli, disse che essi erano già mondi per la parola che aveva loro annunciato, perché i loro pensieri e la loro anima per quella parola di vita erano orientati a Dio. Tutto ciò che nell’antica Legge era simbolico e transitorio, era in loro già illuminato dalla realtà, e tutto quello che di arbitrario vi avevano frammischiato gli scribi e i farisei era stato illuminato, in loro, dalla luce della verità. Nel loro spirito Egli aveva come piantato il seme della carità e dell’universalità, di modo che non erano più isolati nella cerchia ristretta di una stirpe o di una nazione né erano presi dal disprezzo verso gli altri e dall'aborrimento verso i peccatori; aveva dato loro il nuovo precetto della carità perché avessero amato tutti, e li aveva designati ad un apostolato universale, per conquistare al suo Cuore tutto il mondo. Benché conservassero ancora le loro idee e le loro debolezze, la sua parola aveva determinato nell'anima loro un mutamento radicale che avrebbe portato il suo frutto, come lo porta un tralcio potato, al primo tepore della primavera. Non bastava, però, questo per portare il frutto che Egli voleva dal loro apostolato e dalla loro anima; essi dovevano rimanere in Lui e accoglierlo in loro, dovevano attingere la sua vita e cedere la propria, dovevano essere come tralci uniti alla vite feconda, poiché senza di Lui nulla di buono o di utile per la vita eterna potevano fare.
Evidentemente, Gesù parlava dell’unione eucaristica di Lui negli apostoli, e degli apostoli in Lui. Lo stesso paragone della vite e dei tralci vi aveva relazione, poiché Egli aveva loro dato, sotto le specie del vino, il suo medesimo Sangue, quasi vite divina che aveva donato il suo grappolo d’uva e il vino generoso che corrobora le forze. È impossibile portare un vero frutto di opere buone e di apostolato senza unirsi a Gesù Sacramentato e vivere di Lui e per Lui. È questo il grande segreto della santità personale e dell’evangelizzazione del mondo. Ma, per attingere la vita dall’Eucaristia, non basta semplicemente riceverla: occorre rimanere in Gesù, donandosi a Lui, e farlo rimanere nel proprio cuore, accogliendolo come Re dell’anima. Ora, non si può rimanere in Gesù senza donarsi né lo si può accogliere senza lasciargli la piena libertà di operare in noi, secondo i fini ineffabili del suo amore. Chi si comunica senza rinunciare a se stesso, ai suoi pensieri, alle sue idee, al mondo, allo spirito mondano e a tutto ciò che lo attrae alla terra rimane un tralcio sterile, è gettato via, inaridisce ed è buono solo per il fuoco eterno.
Per questo Gesù, dopo aver parlato dell’unione eucaristica con Lui, parla della necessità di custodire la sua parola: Se rimarrete in me e le mie parole rimarranno in voi, qualunque cosa vorrete, la domanderete e vi sarà concessa. Qualunque cosa vorrete, cioè qualunque frutto vorrete raccogliere dall’anima vostra, lo otterrete rimanendo in me nella Comunione eucaristica, e facendo rimanere in voi le mie parole, nell’unione ai miei pensieri e alla mia volontà. Questa duplice unione con Lui produce la vera ricchezza delle opere buone, rende l’anima vera sua discepola, e la rende glorificazione di Dio nella vita e nelle opere.

Anche in questo passo evangelico, Gesù non promette l’esaudimento di qualunque preghiera, ma l’esaudimento delle preghiere fatte per ottenere la santificazione dell’anima e il frutto dell’apostolato, per la gloria di Dio. Ci lamentiamo della nostra miseria e della nostra debolezza; eppure, se ci uniamo veramente a Gesù Sacramentato, rinnegando noi stessi, i nostri pensieri e la nostra volontà otterremo qualunque aiuto e potremo progredire nella via della santità e dell’apostolato, per la divina gloria, unica meta della nostra vita in terra.
Padre Dolindo Ruotolo 

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